Totò segreto

Toto segreto

2007-04-01-La_domenica_di_Repubblica


A quarant'anni dalla morte del più grande comico italiano del Novecento, canzoni, lettere, poesie, appunti inediti spuntano dai cassetti e dai ricordi di casa De Curtis.

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Totò irridente Pulcinella, Totò severo gendarme, Totò pallido fantasma, Totò beffardo in frac e bombetta. Sono solo alcune delle preziose statuine in legno, con le braccia snodate, allineate sugli scaffali della libreria che corre lungo le pareti del salone di casa De Curtis. Più piccolo, in cristallo colorato, Totò cardinale, uno degli otto esilaranti personaggi di Totò diabolicus. Poi le testine, un numero incalcolabile di espressioni diverse, con sotto semplicemente la scritta «Totò». A coprire gli spazi, oltre a una statuina del “suo” sant'Antonio, decine di fotografie di diverse età, dal bambino con lo sguardo smarrito all'elegante principe della risata.

1939 Antonio De Curtis 056 L

Sono oggetti del passato ma anche recentissimi, anzi la produzione si è intensificata in occasione dei quarant'anni dalla morte. Ma ciò che più attira l'attenzione è il grande ovale appeso alla parete centrale, su cui è dipinto lo stemma di famiglia—De Curtis di Bisanzio, conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna eccetera—, una colonna sormontata dall'araba fenice protetta da un leone. «Mio nonno era principe imperiale, tra gli antenati c'era l'imperatrice Teodora. E mia madre ha gli stessi titoli del nonno in quanto porfirogenita.

Significa che puoi lasciare i titoli anche alle figlie. Sembra strano che mio fratello Antonio ed io abbiamo il cognome De Curtis, ma avendo solo una figlia femmina, mio nonno fece fare all'epoca un decreto presidenziale ad hoc, affinché il nome potesse continuare», spiega la nipote Diana. Il tono è divertito. «Lo so che oggi certe cose sembrano stupidaggini, ma contano nel rispetto della memoria. Lui ci teneva molto al titolo. E nella vita si è comportato _ da principe, se l’è meritato».

È lei, Diana De Curtis, che conserva e protegge la memoria del nonno, un compito in cui da sei anni sostituisce la madre Liliana. Malgrado la presenza di tante memorie, la luce che entra dalla grande terrazza sul verde cancella ogni ombra di malinconia del passato. «Viviamo tutti qui, mia madre, io, mio marito. E c’è anche lui, mio nonno, fa parte della casa, della nostra vita, per noi è vivo.

Per me è naturale occuparmi di lui, è naturale parlarci, sentirlo vicino. Lavorarci è bello, perché la curiosità è grandissima, c’è sempre qualcuno, in Italia, ma anche negli Stati Uniti, in Francia, in Turchia, ovunque, che ci chiede di lui e allora, attraverso i libri e le mostre, cerchiamo di raccontare l’uomo proprio com’era».

Chiudo in fallimento, nessuno mi ricorderà, disse Totò intervistato pochi giorni prima di morire, il 15 aprile 1967. Invece, quarant’anni dopo, è più vivo che mai nell’immaginario collettivo, se, come racconta Diana, «nella tomba di famiglia al Pianto, il cimitero di Napoli, la gente porta poesie e preghiere, gli chiedono favori, gli presentano la fidanzata, i bambini gli lasciano mezza gomma americana. La magia di Totò è proprio questa, nessuno pensa a lui come a un morto, e non è l’attore a cui pensano, ma una persona di famiglia, un nonno, un padre, un marito, un amico, un fratello».

Diana De Curtis aveva dodici anni quando Totò è morto e nella sua memoria personale, più che l’attore, c’è Antonio, il nonno. «Sono stata abbastanza fortunata, i miei genitori si sono separati che ero ragazzina, in modo civilissimo, senza traumi, e poiché mio padre faceva il produttore ed era sempre in giro, nonno si prese la responsabilità dei due bambini. Si è occupato di noi e, pur facendo dieci film l’anno, trovava il tempo di accompagnarci alle feste, di interessarsi della scuola.

