Il Cafè Chantant

cafè chantant


Storia del teatro "leggero" e i suoi personaggi, dal cafè-chantant al varietà, dall'avanspettacolo alla rivista



Storia e origini

È il nome con cui è più comunemente noto il café-concert, italianizzato in «caffè-concerto». Esibizioni di comici, attori drammatici e cantanti caratterizzavano questo genere di spettacolo, tenuto su pedane all’aperto o al chiuso in mezzo ai tavolini dei caffè e durante il quale si potevano consumare cibi e bevande. Gli artisti erano scritturati dal gestore del locale, che con quell’attrazione si garantiva una certa affluenza di avventori. Il pubblico pagava con le consumazioni il privilegio di assistere allo spettacolo, e solo in alcuni casi acquistava il biglietto d’ingresso.

Nato a Parigi nel XVIII secolo, nel XIX il café-chantant si diffuse anche in provincia e fuori dai confini francesi, fino a giungere in Italia, per la precisione a Napoli, dove l’epoca d’oro del caffè-concerto coincise con quella della canzone napoletana. E proprio agli artisti napoletani Luigi Stellato e Francesco Melber va il merito dell’invenzione dello spogliarello, nel 1875 rielaborarono un’aria popolare e scrissero il duetto ’A cammesella, protagonisti lo sposino che cerca di convincere la sposina a levarsi di dosso gli indumenti uno alla volta.

La moda del café-chantant si estese presto all’Italia intera, e furono pure progettati apposta dei locali al chiuso per ospitare questa giocosa messa in scena. Compresane l’enorme potenzialità redditizia, il 15 novembre 1890 i fratelli Igino e Carlo Marino inaugurarono a Napoli il Salone Margherita, allestito nel cuore della Galleria Umberto I, di fronte al teatro San Carlo.

L’intuizione non poteva essere pili giusta. Il Salone era frequentatissimo da tutta la Napoli bene, e il modello di riferimento rimaneva comunque quello francese: cartelloni, menu e contratti degli artisti erano scritti in francese, e in francese si esprimevano non solo gli elegantissimi camerieri che giravano per i tavoli, ma anche gli spettatori e le maschere. Al Salone Margherita si sono esibite sciantose (napoletanizzazione del francese chanteuses, «cantanti») del calibro della Bella Otero, di Lina Cavalieri, Cléo de Mérode e la romana Maria De Angelis, in arte Maria Campi, passata alla storia per aver inventato la mossa, cui Petrolini dedicò alcuni dei suoi versi maltusiani: «Maria Campi è quella cosa I che innamora il giovanetto; I se ci vai una volta a letto I stai sicur non campì più !...»

In un primo tempo le sciantose eseguivano brani d’opera e operetta; piano piano, però, presero il sopravvento le caratteristiche fisiche e la presenza scenica, e il termine sciantosa divenne definitivamente sinonimo di maliarda ! e seduttrice. In molte si inventavano addirittura un passato avventuroso per : acquistare fascino. Entravano in scena nei loro abiti soffici e piumati, circondate da una scia di profumo, intonavano: «Songo francesa e vengo da Parigi», e una ridda di fiori lanciati dagli spettatori si affollava ai loro piedi, nella speranza di uno sguardo o anche solo di un sorriso. I proprietari dei café-chantant più importanti (Gambrinus, Caffè Turco, Alambra, Partenope, Eden, Rossini) si contendevano quelle «dive», per la maggior parte napoletane dei vicoli che si atteggiavano a grandi signore e vedette. Era dunque quasi d’obbligo per loro avere un nome francesizzante: Ester Palumbo divenne Ester Clary, Maria Annina Laganà Pappacena si fece chiamare Anna Fougez, Griselda Andreatini prese il nome d’arte di Gilda Mignonette, Giovanna Santagata quello di Ester Bijou...

Soddisfatti della loro creatura, i Marino decisero di esportarla nella capitale e nel 1898 misero su il Teatro delle Varietà, in via dei Due Macelli. Ma i fratelli-imprenditori ebbero un’altra intuizione: sfruttare l’onda del successo napoletano e chiamare Salone Margherita anche il nuovo locale. Fu un trionfo, talmente vasto da costringere nel 1908 gli impresari a ingrandire il teatro, ricavare una galleria e sostituire la pedana con un palcoscenico: tavole calcate da Ettore Petrolini, Leopoldo Fregoli, Raffaele Viviani...

Valentina Pittavina


Il teatro minore è apprendistato, scuola, formazione. Fregoli come Viviani, Maldacea come Pasquariello, la Fougez come la Cavalieri, Petrolini come Totò, i De Filippo come la Magnani, Macario come Dapporto si formano alle necessità del rapporto col pubblico. Il teatro di prosa chiede rigidità preordinata (dal capocomico, poi dal regista), regole strette, tempi stabiliti. Il café-chantant, le periodiche, il variété, la sceneggiata, l'avanspettacolo, la rivista, chiedono il fiuto della situazione e degli umori del pubblico, l’intelligenza della spalla, il gusto dell’improvvisazione. Qui tutto è un insieme di piano e di sregolatezza, di ordine e disordine da rimettere sempre in discussione. La prova del pubblico è tutto. Piacere è un dovere. Se il pubblico si agita, rumoreggia, non ride, non applaude o, peggio ancora, fischia, se il numero non funziona, se la canzone o il balletto non piacciono, bisogna correre ai ripari. L’esame è spietato, le bocciature difficilmente rimediabili. E non è che i “tempi” siano più laschi e molli che nella prosa, al contrario. Solo, vanno inventati dentro lo spettacolo, ricostruiti volta per volta, elaborati e fissati alla prova del loro successo. Il testo conta relativamente: può e deve essere modificato dall’intervento dell’attore e, in definitiva, del pubblico.

Il pubblico non sa quello che vuole, ma lo scopre assistendo, e allora sa come imporre il suo piacere, come rifiutare ciò che lo annoia e infastidisce. Si ripete a ogni numero, a ogni sketch, a ogni macchietta la regola d’oro della commedia dell’arte: si recita insomma a soggetto, cogliendo l’occasione imprevista, insistendo sull’effetto riuscito, scartando quello fallito e ogni superflua lungaggine. A questa scuola sono nati i grandi attori che riconosciamo a tutt’oggi grandi. Le due sole dimensioni praticabili e sensate, necessarie, nel teatro del nostro secolo (almeno fino all’avvento di quelle avanguardie motivate dall’essere espressione di nuovi soggetti sociali), il comico e l’epico nelle loro molte forme e varianti, entrambe trovano nel teatro minore il loro nucleo originario o la loro ispirazione, e se per il comico non serve dimostrarlo, basti, per l’epico, pensare al ricorso agli insegnamenti del teatro minore che autori cosi diversi come un Brecht o un Majakovskij (ma anche tra i russi Mejerchol’d, Ejzenstejn, Kulesov, gli “eccentrici”) e in generale le avanguardie storiche (qui documentate con l’esempio futurista) hanno fatto propri, nel loro sforzo di distruzione delle forme del teatro borghese.

Café-chantant, varietà, music-hall, vaudeville, nella loro versione più povera come in quella più ricca, lasciano il posto alla rivista già avanti che la prima guerra mondiale sconvolga l’assetto politico del mondo, la preesistente logica delle classi ereditata dall’Ottocento, e sconvolga, col costume, i criteri del gusto. Ci hanno lasciato in regalo, per l’epoca successiva, il grande cinema comico americano (Chaplin e Keaton, i Marx e Fields, Harry Langdon e Mae West), cosi come Viviani e Petrolini, Totò e Eduardo, assieme ai divi e alle soubrettes, agli chansonniers e alle primedonne, di più prevedibili e transitori successo e ricordo. Un brulicare di situazioni e di pubblici, di tecniche e di modi.

