Totò, dal variété alla corona imperiale

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Sua Altezza medita un’autobiografia? Primi insuccessi scolastici, ire del marchese padre, prima affermazione sul palcoscenico - «Uomini siate e non caporali» - Quaranta centesimi d’etere solforico - Liliana Castagnola, malinconica parentesi d’amore

ROMA, giugno

Se è doloroso nei giorni tristi ricordare i tempi felici, come diceva il poeta, altrettanto dev’esser dolce nei giorni dell’agiatezza riandare col pensiero ai tempi della miseria. E’ il caso della gente che «si è fatta dal nulla» ; soprattutto della gente del cinema e del teatro, gran parte della quale è avanzata per certe qualità che non si comprano con danaro e in minima quantità s’imparano a scuola, e prima o poi ha sfondato, è passata dai piccoli bui palcoscenici alle grandi ribalte luminose, e dal teatro allo schermo, dove il volo si fa più alto e il portafogli più pingue. Ma al comico Totò, oltre la gloria, oltre il successo patrimoniale, si è aggiunto un titolo altissimo, che pochi al mondo possiedono; onde il capo che si china oggi gravemente a meditare sui miserevoli trascorsi del guitto, che si affacciava timido al proscenio del Salone Elena nel lontano 1922, porta di diritto, se non di fatto, la corona imperiale del più antico impero balcanico.

Due anni or sono, quando un settimanale molto letto fece chiedere al principe De Curtis un’autobiografia da compensare largamente, più volte gli fu risposto che «Sua Altezza» stava meditando sull’opportunità o meno di impegnarsi in un così arduo lavoro; e che finalmente entrato egli nell’idea in linea di massima, consentiva che l’opera fosse compiuta sotto condizione che il giornale si impegnasse categoricamente per iscritto a non occuparsi mai con tono irriverente delle prerogative e delle funzioni imperiali di Antonio De Curtis fu Giuseppe, erede al trono di Bisanzio. Così caddero quelle trattative che altri sembra abbiano ripreso in seguito, con successo altrettanto scarso.

Tra 45 e 56

Quella proposta però deve aver acceso una fiammella nella mente del più illustre comico italiano. Ecco infatti apparire in tutte le librerie della Repubblica un robusto volume dell’editore Capriotti, dove sono raccolti
alcuni appunti per una futura completa biografia di Totò. L’impresa di Alessandro Ferraù, giornalista, e di Eduardo Passarelli, attore, eletti biografi ufficiali dal principe, si presentava piuttosto dura sul principio, per quella difficoltà — «pirandelliana», dicono loro stessi — di scindere la persona amena e opinabile dell’attore Totò, da quella aulica e reverenda dell’erede di uh impero. L’hanno risolta alla buona, limitando il loro compito ad alcuni episodi: la fame delle prime armi, un amore romantico e sfortunato, e altri piccoli quadri di un mondo quello del café chantant e del variété — completamente cancellato dall’evoluzione progressista delle Muse.

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Totò dunque è nato a Napoli, in via S. Maria Antesaecula, nel rione Sanità. Quando ciò sia avvenuto, è un segreto di stato, che il principe evita di rivelare, lasciando che il dubbio stenda le sue braccia tra i 45 anni fa, sui quali ammicca, e i 56, per cui si aggronda. Era comunque un «piccolo ribelle» ; a scuola, anziché promuoverlo, gli insegnanti lo... retrocedevano; frequentò le sei elementari in non so quanti anni; cominciò il ginnasio che, nelle intenzioni del marchese Giuseppe e della marchesa Anna, avrebbe .dovuto aprirgli la via dell’Accademia Navale di Livorno e della carriera militare. Invece il militare lo fece per conto proprio, presentandosi volontariamente al distretto di Napoli e le sue scarse attitudini guerresche consigliarono i superiori di trasferirlo continuamente da un reggimento all’altro, fino al punto di immetterlo in un reparto destinato a collaborare coi marocchini. Il ricordo dell’ingrata disciplina, e dei caporali che «forti di un’autorità sproporzionata impongono l’obbedienza senza discussione», s’è ritrovato più tardi nella fortunata e sibillina frase: «Siamo uomini o caporali?», e nella massima relativa: «Nella vita purtroppo ognuno ha il suo caporale».

Da allora il mondo per Totò è rimasto diviso in buoni e cattivi, cioè in uomini e caporali. E il verso dantesco, «Uomini siate e non pecore matte», lo ha rifatto a suo modo: «Uomini siate e non dei caporali». Contro il parere di tutta la famiglia schierata, il giovane Antonio tentò la carriera teatrale. Anche lui, «sentiva dentro» qualcosa che lo spingeva all'arte, fosse pure quella assai a buon mercato del capocomico Umberto Capece, che teneva cartellone alla Sala Elena, una baracca di legno, nel più vecchio buco del vecchio rione romano di Borgo. Capece era uno degli ultimi epigoni della commedia dell’Arte. La sua compagnia si componeva di quattro attori e di un certo numero di «straordinari», che lavoravano e mangiavano — solo quando c’era bisogno di loro. Totò venne assunto come «straordinario», naturalmente, ma senza diritto alla paga, per. che era apprendista e doveva prima» farsi le ossa». Un giorno di pioggia, anzi, che, sfinito dalla stanchezza, chiese al Capece almeno due soldi per tornare a casa col tram, si sentì rispondere: «Tu cominci ad avere troppe pretese, amico mio...». E fu licenziato.