Senza parlare dei regali che ci portava da fuori: quando tornava e apriva la valigia era sempre una festa. Mio fratello da piccolino aveva una delle prime Ferrari elettriche». E ricorda i riti: «Quando entrava, io e mio fratello dovevamo prendergli l’uno il cappotto l’altra il cappello e il saluto era un bacio in fronte. Era il massimo. Non c’erano abbracci o pacche o grandi gesti, non ci toccava. La balia tedesca che avevamo, anche lei attenta ai microbi, solo a lui permetteva di venire nelle nostre stanze: “Solo il principe sa trattare i bambini”, diceva».

C’è un’unica cosa fastidiosa nel ricordo: «L’obbligo di portare sempre il cappello e di fare l’inchino ai grandi. Allora non lo sopportavo, poi mi sono resa conto che ritrovarsi una buona educazione è sempre utile. Ma non ho mai avvertito la mancanza di un’affettuosità più esplicita, più fisica, perché nel suo sguardo, nel metterti una mano sulla testa c’era tutto. Mia madre ed io la sentiamo ancora quella mano sulla testa, sappiamo che c’è. Mia madre oggi ogni tanto ci litiga, quando qualcosa le va storto se la prende con lui, gli gira il quadro. “Ti metto in punizione, non ti accendo il cero”, gli dice».

La madre, Liliana De Curtis, critica un po’ la dedizione di Diana al nonno. «Mi dice che sono pazza da ricovero: ogni volta che si avvicina o sono al computer e c’è un’immagine di Totò, o scorro gli incartamenti ed è sempre Totò. Ma per me è una scoperta continua. Come attore l’ho scoperto da adulta, come persona lo scopro ogni giorno, leggendo i suoi appunti, le poesie, gli scritti, le lettere. Se non fosse così mi annoierei e smetterei».

Parlando con Diana, scorrendo con lei le centinaia di carte—lettere, poesie, appunti, canzoni, pagine di sceneggiatura, biglietti di treno, ricevute, certificati, una quantità enorme di documentazione araldica, la riproduzione del conio per le monete, fotocopie di locandine, annunci di ogni tipo—la grande sorpresa è la disparità tra Totò, il grandioso giullare dello schermo («inimitabile, ma se c’è un erede è Benigni, ha la stessa purezza della poesia del comico, il rapporto diretto con il pubblico, l’improvvisazione»), e Antonio De Curtis privato.

«Ci sono sprazzi di follia nel suo carattere. L’eleganza della sua generosità, quando si faceva accompagnare dall’autista di notte a Napoli e metteva buste con i soldi sotto le porte dei bassi, o dava soldi a mia madre quando entrava in ascensore per non darle il tempo di ringraziare. È folle la meticolosità con cui teneva tutto e in quantità incredibile, i certificati di nascita in cinquanta fotocopie. Conservava tutto in modo maniacale.

La cosa più incredibile è come abbia fatto a preservare il servizio da toilette d’argento e d’oro, con due bottiglie per il profumo, che gli aveva regalato Liliana Castagnola con le sue iniziali stampate e una ciocca dei suoi capelli. La Castagnola era una soubrette bellissima, per lei si erano sfidati a duello nobili di tutta Europa. Lei si innamorò di Totò e per lui si suicidò negli anni Trenta. Conservare questo per tutta la vita mostra un animo tenero, romantico. Mia madre si chiama Liliana in memoria della Castagnola, che del resto riposa nella nostra tomba di famiglia. Nonno non buttava niente, neanche nei sentimenti».

mostra maschio angioino 054

Il servizio da toilette, ciocca compresa, sarà esposto nella mostra che il 13 aprile verrà inaugurata a Roma a Palazzo Venezia. È solo una delle iniziative importanti che celebreranno i quarant'anni dalla morte. Un’altra sarà l’omaggio della Festa di Roma, che presenterà in anteprima un documentario realizzato da Diana De Curtis e Barbara Calabresi. «Sarà una sorta di album di famiglia, con documenti finora sconosciuti, come la raccolta di fumetti con protagonista Totò, che ne scrisse i testi e diresse la realizzazione; il suo primo provino cinematografico; manoscritti, lettere d’amore, poesie, canzoni».