La rivista ne tenta una formalizzazione unitaria, una strutturazione ordinata. Tenta, in sostanza, la definizione di un pubblico e di un mercato più omogenei e controllabili. Tenta e fallisce, poiché ben presto si ritroverà divisa in alto e basso, ancora secondo le definizioni di classe, per quanto generiche, che abbiamo indicato. Alle iniziative locali — legate a impresari locali, gestori di spazi teatrali determinati — succederanno compagnie, impresari, capocomici, divi che cercheranno di costituire catene nazionali di spettacolo, rendendo regolari le loro prestazioni e il loro successo. Lo scambio si intensifica, ma si amalgama perdendo in parte di vivacità e di vigore. Della rivista, infatti, cercano di impadronirsi i teatranti maggiori, legandola al loro carro, come variante più “facile” di un teatro di prosa ripetitivo e, tutto sommato, esangue. Anche gli intellettuali cominciano a occuparsene. Si risospingono ai margini le attrazioni, che tornano spesso al circo, loro origine, e che resteranno come riempitivi privi di reale autonomia.

Il tentativo di nobilitare il varietà facendone rivista riesce, ma paga degli scotti: la maggiore prevedibilità, alla lunga, degli spettacoli, ordinati secondo schemi adeguati al pubblico “per bene” che si cerca di convogliare nei teatri; una satira che, quando c’è, è ormai tutta interna alla logica di una simbiosi tra pubblico e autori, prodotti dallo stesso humus culturale e sociale, diventata da provocazione consolazione.


Caffè concerto, Varietà, Rivista: breve storia di una lunga simbiosi

Che non sia azzardato doversi riunire attorno ai tavoli di una taverna parigina nel 1729, per recuperare un utile punto di avvio circa la storia del teatro "minore", può confermarlo l’indecisione che solitamente assale i cronisti quando si propongono una data di partenza inconfutabile. Giacché nella trattoria Landel, ogni prima domenica del mese, un gruppo di intellettuali si riuniva per un pranzo societario obbligatoriamente intervallato dalle esibizioni dei partecipanti, nulla impedisce di assumere questo eterogeneo convivio (la Societé du Caveau) come base, appassionata e qualificata, per un’area dello spettacolo cui i decenni hanno imposto nomi diversi, destinazioni non sempre combacianti, funzioni e propositi altrettanto mutevoli.

Da Landel si davano appuntamento poeti, scrittori, canzonieri, giornalisti, verseggiatori, musicisti, commediografi e epigrammisti per "coltivare la canzone” soprattutto, ma pure per provarsi in improvvisazioni che stringevano in un unico filo, indubbiamente raffinato e non conformistico, comicità e satira, canto, recitazione, poesia.

Il “Caveau”, in altri termini, attraverso le sue successive edizioni e alterne vicende, può dunque essere privilegiato quale trasparente delle fasi iniziali di una cronaca complessa e vivace. È ben vivo, difatti, nel 1770 quando si inaugura il “Café des Musicos”, primo degli infiniti cafés-chantants sparsi un po’ dovunque in Europa, e persino quando la Rivoluzione dell’ ’89 spinge la canzone verso tutt’altre sponde. Ed è ancora la sua tradizione - sotto il mutato richiamo dei "diners du Vaudeville" - ad avere parte non marginale, nella seconda metà dell’Ottocento, in quel fervore di iniziative e di sviluppo che conduce alla nascita di alcuni famosi teatri di varietà: le "Foliès Bergère” (1869), il "Casino de Paris” (1881), il "Bai du Moulin Rouge” (1889). Pochi anni basteranno perché anche la rivista (nata nelle sale della “Union Artistique” nel 1898, con La révue rétrospective, messa in scena da un gruppo di aristocratici unitisi ad attori professionisti) entri a far parte di un cangiante ventaglio trattenitivo: con i suoi divi, i luoghi deputati, i sostenitori e i detrattori, gli entusiasti cronisti.

Districarsi tra le quinte di questo mondo scenico non è certamente agevole. Se infatti i diversi generi tutti egualmente si sottraggono ai rigidi canoni "teatrali” del dramma e della commedia, è pur vero che essi non evidenziano percorsi assolutamente autonomi. Il loro panorama, entro il quale si muovono e si prodigano alternativamente gli artisti di maggior spicco, mostra infatti evidenti tangenze, itinerari talvolta non troppo divergenti e - indiscutibilmente - punti di forza comuni. È in virtù di questi che si stabilisce un continuo interscambio, si concretano alleanze e prestiti, si vanificano preminenze o sudditanze. Il caffè-concerto, il varietà, la rivista, e pure l’operetta, l’avanspettacolo e l’attrazione, partecipando comunitariamente di avvenimenti, mode, fatti e miti, si determinano a vicenda e, di volta in volta, diversamente si collocano nel gradimento della platea. Una platea, per altro, non affatto omogenea, che appoggia ed esalta i protagonisti al di là della loro appartenenza settoriale.

Nell’arco delle decadi che conducono agli anni quaranta del nostro secolo, ogni filone vive logicamente la propria avventura spettacolare, il proprio momento magico, ma mai in maniera indipendente. Le vicende che sommuovono e rivoltano i territori contigui costringono ciascun settore a tenere d’occhio gli altri, a verificare ogni giorno il proprio stato di salute in rapporto agli antagonisti. Esiste, insomma, una sorta di costante richiamo a non distanziarsi troppo, a non recidere un cordone che è, nel medesimo tempo, motivo di autosufficienza e pure di oppressione. Intrecciata così la propria cronaca, e spesso congiunti i traguardi trattenitivi, rivista varietà e caffè-concerto accettano di buon grado confluenze e apporti, neppure negandosi possibili inversioni di marcia e negazioni del già avvenuto. Seguendoli nell’altalena della loro fortuna popolare e del momentaneo predominio, non è difficile poter individuare accettabili momenti di passaggio, * dei cambi di rotta, ma nemmeno si può dimenticare che questa alternanza è abbastanza complessa e, quasi sempre, motivata da fenomeni esterni.

Volendo dunque stabilire delle tappe, seppure con i naturali margini di sicurezza e con la ovvia aleatorietà delle rigorose catalogazioni, il café-chantant (o caffè-concerto per seguire la generalizzata testata nazionale) vive la sua stagione più apprezzata sino all’immediato primo dopoguerra. Negli anni venti, mentre il fascismo si consolida al potere e non trascura di intervenire con severe imposizioni - la censura teatrale inizia nel gennaio 1923 - il maggior successo va invece all’arte varia, un tipo di spettacolo in qualche modo da considerare come punto di passaggio alla rivista. Più antica, quest’ultima, avendo vissuto un’esperienza abbastanza indipendente dai giorni dell’esordio (nel 1867, con un lavoro di un brasiliano stabilitosi a Milano), salvo un prolungato scambio con l’operetta per naturale contiguità, si è proposta di dare concreta rispondenza alla denominazione che la qualifica: ossia di esemplare con i testi la sua volontà di passare in rassegna (in "rivista”, appunto) fatti, personaggi e motivi del costume più appariscenti.