Tempi tristi, dicevamo. Gli attori disoccupati avevano individuato un localetto dove si mangiava con una lira e 10 centesimi, cioè 80 centesimi di pasta e fagioli e 30 di pane. Ma anche quel danaro spesso non c’era, e allora un disperato scoperse che si poteva far passare la fame, la stanchezza e le preoccupazioni con soli 40 centesimi di etere solforico, abbondantemente annusato da un batuffolo di cotone. In casa De Curtis quell’esperienza del rampollo fu un drammatico avvenimento. L’odore del medicinale, il ragazzo inanimato, che si limitava a borbottare: «Volo, mamma, volo...», fecero scattare anche l’impassibile marchese Giuseppe, che minacciò rappresaglie e disconoscimenti di paternità. Totò tuttavia non poteva desistere. L'arte lo chiamava, o qualcosa del genere.

Il maestro

Il suo primo vero maestro fu il comico Francesco De Marco, detto «’nfrù», per la mossa che facevq quando tale suono veniva prodotto dalla cannuccia della «caccavella», con cui accompagnava le sue macchiette musicali. Lavorava al teatro Diocleziano, canticchiava, recitava, faceva ridere la gente con monologhi quali Il bel Ciccillo, Il Paraguay, Se fossi ricco. Totò li imparò uno ad uno, vi apportò qualche variazione, cercò di renderli ancora più ridicoli e marionettistici di come li eseguisse il De Marco; e con quel piccolo repertorio si presentò a don Peppe Jovinelli, fondatore, padrone e direttore del teatro che ancor oggi porta il suo cognome. Sul palcoscenico consacrato da Petrolini, Raffaele Viviani, Armando Gill, Bambi, Cuttica, Molinari, Pasquariello, il futuro principe De Curtis fece il suo debutto accanto a Zara I, e cantò Vipera, in un intervallo tra alcuni incontri di pugilato.

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La strada del varietà gli era aperta dalle grosse risate di alcuni tifosi forsennati. Lo attendevano ormai l’Orfeo e il Salone Margherita di Napoli, la Sala Umberto di Roma. l’Odeon di Milano, il Maffei di Torino. Nel giovanile entusiasmo dell’ascesa, doveva però inserirsi la malinconica parentesi del primo amore. Lei si chiamava Liliana Castagnola, era un'edizione provinciale di Bella Otero, una Silvana Pampanini del 1929. Il suo passato di attrice avevatutte le carte in regola coi tempi. Guido da Verona si era ispirato alle sue fattezze nell’immaginare Mimy Bluette, «fiore del mio giardino». Due catalani si erano accoltellati, in un ristorante marsigliese della Cannebière, per amore di lei. Un grande industriale lombardo le aveva sparato due colpi di pistola nel bagno, uccidendosi subito dopo sul suo corpo esanime, ma non spento. Restituita alla vita e al café chantant, aveva trovato un patrizio genovese, pronto a dilapidare fino all’ultima lira il patrimonio paterno, per avere l’esclusiva temporanee dei suoi «occhi vellutati». Anche un impresario, per conto del quale aveva compiuta una tournée nel Beneventano, si era tolto la vita, non essendo riuscito ad assicurarsi la sua fedeltà. E infine venne Totò.

Rose rosse

Il primo incontro fu il 13 dicembre 1929, al teatro Nuovo di Napoli, dove egli recitava. Un mazzo di rose rosse, qualche biglietto profumato, e presto il «signor Antonio» divenne per Liliana Castagnola «il mio Totò», a cui spedire la propria immagine con la dedica: «Un tuo bacio è tutto!». Il principe De Curtis ha conservato nei suoi archivi l’epistolario intimo della tormentata spasimante e lo ha dato ora alle stampe. «Io ti voglio, Antonio; e non sai come il cuore e la mia mente soffrano. Sono felice di te. Sei il mio amore: ho bisogno di te e la mia anima cerca disperatamente la tua...». Mentre Liliana dedica a Totò tutta la passione di cui era intinta la sua penna, nell’uomo si spegne il gusto della novità. Telefonate anonime annunciano a lei il tradimento. Vorrebbe cacciarlo, ma il cuore non le regge. «Sono talmente addolorata da desiderare di essere ancora più triste, per potermi guardare allo specchio e farmi un sorriso di compatimento e di scherno». Sul più puro metro decadentistico, si arriva all’epilogo inevitabile. La femmina che ha collezionato suicidi di uomini ricchi e potenti, si avvelena con del modesto «Dinal», in una cameretta della «Pensione degli Artisti», per amore di un comico spiantato, dalla mascella eccentrica. Mentre il sonno della morte scende implacabile, trova ancora io spirito per scrivergli: «Scortese, omaccio! Mi hai fatto felice o infelice? Non so». I giornali, il giorno seguente, dedicano lunghi corsivi alla scomparsa di Liliana Castagnola, «fiore del vostro oblio».

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Le cronache non dicono se Totò abbia versato molte lacrime, o se non ne abbia versate affatto. Ferraù e Passarelli, che hanno ricostruito questo furioso amore del primo novecento, con accenti dell’ultimo ottocento, narrano che il 4 marzo 1930 la salma della signorina Castagnola fu deposta nella tomba di famiglia dei principi De Curtis, eredi al trono di Bisanzio. Molto tempo è passato da allora; da quando Totò non poteva togliersi il cappotto, in piena estate, per non mostrare i pantaloni privi dei fondelli; da quando un comico divertente, ma non era conteso a diecine di milioni, faceva la parodia del ricco nobiluomo, che non ammette accenni ironici alla propria recente ricchezza nè
al proprio recentissimo blasone.

Ugo Zatterin, «La Gazzetta del Popolo», 8 giugno 1952


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Ugo Zatterin, «La Gazzetta del Popolo», 8 giugno 1952