Una parte del documentario a cui Diana tiene molto è quella «dei luoghi, a partire dalla Sanità a Napoli, dove i nostri bambini, quelli dell’Oasi, l’istituto che abbiamo aperto nel rione, racconteranno l’infanzia di Totò come fosse uno di loro. Ci sarà meno miseria e qualche antenna Sky, ma la Sanità è rimasta la stessa dell’infanzia di nonno. Poi andremo a scoprire i luoghi delle sue vacanze, Viareggio, la Costa Azzurra, Capri, con la casa da cui con il cannocchiale spiava mia nonna in spiaggia.

E i suoi teatri. Un tendone in mezzo a piazza Risorgimento è il primo posto dove ha recitato, e racconteremo la storia della caldarrostaia che gli regalò un cartoccio di castagne, poi, diventato Totò, lui la cercò e le comprò una merceria. Molti dei teatri sono rimasti gli stessi, il Politeama a Palermo, per esempio, o il Brancaccio a Roma». E poiché Diana De Curtis ha un passato di attrice — ha fatto perfino un film in inglese con Pavarotti, una rarità assoluta, Yes Giorgio, dove interpretava una suora novizia con Paola Borboni madre superiora—ricorda che quando recitava al Brancaccio II bugiardo con Gigi Proietti, sua nonna Diana andò a trovarla e si commosse alla vista del palcoscenico, lo stesso di Totò.

Lettere e poesie svelano la profondità del rapporto tra Totò e la moglie Diana. «Era una ragazzina di sedici anni quando la conobbe, entrambi era figli senza genitori, avevano molto in comune, si amavano in modo struggente. Ci sono tante leggende sulla canzone Malafemmena, in realtà è dedicata a mia nonna. Malafemmena non significa donna di malaffare, ma cattiva, che ti fa soffrire, non è una canzone per un flirt. La prova è che quando si separarono, nonno le regalò una casa. Nonna lo ringraziò, ma lui le disse: “Non devi ringraziarmi, l’hai pagata tu con i diritti d’autore di Malafemmena”».

Anche Franca Faldini, l’altro legame forte nella vita di Totò «era giovanissima quando si sono incontrati, ma era più matura della sua età, molto posata, aveva un altro background. Secondo me con lei nonno si sentiva protetto, poteva affidarsi, sono certa che lei gli ha regalato una grande serenità, e lui ne aveva bisogno negli ultimi anni della sua vita».

Maria Pia Fusco


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Il maltrattamento della lingua italiana («Parli come badi», «la pietra emiliana»), per non dire delle altre lingue («Noio volevàm savuàr l'indirìs»). La satira politica («e poi dice che uno si butta a sinistra») e in particolare la presa in giro della sinistra («Perbacco: la terra ai contadini, le ferrovie ai ferrovieri, i cimiteri ai morti»). L'una cosa abbinata all'altra quando si tratta del temuto e odiato invasore germanico: «Bitte!», ordina perentorio il tenente Kessler; «grazie, un bitter lo prendo volentieri», risponde Totò.

1948 Fifa E Arena 004 L

La beffa antiautoritaria («Onorevole lei? Ma mi faccia il piacere»). Il nonsense lessicale («Imputato, che cosa ha da dire a sua discolpa?». «Alcune quisquilie e qualche pinzillacchera»). L'allusione sessuale («Lei con quegli occhi mi spoglia: spogliatoio!»), di tutti i tipi compresa quella omo: «Guavda che ti movdo», minacciato nel mezzo di una viziosa festa caprese. Vilmente gradasso coi deboli («Faccio un macello, spacco tutto, faccio un'ecatombe») e furbamente ossequioso coi potenti («Portiere si nasce!»), salvo trovare il modo di fregarli.