Non sempre all’altezza di tale impegno critico e spesso portata a preferire elementi non polemici per far meglio risaltare il versante spettacolare, è chiaro che la rivista (salvo casi sporadici e personali come quello di Michele Galdieri, il quale riesce comunque a mettere in scena lavori - L'Italia senza sole, 1925 - non piegati alla totale evasione) deve completamente abdicare alla propria intenzione analitica quando la situazione nazionale si fa più pesante. Il diktat politico la costringe, giorno dopo giorno, a spogliarsi d’ogni istinto critico per consegnarsi al divertimento inoffensivo. E non è senza significato se il 1929 vede l’esordio italiano - con Donne all’inferno - della compagnia viennese dei fratelli Schwarz. Trovato un invitante e spreoccupato motivo d’incontro tra l’operetta e la rivista, essi hanno infatti affidato alla spettacolarità degli impianti scenici, al brillio delle coreografie e alla collettiva bellezza delle numerose interpreti il compito di promuovere una nuova stagione del teatro “minore” europeo. Non diversamente, tuttavia, da quanto già avviene - e da tempo - negli Stati Uniti.

Gli anni trenta, con una minima puntata nei quaranta ormai squassati dalla guerra, segnano dunque il successo pieno di un tipo di trattenimento oltremodo “leggero", non rigidamente chiuso nelle strutture ma piuttosto disponibile per diversi traguardi. La rivista può essere infatti improntata da un totale disimpegno narrativo, fidando quasi in esclusiva sulla presenza muliebre di battaglioni di girls; può far leva sull’estro e l’intelligenza di attori di prosa che accettano di sperimentarsi in un settore tradizionalmente “minore”; può sventagliare una serie di attrazioni internazionali o, infine, riservarsi itinerari intermedi, contando ad un tempo sul richiamo di nomi affermati e sul fascino di anonime ballerine.

Nello stesso periodo, in conseguenza di fatti connessi pure all’esercizio teatrale e cinematografico (che si sta dando rinnovate strutture), nasce l'avanspettacolo, un genere di “serie B”, limitato ovviamente nell’impegno finanziario e in quello spettacolare, cui spetta di rodare i divi di domani (i Rascel, i Fabrizi, i Dapporto-Campanini, i Billi-Riva), oppure di fornire passerelle estremamente popolari per gente che il gran salto non lo compirà mai (i Fanfulla, i Maddalena, i Cecchelin, coraggioso protagonista -quest’ultimo - di una convinta opposizione al fascismo tradotta in ripetuti divieti, censure e galera).

Ripassando questa sommaria cronologia, e ribadendo che i tre successivi tempi hanno un valore soprattutto indicativo, va aggiunto che caffè-concerto e rivista hanno avuto distinte basi operative: Napoli (e ad una qualche distanza Roma) è stata la capitale del primo genere, Milano del secondo.

Ai cafés-chantants, Napoli, ha fornito sedi di grande richiamo e di sicuro prestigio sin dal 1890 (il "Salone Margherita”, il "Circo delle Varietà”, l’"Eldorado”); ha patrocinato iniziative di incidenza nazionale: quella, ad esempio, de "Il café-chantant”, un mensile pubblicato per oltre venticinque anni; ha contribuito per il settore musicale con le massime firme (Salvatore Di Giacomo, Peppino Turco, Rocco Galdieri, Libero Bovio, Ernesto Murolo) e con solide imprese editoriali (la “Bideri”, la “Sontojanni”, la “Mario”); ha lanciato, infine, i nomi prestigiosi di quanti, a cavallo del secolo, hanno consentito, nella scia di quello francese, l’affermazione non soltanto nazionale del caffè-concerto italiano.

Se Parigi, con la prima e la seconda generazione dei cafés-chantants, può allineare interpreti magistrali come Yvette Guilbert, Mayol, Dranem, Polin, e poi Mistinguett, la Baker e Chevalier, la tradizione partenopea delle sceneggiate e delle “periodiche”, dei "tenori della posteggia”, dei pazzarielli e dei Pulcinella, esplode in una serie di figure oltremodo popolari e valide: Elvira Donnarumma, Luisella e Raffaele Viviani, Tecla Scarano, Gennaro Pasquariello, Anna Fougez, Peppino Villani, Gustavo De Marco, Nicola Maldacea. Ed ancora Armando Gill e Agostino Riccio. Con Maria Campi, Ettore Petrolini, Leopoldo Fregoli e Alfredo Bambi, quattro romani, la formazione "sudista” che calca i palcoscenici degli innumerevoli “Apollo", "Eden”,“Orfeo”, “Kursaal” nati in ogni grande o media città italiana è al completo.

Naturalmente, ognuno di essi possiede un suo carattere, una personalità precisa, un mestiere e anche una specializzazione che lo rende "unico” nel proprio genere, nonostante all’apparenza possa sembrare che recuperi l’eredità scenica di chi lo ha preceduto. Se il repertorio della Scarano, ad esempio, richiama immediatamente quello altrettanto popolaresco di Elvira Donnarumma, nettamente diverso è però il suo stile, appoggiato si a doti non comuni di attrice ma pure ad uno studio minuto squisitamente teatrale. Del pari distanti risultano le prestazioni di un Pasquariello e di un Gill, ché nel primo vibra una sconcertante naturalezza di tratti e di invenzioni (fuori d’ogni scuola e d’ogni insegnamento), mentre il secondo gioca interamente il suo ruolo su tutta una serie di sofisticati manierismi “aristocratici”. Ed ancora un analogo divario distanzia le macchiette di Maldacea (un repertorio di quattrocento tipi strappati alla strada, alla piazza, alla scrivania o al salotto) da quelle schizzate da Villani, pure attento a leggere e riprodurre la realtà umana e comportamentale di una certa piccola borghesia, ma maggiormente portato all’accentuazione comica, all’effetto istrionesco, e - insieme - ad una personale cedevolezza per i travestimenti in panni femminili.

Esclusi dal discorso Viviani e Petrolini, giacché entrambi presto trasmigrano nel teatro di prosa e con esiti di notevolissimo risalto (i “tipi” inventati dall’uno e dall’altro si collocano ben oltre la figura caricaturale o il personaggio ricalcato dal vero), è onesto riconoscere che il caffè-concerto non è patrimonio assoluto dell’Italia centrale e meridionale. Anche il nord contribuisce con nomi di riguardo: quelli di Cuttica e Luciano Molinari, e pure di Odoardo Spadaro, della Milly (con i fratelli Toto e Mity), di Gino Franzi e dell’importata Lydia Johnson (madre di Lucy d’Albert).

Mentre De Marco, straordinario “comico-zumpo” (ossia comico-acrobatico, dalla napoletana “zompata"), punta il proprio successo sulla facilità con cui gli riesce di trasformarsi in una marionetta in carne e ossa (Totò ne sarà l’erede diretto), il ligure-piemontese Cuttica dà vita ad un doppio filone „di invenzioni parecchio applaudite: le une legate al personaggio fisso del marmittone tuttoguai (alla maniera del francese Polin) e le altre ricavate da una fitta schiera di borghesi mezzemaniche conosciuti di persona in “scagni" di goviana memoria. L'eccezione strepitosa di Fregoli, un’intera compagnia di attori riunita in un solo interprete, il quale unisce destrezza e velocità sino a mutuarle in proverbialità, ha tuttavia un valido contraltare in Molinari, raffinato e misuratissimo imitatore cui riesce di essere Zacconi e Emma Gramatica, Novelli o Andò, con eguale puntualità di riproduzione e di sapiente accentuazione ironica.

