Quando c'è la salute...

Le debolezze, le paure, l'ipocondria di un uomo apparentemente forte ma che davanti ad un lieve malessere o ad una suggestione, tornava bambino. Solo davanti alla malattia, quella vera, che lo colpì agli occhi nella primavera del 1957, reagì con la forza di un leone, vivendo fino alla fine dei suoi giorni con una dignità ed una consapevolezza del male che solo i forti di animo riescono a tirar fuori, proprio nei momenti più difficili.


Caffè

Antonio de Curtis era ipocondriaco e timoroso di ogni cosa insignificante, ma era ugualmente incurante o forse solo inconsapevole degli effetti devastanti del fumo e del caffè assunti in quantità abnormi. Fumava tra i due e i tre pacchetti di sigarette e beveva quindici caffè al giorno, candidandosi da solo all’infarto, come poi avvenne. La sua ipocondria in sostanza gli faceva vedere pericoli dove non c’erano, mentre gli impediva di evitare rischi seri per la sua salute. Tanto si rivelava incosciente nello sfidare la morte con gli eccessi di nicotina e caffeina, quanto era maniaco dell’igiene. Si lavava continuamente le mani, esigeva che sui mobili non ci fosse la polvere, non amava il ristorante perché era ossessionato dalla paura di prendersi delle malattie gravi. Un giorno confessò alla Faldini che i camerieri, con il tovagliolo che tengono sulle spalle «quei fetenti ci fanno tutto. Si asciugano le mani, lo stringono sotto l’ascella sudata, se lo passano sulla fronte madida, e poi ti arrivano davanti sorridenti e ti ci danno una lustrata al piatto».

Pillole 456

In casa era sempre profondamente triste e malinconico, non rideva mai, tranne quando era a letto malato. Solo allora la sua ipocondria saltava. Si abbandonava a lazzi e battute spiritose, quasi che la malattia alterasse la routine quotidiana, dandogli l’illusione di stare a teatro.

Dopo ogni pasto lasciava immancabilmente trascorrere almeno tre ore prima di radersi, fare il bagno o avere un rapporto sessuale. Era terrorizzato dalla nave e dall’aereo, aveva paura degli attacchi improvvisi di vertigini e di panico, non sopportava l’altitudine e i precipizi.

Consultava continuamente un’enciclopedia medica, soprattutto quando qualcuno gli diceva di trovarlo un po’ pallido. In questo caso affermava subito di sentirsi male e lamentava tutti i disturbi possibili, per i quali dava a se stesso spiegazioni e diagnosi fantasiose. Per qualunque piccolo fastidio, anche passeggero, dopo essersi fatto da solo la solita diagnosi campata in aria, si precipitava a chiamare al telefono il suo medico di fiducia, il dottor Giuseppe Cusumano, il quale correva a visitarlo mentre Totò gli suggeriva con convinzione quale doveva essere la causa della presunta malattia. Il medico lo ascoltava e lo assecondava, a meno che non si trattasse di autodiagnosi dall’esito catastrofico: era allora il momento di stroncarlo e scuoterlo senza troppe cerimonie, per restituirlo alla ragionevolezza e alla serenità.


La sigaretta

Il suo perenne spauracchio erano il tetano e la congestione. Dopo i pasti, si asteneva per almeno quattro ore dal radersi, bagnarsi o dall’avere un rapporto sessuale perché, sosteneva, "il sangue viene richiamato da altre bande e si rischia brutto. Mica voglio rimetterci le penne, nemmeno se incontrassi la femmina più femmina del mondo!" Cosi era anche facile intuire quando covava dentro la prospettiva di un’avventura perché allora, con un pretesto, saltava o anticipava il pasto eppoi, prima di uscire, se ne stava immobile e tranquillo quanto un coccodrillo sazio al sole.

