Fabrizi Aldo

Aldo_Fabrizi


Totò: Che, vai a lavorà?
Fabrizi: Sì, sto al teatro numero due.
Totò: E non ti trucchi?
Fabrizi: No, io...
Totò: Ma come, non ti trucchi?
Fabrizi: Eh, perché mi devo truccare? Io sto bene così. Ma che sul film Luce, quando vedi, non so, quelli che scendono alla stazione, cosa sono, truccati? Sono bello, io ho la pelle liscia, che mi trucco a fare? Io non mi sono truccato nemmeno ieri sera, vedi, al Quirino io mica mi trucco. Io entro in scena così, ma che mi devo truccare?

Attore, Sceneggiatore e Regista

(Roma, 1º novembre 1905 – Roma, 2 aprile 1990) è stato un attore, regista, sceneggiatore, produttore e poeta italiano.

Biografia 

Di umile famiglia (la madre gestiva un banco di frutta e verdura a Campo de' Fiori) a undici anni rimase orfano del padre Giuseppe, morto in un grave incidente. Costretto ad abbandonare gli studi per contribuire al sostentamento della numerosa famiglia, che comprendeva anche cinque sorelle - tra le quali Elena Fabrizi, (1915-1993) in seguito soprannominata sora Lella - si adattò a fare i lavori più disparati.

Gli esordi

Nonostante le difficoltà, la vocazione artistica di Fabrizi non rinunciò ad esprimersi: pubblicò nel 1928 nelle edizioni della Società poligrafica romana (non si sa se a proprie spese) un volumetto di poesie romanesche intitolato Lucciche ar sole, che riuscì a far recensire sul quotidiano Il Messaggero,[1] e partecipò inoltre alla redazione del giornale dialettale Rugantino. Nello stesso periodo cominciò a calcare le scene, prima con la Filodrammatica Tata Giovanni, poi come dicitore in teatro delle sue stesse poesie, come era ancora uso in quegli anni[2].
Nel 1931, a 26 anni, esordì come macchiettista nei piccoli teatri della capitale e in giro per l'Italia, insieme con la compagna "Reginella", con il nome di "Fabrizio" comico grottesco romano, proponendo caricature dei tipi caratteristici romani: il vetturino, il conducente di tram e lo sciatore. Divenuto in breve tempo popolare, costituì una propria compagnia che, nel 1937, vide transitare per breve tempo un imberbe Alberto Sordi. 

Attore e regista cinematografico

Nel 1942 fece il suo esordio sul grande schermo con un film diretto da Mario Bonnard, Avanti c'è posto. Anche nelle due pellicole seguenti, Campo de' fiori, sempre diretto da Bonnard, e L'ultima carrozzella per la regia di Mario Mattòli, si limitò a riproporre le macchiette che aveva già interpretato a teatro - rispettivamente quelle del bigliettaio, del pescivendolo e del vetturino - accanto ad Anna Magnani, con la quale avrà un rapporto conflittuale.
In queste tre interessanti pellicole vi sono discorsi, battute e situazioni tipici di una Roma oramai sparita. Anche il dialetto romanesco usato da Fabrizi è, per certi versi, figlio di un modo di parlare ormai desueto. Nel film L'ultima carrozzella girato nell'estate del 1943, in piena seconda guerra mondiale, tra gli attori troviamo alcuni esponenti celebri del dialetto e della canzone romanesca del Novecento, quali Romolo Balzani, Gustavo Cacini, e Anita Durante, altra stella ormai dimenticata di quel variegato ed onesto firmamento di attori che recitavano in vernacolo romanesco.
Si noti che durante l'Anno Santo del 1925 a Roma Aldo Fabrizi, per un certo periodo, lavorò davvero come vetturino. Si dice che lo spolverino[3] e il berretto indossati nella pellicola del 1943 fossero gli stessi da lui usati in quella precedente, giovanile esperienza. Anche Federico Fellini, all'epoca ancora giovane e sconosciuto, lo aiuterà nella sceneggiatura.
Storia diversa, invece, col film che apre ufficialmente la corrente neorealista, Roma città aperta di Roberto Rossellini, dove interpretò il ruolo più significativo ed intenso della sua carriera, ispirato alle figure dei sacerdoti romani don Giuseppe Morosini e don Pietro Pappagallo entrambi fucilati nel 1944, durante l'occupazione nazista della capitale, il primo a Forte Bravetta, il secondo alle Fosse Ardeatine.