La “rivista” che gli anni trenta condurranno alla quasi assoluta preminenza - mentre gli scambi tra caffè-concerto e arte varia (o varietà) s’infittiscono e l’operetta si piega a diverse esigenze, confortando gli umori cangianti della platea - ha vissuto a Milano l’infanzia e l’adolescenza. Anche Napoli ha tentato questa via, ma gli esiti sono risultati nettamente inferiori. Tenuto a battesimo nel 1867 dall’oriundo Carlo Gomez, con Se sa minga, e ribadito l’esito favorevole l’anno seguente con un testo egualmente dialettale (I'sogn de Milan), il genere trova presto autori di buon livello: Carlo Bertolazzi, Francesco e Giovanni Pozza, Alberto Colantuoni. La prima tappa di indiscusso prestigio la raggiunge comunque solo nel 1908, il 21 aprile, quando al teatro Filodrammatici una compagnia di goliardi (cui s’affianca anche Edoardo Ferravilla) mette in scena la Turlupineide di Renato Simoni. I tre atti del testo satirico - di lì a poco tenuto come base per una lunga serie di imitazioni che ne riecheggiano anche il titolo in "eide” - coinvolgono e portano in passerella temi e personaggi d’attualità: Caruso, Mascagni, Giolitti, Pascoli, Turati, D’Annunzio, i socialisti, i clericali, gli scioperi tramviari, il turismo straniero nella Penisola. La "rivista” degli avvenimenti è ricca e pungente, nella tradizione di un parlare schietto, oltre comodi paraventi e ambigue riserve.

È ancora tempo di libertà e l’esperimento di un’apposita formazione (la "Taverna Rossa”), nata a Milano nel 1914 sulle tavole dell’antico "Eden” e sotto la guida di Carlo Rota, per alcune stagioni si concreta in numerosi titoli di successo. Li firmano commediografi, giornalisti, scrittori: da Colantuoni a Fraccaroli, da Mazzuccato a Veneziani, a Scalarini, Rossato, Serretta, Zambaldi. Gli interpreti (oltre a Rota, allievo di Ferravilla) si chiamano Collino, Barella, Maria Donati, Gigi Ferrari, Olga Fabbri, Mara Ravel. Tra le reclute figura Anna Menzio, la futura Wanda Osiris.

Contemporaneamente, a Torino, l’attore Eugenio Testa e lo scrittore-caricaturista Giovanni Manca avviano un’altra fortunata iniziativa rivistaiola. La loro “ditta”, cui collaborano per i testi anche Bel Ami e Ripp, fa leva sui nomi di Emma Sanfiorenzo, Isa Bluette (più tardi a fianco di Nuto Navarrini), Milly, e su quello - ancora sconosciuto - di Erminio Macario. Nel 1921 prende pure forma un tentativo parecchio travagliato e certo sconcertante per il provinciale pubblico italiano: quello del "Teatro della Sorpresa”, una compagnia futurista diretta da Rodolfo De Angelis, poeta-giornalista-attore-pittore-commediografo e soprattutto amabile biografo del palcoscenico "minore", e con l’intervento di F. T. Marinetti. Varato al Mercadante di Napoli, lo spettacolo subisce violenze, contestazioni, critiche ed entusiasmi, provoca baruffe e gesti scalmanati, accende polemiche a non finire. Viene ripreso l’anno seguente, come "Nuovo Teatro Futurista” e con la devota partecipazione di alcuni accaniti marinettiani: Cangiullo, Prampolini, De Pero, Casavola, Mix. Ma i risultati non sono meno contrastati.

La stagione della vitalità critica, dell’impegno cattivo, della satira politica è ormai al tramonto. L’epitaffio lo pone, nel 1922, Manicomio! di Ramo-Rota-Galli, ove l’attore-cantante Lino Medini, esatta controfigura di Mussolini, sostiene il ruolo di un folle fuggito da un ospedale "parlamentare”. Anche il duce assiste alla rappresentazione al Costanzi di Roma: un mese dopo, presso la Presidenza del Consiglio, viene istituita la censura sui testi teatrali.

Negli anni che precedono il 4 novembre 1929, quando gli Schwarz presentano a Milano Donne all’inferno, le compagnie d’operetta s’adeguano al nuovo corso della rivista. Intuendo che, troncati gli umori irriverenti, il richiamo dovrà essere interamente incentrato nello sfarzo, le coreografie e l’evasione, parecchi capocomici decidono di mutare rotta. Armando Fineschi e Maria Donati, Guido Riccioli e Nanda Primavera, Nuto Navarrini e Isa Bluette, Achille Maresca, s’industriano a trovare un giusto equilibrio tra la loro antica ed esperta fatica e l’occasione nuova. Rinforzano perciò i quadri attingendo nel caffè-concerto e nel varietà; Totò passa in rivista nel 1928; lo seguono Nino Taranto, Guido e Ciccio De Rege e parecchi altri.

L’inedita forma di spettacolo non attrae però solamente quanti, da anni, stanno battendo i palcoscenici deH’arte varia. Anche gli attori di prosa si lasciano tentare dalla curiosa esperienza, ed è proprio la compagnia diretta da Dario Niccodemi, una delle più affermate e professionalmente qualificate, a volersi provare per prima in questo cambio di marcia. Un testo di Oreste Biancoli e Dino Falconi, Triangoli, fornisce lo spunto per portare avanti - in tre tempi - una minima vicenda affidata all’esperta interpretazione di Elsa Merlini, Luigi Cimara, Ruggero Lupi e Nino Besozzi. Neppure passa una stagione e un’altra formazione di grido, la "Za-Bum” guidata da Mario Mattoli e Luciano Ramo, opta anch’essa per il teatro leggero. Questa volta, con Le lucciole della città ancora di Biancoli e Falconi (chiaramente ispirata nel titolo al chapliniano Le luci della città), debuttano in rivista Vittorio De Sica, Umberto Melnati, Pina Renzi, Amedia Cheliini, Giuditta Rissone, Camillo Pilotto e Franco Coop.

Nello stesso anno, il 1931, uno spettacolo di particolare impegno produttivo, Wunder Bar viene importato in Italia: alla sua versione - una trama comicodrammatica offre il pretesto per la successione di esemplari numeri d'attrazione -partecipano attori e attrici dell’operetta, della rivista, della prosa: Armando e Arturo Falconi, Mario Brizzolari, Titina, Aldo Rubens, Cesare Zoppetti, Tino Erler. È chiaro che i generi hanno ormai trovato una pacìfica coesistenza e che il tempo di una netta separazione tra palcoscenico "minore" e “maggiore” ha i giorni contati. Alla rivista stanno collaborando vedettes come Isa Bluette e Anna Fougez, per le quali si allestiscono sontuosi spettacoli: Gatte di lusso, Trionfo italico, Donne, ventagli e fiori, e attori d'impegno come i De Filippo. Anche Eduardo firma alcuni copioni; di lì a poco sarà la volta dì Mosca, Guareschi, Manzoni, Campanile. Nel 1937 va in scena Bertoldissimo di Falconi e Frattini, un omaggio al popolare settimanale umoristico diretto da Mosca e Metz ("Il Bertoldo").
Quando nel giugno 1940, con la guerra alle porte, gli Schwarz abbandonano l’Italia dopo tanto fruttuoso e remunerativo lavoro (il loro ultimo spettacolo è Mille e una perla, ma il pubblico ancora ricorda i temi del loro Al Cavallino Bianco), e Odoardo Spadaro è l’interprete - con Lucy D’Albert - di 41 ma non li dimostra, due autori parecchio affermati, Luciano Ramo e Sandro Dansi, si accingono a scrivere Questa sera si fa la rivista!, un copione tagliato a misura sulle spalle della popolarità di una Dina Galli!