L'esercizio vessatorio è di particolare soddisfazione se avviene a scapito delle tante “spalle” di lusso che da lui si facevano fare tutto: «Il mio nome è Beppa e sono signorina», enuncia cavernosa Tina Pica; «Lo credo bene», replica Totò capostazione in Destinazione Piovarolo. Invariabilmente pronto a esorcizzare la morte («Se ne vanno sempre i migliori: oggi è toccato a lui, domani toccherà a te...». Battuta presente tanto in La banda degli onesti che in I soliti ignoti).

Le ostentazioni di ignoranza travestite dai modi affettati di chi la sa lunga («Adesso che siamo a Milano vogliamo andare a vedere questo Colosseo?»). L’onnipresente parodia(«Tu bbona, io Tarzan») di tutto, compresa l’attualità. Ne è un concentrato Totò truffa ‘62, dove Totò non si priva di un travestimento da Fidel Castro e di uno da Kasavubu, ad avvenimenti cubani e congolesi freschi freschi.

Sono le battute, alcune celeberrime e ripetute allo sfinimento dalle generazioni che da poco dopo la sua morte hanno rilanciato e mantenuto sempre alto e popoloso il suo seguito: molte che rimbalzano da un film all’altro ma in realtà provengono spesso dai palcoscenici di avanspettacolo e di rivista. Sono le battute la bussola per orientarsi nel superaffollato percorso cinematografico di Totò.

Quelle che ogni spettatore attende con trepidazione per abbandonarsi, quando arriva il momento, all’apoteosi. «Ho carta bianca!», sbraita sempre più arrogante l’ufficiale tedesco occupante, fino ache — con gioia palese non solo nostra ma anche degli attori, a partire da Nino Taranto, che circondano Totò modesto ufficiale italiano nell’emergenza dell’8 settembre in I due colonnelli —esplode quel salvifico e liberatorio: «E ci si pulisca il culo!». Anche se probabilmente l’eventuale primo premio lo vincerebbe il dialogo del wagon lit tra il maestro Antonio Scannagatti e l’onorevole Trombetta, culminante nel fatidico «In galeeera, ti mando!». In Totò a colori, manco a dirlo.

Tra la breve fase iniziale anteguerra e quella finale dei “registoni” come Pasolini, lodatissime dallo spettatore critico e colto, c’è l’oceano dei film, filmetti e anche filmacci annegati nell’indifferenza o nel disprezzo (non del popolo spettatore) e girati a raffica, in certi anni come il ‘50 o il ‘54 anche sette all’anno, che sono a dire la verità quelli immortali. Il ciclo vero e pieno del Totò da grande schermo inizia con il 1947 di I due orfanelli: «Chi dice che i soldi non fanno la felicità, oltre a essere antipatico, è pure fesso». Filosofia confermata di lì a pochissimo: «Si dice che l’appetito vien mangiando, ma in realtà viene a stare digiuni» (Totò al Giro d’Italia). Altre piccole perle di morale o di saggezza si aggiungono in Totò le Mokò («Io sono integro e puro, sia di corpo che di spirito, non ho commesso peccati né di carne né di pesce») e in L’imperatore di Capri («Sono un uomo di mondo: ho fatto tre anni di militare a Cuneo»). Sono questi, tra il finire degli anni Quaranta e la prima metà dei Cinquanta, gli anni veramente trionfali. Quando, peraltro, Totò è ancora attivissimo anche in teatro.

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Stagione che tocca il suo apice in Totò Peppino e la malafemmina — l’altra palma d’oro, accanto a Totò a colori, alle battute indimenticabili—dove i fratelli Caponi, scarpe grosse e cervello fino, raggiungono Milano in pelliccia e colbacco per strappare il nipote studente Teddy Reno al gorgo della perdizione in cui lo sta trascinando l’attricetta Dorian Gray. Alla quale scrivono (Peppino scrive, Totò detta): «Signorina, veniamo noi con questa mia a dirvi — addirvi, tutta una parola... Punto, e un punto e virgola. Perché non si dica che siamo provinciali».

Paolo D'Agostini


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Maria Pia Fusco e Paolo D'Agostini, «La Domenica di Repubblica», 1 aprile 2007