In una giornata di pioggia torrenziale, a Rapallo, rientrando in albergo dopo cena, per non ammollarsi i piedi nel corso della digestione si fece prendere a cavacecio da un fattorino per trasferirsi dalla macchina all'ingresso, sotto lo sguardo attonito di una coppia americana — i coniugi Kaufman — che poi gli divennero amici. In un paio di occasioni, l’autosuggestione lo spinse a rientrare precipitosamente dalla Francia con lo stato d’animo e l’atteggiamento di chi è spacciato.
Da Montecarlo la volta in cui, visitando i Giardini Esotici per un servizio fotografico, si punse con la spina ad aculeo di una pianta tropicale proprio mentre la guida che lo accompagnava, descrivendone le origini e le caratteristiche, soggiungeva che era velenosa. Nel giro di due ore, ripensandoci tra le lenzuola nella stanza d’albergo, credette di avvertire tutti i sintomi di una progressiva, dolorosa paralisi e, facendosi sorreggere legnoso, sali sul primo treno per Roma dove, dopo il controllo del suo medico, si risenti subito in piena forma e in totale snodabilità.

Puntura pianta

E da Parigi, quando un cameriere del piano che, superando qualche perplessità, gli aveva finalmente portato il "tea avec la citron" richiestogli dalla stanza per telefono, gli disse che certo bene faceva a riguardarsi se era "enrhu-mé" ossia raffreddato, poiché "il y a une forte epidemie de grippe." Grippe gli suonò sinonimo di una malattia letale. Non era forse con un termine simile che a Napoli avevano battezzato la Spagnola, causa di migliaia di decessi attorno al 1918? "’O visage del poisson" ribattè sgomento e, senza dare tempo a indugi, rifece i bagagli e promise una mancia astronomica allo sbigottito portiere purché gli procurasse subito un vagone letto perché "je veu tiré le dernier respir dans ma maison!"

Di fronte ai mali gravi, il suo coraggio rasentava l’incoscienza soprattutto quando coinvolgevano il suo senso di responsabilità verso gli altri, mentre la rassegnazione, che non era mai aulica né bigotta ma piuttosto quella fatalistica del "Si vede che era detto" lo avviluppava tutto come una corazza protettiva.


Apparteneva alla categoria degli uomini timorosi di tutto, anche dei malanni o dei pericoli ipotetici che la sua fantasia visionaria trasformava in prossimi e probabili. Come l’estate in cui, alla vigilia della solita partenza in treno per la riviera francese, apprese dalla televisione l’incidente ferroviario avvenuto sotto una galleria nei pressi di Genova che aveva provocato una fuoriuscita di gas tossici e il conseguente avvelenamento di vari passeggeri.

Maschera antigas

Dormivo da un pezzo nella cuccetta della mia cabina quando fui destata dalla sua voce che mi ingiungeva: «Svegliati e indossala; caspita, fa presto! Sta per iniziare il tratto in cui il convoglio ci si infila sotto! » E spalancando gli occhi lo vidi già bardato con una maschera antigas mentre me ne sballonzolava un’altra sopra al viso. Se le era fatte comperare «per prudenza» dal cugino Edoardo, disse, e aveva vegliato in attesa della sequela di gallerie liguri per metterle al momento opportuno.

L’estrema cautela nel rapporto col proprio corpo, le precauzioni nei confronti di esso rendono la maggioranza degli attori dei malati immaginari, vuoi per via di una notevole ipersensibilità vuoi perché, dopotutto, quello è il loro ferro del mestiere. Qualsiasi sintomo in genere sparisce non appena essi, sotto la luce dei riflettori, entrano nel personaggio che devono incarnare.

Ebbene, da sano, Antonio rappresentava il parossismo di queste fisime: la pressione, peraltro sempre regolare e tendente all’ipoteso, controllata quotidianamente dal medico curante; l’elettrocardiogramma ogni due mesi benché puntualmente definisse il suo cuore da testo, bradicardico quanto quello di Bartali o di Coppi;

Elettrocardiogramma L

il terrore per uno starnuto; la devitalizzazione di un dente paventata quanto una laparatomia; il rapporto sessuale mai nel corso della digestione perché «è come il bagno in mare. Ti può andare sempre liscia ma se una volta sei colto dalla congestione ci rimetti le penne. Come Musco che, poveraccio, ha smesso per sempre di dire che c’era abituato...»


Riferimenti e bibliografie:

  • "Roma-Hollywood-Roma" (Franca Faldini) - Baldini & Castoldi, 1997
  • "Totò, l'uomo e la maschera" (Franca Faldini - Goffredo Fori) - Feltrinelli, 1977
  • "Totò in 100 parole" - (Ennio Bìspuri) - Gremese, 2014
  • Documenti Archivio Famiglia Clemente