Ha quarantun anni (e molti in più) e davvero non li dimostra. Dietro l'angolo stanno i Rascel, i Fabrizi, le Magnani, i Sordi, i Chiari, i Dapporto, le Nava, gente che si è formata sulle tavole dell’avanspettacolo e che si appresta a rinforzare i quadri dei Macario, Osiris, Totò, Taranto. Anche gli autori e gli organizzatori si rinnovano, ma i "vecchi" tengono bravamente sulla breccia: Biancoli, Galdieri, Paone, è di quest’ultimo, appunto, la sigla più prestigiosa del teatro italiano: dal 1927 i suoi "Spettacoli Errepi” hanno visitato la prosa, la musica, l'operetta, la rivista, il varietà, le grandi attrazioni.

Claudio Bertieri


Così la stampa dell'epoca

Il Café-Chantant, raccolta di articoli di stampa


1928 05 Cafe Chantant Cafe Chantant Varieta L

«Cafè Chantant», maggio 1928


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Il sessantenne “Maxim’s” fa la beneficenza, come una vecchia signora della buona società

Una di queste ultime sere di febbraio, il Maxim’s, il più noto e più tipico caffè-concerto parigino di fine ’800, festeggerà i suoi sessant’anni con un grande ricevimento, al quale saranno invitate trecento persone, "scelte per il loro spirito primo-novecento” : l’incasso della serata andrà a beneficio della Croce rossa inglese e francese. E così il Maxim’s, ormai caduto in una vecchiaia irrimediabile, dopo una giovinezza scapestrata t una maturità di costumi non meno facili, si dedicherà, almeno per una volta, a un’opera di beneficenza, come accade appunto alle signore della buona società al declinare della vita.

Certo, il mondo che ha creato il prestigio e la gloria internazionale del Maxim’s oggi è scomparso. La "bella Otero”, danzatrice e chanteuse spagnola, rivelazione delle Folies-Bergère e prima ”stella” del Maxim’s, è ora una vecchia di ottantanni che aspetta, a Nizza, la morte, nella più grande miseria; Cléo de Mérode, danzatrice classica del-l’Opéra, e travolgente passione senile di quel vigoroso vecchio che era Leopoldo II del Belgio,, è morta da tempo; e pure morte sono Liane de Pougy, la "grande cortigiana di Francia”, amica di Jean Lorraine, Suzanne Derval, un’attrice straordinaria, madre dell’attuale direttore delle Folies-Bergère, la stupenda Lantelme, la donna più alla moda del suo tempo, perita misteriosamente durante una gita sul Reno, a bordo dello yacht di un magnate della stampa, e Bresil, alta e vivacissima, per molti anni la donna più elegante di Parigi. Un’altra gloria del Maxim’s, la dolce e delicatissima Èva Lavallière, vinta da una clamorosa crisi di coscienza, durante la prima guerra mondiale, ha vestito l’abito e vive tuttora in un convento parigino.

Allo stesso modo, ormai decrepiti o nella tomba, sono scomparsi i celebri e raffinati frequentatori del caffè-concerto di rue Royale 3, quelli che scendevano al Maxim’s, tutto ricoperto di velluto rosso come uno scrigno, dopo la mezzanotte, con il fiore all’occhiello e il bastoncino dal pomo d’argento : erano re, principi, nobili, capitani d’industria, romanzieri alla moda, e il loro tavolino era conteso dai camerieri e dalle demi-mondaines, sempre numerose e in agguato. Al Maxim’s, mezzo secolo fa, era facile incontrare Leopoldo II, che fuggiva appena poteva da Bruxelles per sfogare a Parigi la sua incredibile vitalità, il barone di Rothschild, Gordon Ben-nett, il fondatore del New York Herald, che lasciava cento franchi oro di mancia alla venditrice di rose del locale, Coco de Contades, che pretendeva di trovare ogni sera sul piatto una coda di maiale arrostita e che raccomandava ai camerieri di non muoversi troppo in fretta attorno a lui per non sollevare la polvere, di cui aveva orrore, il conte di Seyssel, che si faceva servire soltanto due uova al tegame e una bottiglia d’acqua minerale e che puntualmente, alle due del mattino, cominciava a russare col capo ciondoloni, e il re del cotone, Mac Fadden, che una sera, come ultimo piatto al termine di una cena, si fece portare su un vassoio d’argento una meravigliosa ragazza, coperta soltanto da un lungo manteflo di raso.

Il cliente più stravagante e spiritoso era Maurice Bertrand, un caratteristico figlio di notaio che dilapidava i sudati guadagni paterni e che approfittava della sua posizione di rappresentante della casa Heidsieck-Monopole, produttrice di champagne, per lasciarsi andare a sbornie formidabili. Una sera Bertrand organizzò con un gruppo di amici un autentico funerale, con donne in gramaglie e uomini travestiti da becchini. Giunto davanti al Maxim’s, il corteo infilò diretta-mente la porta del caffè-concerto e scese nel salone. Qui, davanti alla folla sbigottita, Bertrand chiese, fingendo un tremito nella voce: «Signore e signori, volete vedere per l’ultima volta il nostro migliore amico?». Prima che la gente del locale si riavesse, Bertrand scoperchiò la cassa e ne trasse la prima delle cinquanta bottiglie di champagne che vi erano sepolte.

Il locale era elegante, ma non imponente né sfarzoso. «Il Maxim’s», ha detto Paul Valéry, «è stato un sottomarino che s’è portato a picco il decoro di un’epoca». E questo "decoro” era chiuso in pochi metri quadrati, nello spiazzo per i tavolini, tra i quali vagolavano camerieri e fioraie, nel recinto dell’orchestrina, e nel piccolo palcoscenico, dove à avvicendavano la canzonettista che apriva lo spettacolo e che il pubblico si divertiva a motteggiare, il giocoliere, il duo o il trio atletico, magari il prestigiatore o il cane ammaestrato, l’immancabile chansonnier, il tipico parigino dicitore, cantante, comico e macchietta e finalménte la stella intemazionale, chanteuse che lanciava la canzone di moda e ballerina che scuoteva la lunga e ricca gonna sulla cadenza del valzer o della mazurca.

Fra pochi giorni, dunque, il Maxim’s compie sessantanni, sessantanni con due guerre mondiali che hanno distrutto ben altro che la moda dei caffè-concerto. Eppure, mentre centinaia di questi locali (come l’Eden e l’Apollo a Milano, il Margherita a Roma, il Maffei a Torino) sono chiusi da tempo, il Maxim’s, il capostipite più glorioso, resiste e sotto la direzione dell’ultimo dei grandi maitres d’hótels parigini, Albert, allievo dell’insuperato Léon Volterra, tenta di ridare lustro al blasone. Per la verità, sessantanni fa. sui dieci modesti metri di facciata di rue Royale 3, non esisteva il Maxim's, neppure di nome, ma soltanto la gelateria di un italiano immigrato, un certo Imoda, il quale teneva alle sue dipendenze un garzone intraprendente. Il passaggio del locale da Imoda al garzone, che si chiamava Maxime, avvenne nel 1891, due anni dopo l’apertura del locale, quando il gelataio, in occasione del 14 luglio, festa nazionale francese, credette di compiere un gesto spiritoso e di farsi della pubblicità pavesando la vetrina del negozio con la bandiera tedesca. Ma i francesi, scettici in tante cose, non sanno stare allo scherzo quando si tocca l'onore nazionale e, da un momento all'altro, in fola, invasero il locale e lo misero a sacco.

Dopo un colpo così duro, il gelataio si ritirò e il garzone Maxime spese tutti i suoi risparmi per riparare i guasti e trasformare la gelateria in ristorante. Gli inizi furono tutt’altro che brillanti e il locale passò da un proprietario all’altro, tenendo fermo soltanto il nome, quello dello sfortunato garzone. La fortuna si spalancò d’improvviso nel 1893, quando il milionario dell’epoca, Max Lebaudy in persona, entrò una sera al Maxim's, vi si trovò benissimo e dichiarò di non aver mai conosciuto al mondo un altro locale che potesse tenerne il confronto, quanto a "classe”. Era fatta: dietro Lebaudy vennero tutti, a valanga; principi del sangue e magnati, nobili e uomini illustri. La prima guerra monj-diale rinnovò in parte la clientel per qualche tempo il Maxim’s fu il ritrovo degli eroi dell’aria francesi, poi degli ufficiali americani in Europa, poi, verso il '20, dei grossi nomi dello sport, pugilatori per lo più.

Oggi, gran parte della nobiltà è caduta sui campi di battaglia o sul fronte dell’inflazione, gli eroi sono tornati a fare gli impiegati di banca o giù di lì, e i pugilatori hanno scelto come patria l’America. E il Maxim's, saggio come una signora della buona società, si adatta a fare della beneficenza, per festeggiare il sessantesimo compleanno.

Vittorio Buttafava, «Oggi», 23 febbraio 1949



Comoedia, agosto 1934 - Il fratello minore 

Il Dramma, 1 settembre 1936 - Caffè Concerto fine 800, di Luciano Molinari - Parte 1

Il Dramma, 15 settembre 1936 - Caffè Concerto fine 800, di Luciano Molinari - Parte 2 


2008 01 28 Trubuna Novarese Cafe Chantant Toto intro

Nella grande stagione del cinema western americano, il caffè, la cui preparazione veniva eseguita per bollitura, viene consumato al crepuscolo, davanti ad un fuoco acceso nella prateria quasi come fosse una liberazione, dopo una giornata di scorribande contro gli indiani. Il connubio John Ford - John Wayne lo dimostra piu’ volte.

Lo si consuma all'alba a Fort Apache (ne "I Cavalieri del Nord Ovest"), lo si consuma per smaltire una sbornia (in "Ombre Rosse"), lo si consuma semplicemente come bevanda in "Un Dollaro D'Onore", dove prende il posto del whisky; lo si consuma, ancora, per spegnere un falò, come accade in "Cowboy". Oppure in un altro grande classico, quale "Johnny Guitar", Sterling Hayden sembra realizzare il primo spot pubblicitario quando recita "Niente di meglio che una fumata ed una tazza di caffè". Al contrario di Kevin Costner ne fa merce di scambio in "Balla Coi Lupi".

Nella filmografia italiana, risalendo al neorealismo, si mette in luce la moka ottenendo, al contrario che nelle pellicole americane, una bevanda corposa, profumata e consistente.

Testimonianze evidenti si hanno soprattutto nel dopoguerra con Totò in "Totò Terzo Uomo" in cui il principe De Curtis ordina un caffè corretto al cognac. In "Miseria e Nobiltà" si parla di “caffelatte senza caffè ...e senza latte”. In "La Banda degli Onesti" c’è un'intera scena dedicata al caffè; ne "I Tartassati" con Totò che sostiene "Prendo tre caffè alla volta per risparmiare due mance".

La tazzina domina ancora la scena in "Sua Eccellenza si fermò a mangiare", "Totò, Peppino e la dolce vita", "Guardie e Ladri", in cui il protagonista sorseggia il caffè direttamente dalla moka e ne "I Due Marescialli", nel quale ne contesta alla cameriera il sapore.

«Tribuna Novarese», 28 gennaio 2008 - Pagina 1


Spettacolo e "periodiche"

Il “caffè-concerto” che, dalla fine dell’Ottocento, sino a qualche anno dopo la “prima mondiale”, ebbe le più insperate fortune, originariamente non era dissimile da quei caffè con pedana, orchestrina e cantanti, nei quali si può sostare ancora oggi; e dove, mercè un aumento (non certo di cent. 10, come allora) sulla consumazione, ci si può soddisfare, a un tempo, palato e udito.

Il modesto genere di spettacolo, cominciò a lievitare allorquando sulle pedane dei caffè, al chiuso, o all’aperto, a “romanziere” inguainate in lunghissimi abiti a strascico (nivei, a preferenza, e orlati di merletti), a tenori e baritoni (il basso era escluso), in perenne attesa di contratti per i grandi teatri d’opera, si sostituirono prosperose figliole del popolo del tutto sprovviste di beni vocali ma ricche di sorrisi affascinanti, di turgidi seni e di abbondanti natiche.

Teatrini sorsero in ogni palazzo gentilizio, ne’ collegi, ne’ conventi, persino nelle stanze di modeste abitazioni. Queste feste di famiglia si dissero “periodiche” (trattenimento a giorno fisso). Nelle famiglie nobili funzionava il buffet freddo. Dalle “mezze-calzette”: frittelle e rosoli di fabbricazione casalinga. Nelle case dei poveri: tarallucci e vino.

In una di queste “periodiche” altolocate (siamo al 1891), si fa notare un canzonettista comico, che ha già affrontato il pubblico nelle compagnie del celebre “Sciosciammocca” Eduardo Scarpetta e di Gennaro Pantalena.

Un “soffietto” su un giornale da parte di un giornalista che è intervenuto al trattenimento frutta al giovine una scrittura per il Salone Margherita a dieci lire serali. Il programma di questo café-chantant, dopo qualche giorno, porta fra gli altri anche il suo nome: Nicola Maldacea.

Rodolfo De Angelis


Si può anche bere!

Con questa esclamazione, tra esortativa e perentoria, un vecchio cameriere calvo e plantigrado si aggirava tra le poltrone dell’antico “San Martino”. E infatti ogni poltrona — lì, come al Maffei e al Romano di Torino, alla Sala Umberto o al Salone Margherita di Roma o allo stesso Trianon milanese — recava sul retro dello schienale una specie di sportello ribaltabile sul quale, all’occorrenza, si deponeva il boccale di birra, il bicchierino di liquore o la tazzina di caffè. A dire il vero, in quel tempo l’usanza era diffusa nei teatri più seri. Persino nei sussiegosi Manzoni e Filodrammatici, negli aristocratici Carignano e Paganini, nel Valle e Mercadante era possibile consumare una bibita senza muoversi dal proprio posto e i camerieri circolavano negli intermezzi a caccia d’ordinazioni.

Il milanese teatro Olimpia, poi, esagerava. La prima fila di poltrone aveva addirittura i suoi bravi tavolini in ferro smaltato e altri tavolini erano disseminati nel recinto dei soli ingressi. Non di rado i camerieri finivano per servire gli spettatori-clienti quando il sipario si era già levato, e ci volle la fiera suscettibilità di Ruggero Ruggeri per far cessare lo sconcio. Una sera il grande attore — a quel tempo non era ancora il Maestro, ma la sua arte era fulgida sin da allora — senti punteggiare una delle sue battute dall’acciottolio delle sottocoppe.

“Chi vuol bere vada al caffè e non a teatro”, gridò con uno dei suoi famosi falsetti.

E fece calare il sipario. Dopo di che, affrontò con fredda collera il buon Zerboni, che del teatro era il gestore, e gli dichiarò che non avrebbe più recitato all’Olimpia se ai camerieri non fosse stato severamente proibito di circolare in platea a spettacolo iniziato.

Quello del caffè-concerto era uno spettacolo del tutto particolare. Al “varietà” si andava con lo stesso stato d’animo con cui si andava al caffè: per vedere un po’ di gente, per far passare il tempo e per scacciare i pensieri. Anche se fra gli attori di quel tipo di teatro vi furono degli autentici artisti — e ve ne furono, e non pochi — d’arte nessuno avrebbe mai osato parlare.

Figurarsi! Di solito i primi cinque numeri del programma (che in genere ne contava venti, ma tre di essi erano economicamente costituiti dalle introduzioni musicali alla prima e alla seconda parte e dal galop finale, eseguiti dall’orchestrina del locale) non erano che un pretesto per trasformare la platea nella riuscita imitazione d’un atrio di stazione, tanti erano i fischi e il chiasso che vi si scatenavano. Gli è che in quell’inizio di spettacolo si esibivano quasi sempre delle impacciate donnine smaniose di cimentarsi nel teatro di varietà, ma assolutamente sprovviste della benché minima esperienza teatrale. Si sussurrava anzi che costoro non fossero mai pagate dall’impresa e che talvolta fossero addirittura loro a pagarsi quella specie di noviziato. Il fatto sta che con tali poverette il pubblico non aveva pietà. Non valeva la bellezza, non valeva l’eleganza, non valeva la voce: erano “i primi numeri” e solo per questo andavano fischiati. Qualcuna di esse, più proterva e sfacciata, ardiva ribellarsi. C’è chi si ricorda i debutti di Anna Fougez, colei che doveva diventare un giorno la superstella del varietà, e rammenta i saporosi napoletanissimi battibecchi di quella piccante brunetta dagli occhi di fuoco coi suoi spietati fischiatori. Fu anzi probabilmente lo spirito indiavolato della divetta alle prime armi che convinse gli impresari delle sue possibilità di successo e la aiutò a percorrere più in fretta la scala ascendente dei “numeri” del programma.

D’altra parte i nomi di cartello non mancavano. Avesse oggi la rivista un così ingente materiale umano applaudito tra cui scegliere le proprie vedette. Principiamo dalle soubrettes, che allora, però, si chiamavano “stelle eccentriche”, sebbene risulti difficile stabilire in che cosa consistesse, poi, quella loro vantata eccentricità. Il primo Novecento ne ebbe di illustri, da Emma Lacroix, detta “Tutta bionda,” a Ersilia Sampieri e Eugénie Fougère, napoletana, che lanciò la celebre E llévate 'a cammesella mimando la scena descritta nella canzone e togliendosi perciò volta per volta la “cammesella”, lo “zinalino”, la “sottanella”, il “corpettino”, fino a restare seminuda, in una quasi anticipazione dello strip-tease degli attuali burlesques oltre oceanici. E c’era la formosa Maria Campi, “romana de Roma”, specialista nella “mossa”, un passo di danza tanto provocante ed audace che in certi locali la Questura fini col proibirlo. Maria Campi, apparsa agli albori del Novecento, rimase sulla breccia fino a una quindicina d’anni fa, emulando la parigina Mistinguett sia per la briosa longevità, sia per la dovizia dei gioielli dei quali amava caricarsi.

Dino Falconi, Angelo Frattini


Le attrazioni

Ve ne ricordate? Sembra ieri che, seduti intorno a tavolini traballanti, sui quali troneggiava un economico quanto cicoriaceo caffè, segnavamo, battendo il cucchiaino di stagno sulla tazzina slabbrata, il ritmo del ritornello di una canzonetta salace che una donnetta in sottanine corte, guarnite di parecchi volants stonava a gola spiegata. Sembra ieri e, al tempo stesso, se ne ha un ricordo vago, se pur sorridente, come delle birichinate che si architettavano in classe all’ora del professore di francese.

Il café-chantant... In Italia si era cercato di nobilitarlo un poco e gli si era affibbiato un nome che certo deve aver fatto inorridire i conservatori musicali: caffè-concerto. Gli inglesi, poi, l’hanno addirittura battezzato music-hall, sala di musica, bandendo dal suo nome il caffè, come già di fatto l’avevano bandito dalla omonima infusione i bar dei caffè-concerto continentali. Infine si pensò, senza dubbio, che quel titolo in cui bibite e musica fraternizzavano, era un abbassare troppo il teatro relativo, e si ideò di chiamarlo spettacolo di varietà. In che cosa consistesse, poi, la promessa varietà, nessuno l’ha mai saputo. Tali rappresentazioni erano adorabilmente monotone. Il loro programma era immancabilmente composto da quanto segue:

Numeri 1 e 2 - Orchestra.

Questo era un piccolo stratagemma dell’impresario: in quelle due suonatine — la sninfarola, dicono a Roma — si perdeva una diecina di minuti, il che equivaleva a un artista di meno da pagare.

Numeri 3, 4 e 5 - Canzonettiste.

Erano i cosiddetti “primi numeri”, croce e delizia di ogni varietà. Gli storici del tempo asseriscono che sovente i “primi numeri” non venivano pagati; si esibivano nella speranza d’una scrittura più o meno redditizia o forse al solo scopo di mettersi in mostra. Certo si è che ci tenevano molto a non farsi chiamare canzonettiste: divette, ecco. Buffo appellativo, in cui alla prosopopea di esser diva, si fondeva l’umiltà d’un diminutivo.

C'erano anche le “eccentriche”, per vero dire; ma che cosa avessero poi d'eccentrico noi non lo sappiamo, né in che cosa differissero dalle “divette”. E c’erano persino le “eccentriche a trasformazione”, le quali usavano cambiar d’abito a ogni canzone; erano quelle che sulla toeletta da sera indossavano la giacchetta grigia di qualche “amico” e, piantandosi sul capo, di traverso, una paglietta ingiallita, cantavano canzoni originariamente scritte per interpreti maschili.

Numero 6 - Ginnasti.

Veramente il pubblico diceva: “Ci son le forze”. Questo numero proveniva dal circo equestre; dapprima, infatti, coloro che vi figuravano vestivano come gli atleti delle fiere: maglietta carnicina e pelle di finto leopardo. Più tardi (e se non erriamo l’innovazione fu dovuta ad un celebre Trio Ausonia) abolirono la maglietta ed apparvero nudi, eccezion fatta per un esiguo paio di calzoncini. La qual cosa stizziva gli spettatori maschi, che dicevano: “Perché loro che sono uomini, si, e le altre che son donne, no?”

Fra i ginnasti, naturalmente, andavano comprese le molte sottospecie: i trapezisti, gli sbarristi, gli eccentrici cascatori, i ciclisti, i contorsionisti e gli antipodisti. Questi ultimi erano onesti signori che, sdraiatisi supini su di un aggeggio ad hoc, e alzate le gambe in aria, facevano ballare sui piedi botti, tavole e bottiglie, ammirati ed invidiati soprattutto dai portalettere e dai camerieri.

Numero 7 - La “cantante di voce”.

Qualcuna si faceva anche chiamare “romanziera” perché cantava romanze e non canzonette. Ma la maggior parte, forse temendo d’essere confuse con Grazia Deledda e Matilde Serao, preferivano l’appellativo classico “cantante di voce”, come se ci potesse essere una cantante di gesto o di sguardo. Cavalli di battaglia: Vissi d'arte, vissi d'amore ed Ebben ne andrò lontana. Si trovava anche chi si spingeva fino a Voi lo sapete, o mamma, ma eran poche, giacché al famoso “Ah! Io piango...” c’era da piangere davvero.

Seguivano alla rinfusa un giocoliere, un prestigiatore ed una danzatrice, la quale era classica, caratteristica, internazionale od orientale. Ne abbiamo conosciuta una che si faceva denominare “si-caliptica”, ma per quanto cercassimo nei vocabolari non si riuscì mai a sapere che cosa volesse dire. E, a onor del vero, non lo sapeva neanche lei dato che alla nostra domanda rispose con aria distante: “Perché ballo a piedi nudi.” Evidentemente per lei i marinai, quando lavavano la tolda, erano marinai sicaliptici.

Dopo di che veniva il “comico”, il quale mandava in visibilio con una serie d'indecenze gli studenti e i commessi viaggiatori e costernava le madri di famiglia che avevano inconsideratamente portato a teatro le figliole da marito. Qualche volta il comico, ordinariamente definito “il beniamino di tutti i pubblici”, era sostituito dal “fine dicitore”, detto anche “il principe della canzone”. Era costui un signore in marsina, con tanto di fiore all’occhiello e gibus sulle ventiquattro, che raccontava in versi e a tempo di musica alcuni casi pietosi come quello del bambino senza mamma o del gentiluomo ridotto alla miseria per una mala femmina, ma che ci sorrideva sopra amaramente perché il mondo lo aveva reso “glacial” e scettico egli era. Tutte cose che venivano dette col riflettore blu e a ribalta spenta, ché e per caso si fosse acceso succedeva un finimondo.

E infine, preceduta da una brillante e squillante marcetta d’introduzione, apparta la “diva”, alias la “stella” ovverosia : la "vedetta”. Era in genere quella che una ventina d’anni fa si usava chiamare una 'orizzontale'. Una bella creatura non più giovanissima, che non si peritava a mostrar le gambe, che rimbeccava con sfrenatezza tutti gli spettatori in vena di far zìi spiritosi, che lanciava gli ultimi successi della canzone e pretendeva ostinatamente che il pubblico ripetesse in coro il ritornello. Strass, aigrettes e paillettes erano i suoi ferri del mestiere e se cominciava il suo numero con aria di gran dama, finiva sempre con l’incanagliarsi via via, con gran soddisfazione della platea e più ancora del loggione che forse la sentiva cosi riaccostarsi alle proprie origini. Bis, ter, quater... Poi, otto battute di galop finale accompagnavano lo sfollarsi della sala.

Dino Falconi, Oreste Biancoli


Circo, acrobati ed equilibristi

Tutti i numeri del caffè-concerto e del varietà sono in realtà delle attrazioni. Gli attori, per imporsi al pubblico, tendono all’elaborazione di un genere unico ed esclusivo: il “bel canto” di Pasquariello e Donnarumma o il marionettismo di De Marco nascono dal connubio tra le proprie capacità con l’invenzione e l’utilizzazione di esse in maniera nuova, fuori dalle regole. Anche i divi francesi sono considerati delle attrazioni: attrazioni per il pubblico, attrazioni per gli aspiranti attori che li prendono a modello.

Ma dalla seconda metà dell’Ottocento nei teatri dove si fanno “spettacoli di arte varia” si esibiscono vere e proprie “attrazioni” che mettono in risalto le commistioni tra il caffè-concerto e generi come il circo o lo spettacolo di piazza, quello dei baracconi che giravano per fiere e mercati.

La gamma di questi numeri è vasta e varia, e sempre in rapporto alla “categoria" dei vari teatri. I grandi caffè presentano numeri di eccezione, scelti tra quelli di maggior richiamo. Per anzianità e quantità il primo posto spetta agli illusionisti: il torinese Bartolomeo Bosco si esibiva nei teatri fin dal 1856, come il napoletano Ernesto Fourier reduce dei grandi trionfi presso le differenti e Reali Corti d’Europa - Suggestione - Ipnotismo - Elucubrazioni notturne, che faceva scomparire le persone chiudendole nel suo baule a doppio fondo, tirava fuori fiori, foulard e colombe dal cilindro, si esibiva in giochi di carte e ingoiava palline d’avorio che faceva ricomparire in varie parti del suo frac. Gabrielli fu un famoso ipnotizzato-re, i suoi esperimenti erano basati sulla suggestionabilità dei soggetti scelti per i numeri, e in sala disponeva sempre di ‘soggetti conosciuti” a cui ricorrere, nel caso che tra il pubblico non vi fossero persone adatte. L’“uomo cifra”, Inaudi, eseguiva qualsiasi tipo di calcolo all’istante, estraeva radici quadrate e cubiche e sapeva dire che giorno della settimana era, per esempio, il 6 giugno del 1876. Il pubblico arrivava in teatro con calcoli già svolti per verificare la sua bravura.

Una popolarissima attrazione consisteva nella lotta greco-romana e i più acclamati tra i lottatori furono i fratelli Raicevich. Si organizzavano match con campioni di altre nazioni, come Paul Pons, campione del mondo. Al Lirico di Milano il primo incontro Raicevich-Pons fu annullato e ripetuto per permettere a tutti coloro che non avevano trovato posto di esser presenti alla replica.

Ci sono poi gli acrobati, gli equilibristi, i cascatori: tutti numeri da circo cui il varietà ricorse sempre più massicciamente, offrendo un mercato di lavoro più sicuro che non quello delle fiere e dei piccoli circhi ambulanti.

 

Molti dei numeri si basavano su capacità straordinarie degli animali, animali sapienti, animali addestrati che vengono presentati al pubblico. Lo scimpanzè sapiente indossa smoking, scarpe di pelle lucida e monocolo, sa adoperare forchetta e coltello, sa andare in bicicletta; l’anitra canterina fa il duetto con il presentatore gracchiando a tempo di musica; il cane calcolatore azzanna, su richiesta, dieci grandi numeri di cartone.

E vanno ancora aggiunti all’elenco i danzatori sul filo, i giocolieri, il trio ciclistico, i ballerini acrobatici e l’uomo serpente, un contorsionista vestito da serpente che si contorce fino ad arrivare col naso sotto la schiena.

Le attrazioni spariscono con gli anni Quaranta. Sopravvivono solo gli illusionisti, trasformati in “fantasisti” che lavorano negli intermezzi dell’ultimo varietà. La sorte delle attrazioni è però segnata: o si torna al circo o non ci sono speranze.

I baracconi di piazza offrono sempre meno, il numero delle fiere decresce enormemente, il luna-park si è meccanizzato.

Ercole


Riferimenti e bibliografie:

  • "Non principe, ma imperatore" - Valentina Pittavina
  • "Guida alla rivista e all'operetta" (Dino Falconi - Angelo Frattini), Casa Editrice Accademia, 1953
  • "Follie del Varietà" (Stefano De Matteis, Martina Lombardi, Marilea Somarè), Feltrinelli, Milano, 1980
  • Rodolfo De Angelis e Ercole in "Follie del Varietà" (Stefano De Matteis, Martina Lombardi, Marilea Somarè), Feltrinelli, Milano, 1980
  • "Café-Chantant" 1900-1928 - "Varietà" 1929-1932
  • "Sentimental, la rivista delle riviste", Rita Cirio e Pietro Favari, Bompiani, Milano, 1975
  • Alfredo Panicucci, «Epoca», anno II, n.27, 14 aprile 195