Si dedicò anche, in maniera saltuaria, al doppiaggio: sue sono le voci di Giuseppe Varni, il bidello della scuola femminile nel film Maddalena... zero in condotta (1940) e di Gino Saltamerenda, il netturbino che aiuta Lamberto Maggiorani ed il piccolo Enzo Staiola a cercare la bicicletta rubata, nel mercato di Porta Portese, in Ladri di biciclette (1948), entrambi diretti da Vittorio De Sica.
Da quel momento interpretò poco meno di settanta film, ottenendo spesso un buon successo, senza disdegnare ruoli drammatici, ma privilegiando sempre ruoli brillanti e comici, nei quali manifestò una naturale carica di bonaria umanità che lo accompagnerà durante tutta la sua carriera. Da ricordare in particolare i film interpretati con Totò (Guardie e ladri del 1951, I tartassati del 1959, Totò, Fabrizi e i giovani d'oggi del 1960, Totò contro i quattro del 1963), e con Peppino De Filippo (Signori in carrozza del 1951, Accadde al penitenziario del 1955 e Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo del 1956), con i quali diventerà uno dei protagonisti più importanti della commedia all'italiana.
Vincitore di due Nastri d'Argento, nel 1950 per Prima comunione di Alessandro Blasetti e nel 1974 con C'eravamo tanto amati di Ettore Scola, si aggiudicò nel 1951 il premio per la miglior sceneggiatura al Festival di Cannes per Guardie e ladri di Stefano Vanzina e Mario Monicelli.
Lavorò pure con il grande regista del muto Georg Wilhelm Pabst in due film: La voce del silenzio del 1952 e il bizzarro Cose da pazzi del 1953 pubblicato in DVD nel 2005, ove interpretò quello che, sicuramente, resta il ruolo più particolare della sua carriera: un matto che crede di essere un primario ospedaliero.
Tra il 1948 e il 1957 diresse anche nove film, tutti dignitosi, a partire da quello d'esordio, girato in Argentina, Emigrantes (1948), alla trilogia sulle avventure della famiglia Passaguai, della quale fu anche produttore per la sua Alfa Film XXXVII, ad Hanno rubato un tram (1954), girato a Bologna con la fotografia del grande Mario Bava, pure questo riemerso nel 2005 in DVD, fino all'accorato e malinconico Il maestro (1957), la sua ultima regia. 

Sul palcoscenico

Sul palcoscenico del Teatro Sistina, nella stagione 1962-1963, ottenne un grande successo personale interpretando il ruolo del boia papalino Mastro Titta nella commedia musicale Rugantino scritta e diretta da Massimo Franciosa e Pasquale Festa Campanile. Il grande trionfo fu completato da una memorabile trasferta negli Stati Uniti, a Broadway, dove lo spettacolo registrò sempre il tutto esaurito. L'ultima sua apparizione teatrale è del 1967, con lo spettacolo Yo-Yo Yè-Ye scritto da Dino Verde e Bruno Broccoli. Ritornerà ad interpretare Mastro Titta in Rugantino nell'edizione 1978 della commedia.

In televisione

Sul piccolo schermo esordì nel 1959, come interprete dello sceneggiato di Leopoldo Cuoco e Gianni Isidori "La voce nel bicchiere", diretto da Anton Giulio Majano. Per molto tempo, preso da impegni cinematografici e teatrali, sarà questo il suo unico lavoro televisivo, fino al 1971, quando ottenne un altro grande trionfo nel varietà del sabato sera Speciale per noi diretto da Antonello Falqui, accanto ad Ave Ninchi, Paolo Panelli e Bice Valori, che è anche l'unica testimonianza visiva rimasta delle sue macchiette teatrali.

L'hobby della cucina

Come Ugo Tognazzi, aveva l'hobby della gastronomia e amava in modo particolare cucinare la pasta e, sulla pasta e le sue tante e diverse ricette, scriverà anche alcune poesie in dialetto romanesco.

Gli ultimi anni e l'epilogo

Fabrizi, sposato con Beatrice Rocchi, cantante di varietà molto nota negli anni venti col nome d'arte di Reginella, dalla quale ebbe due figli gemelli, rimase vedovo nell'estate del 1981. Abitava a Roma in via Arezzo, nel quartiere Nomentano, nello stesso edificio dell'amica Ave Ninchi. La sua ultima apparizione in tv è nel programma G.B.Show del 1988. Si spense nella primavera del 1990, a 84 anni, pochi giorni dopo aver ricevuto un David di Donatello alla carriera. Tre anni dopo lo seguì anche la popolarissima sorella, la Sora Lella, che aveva recitato nel cinema soprattutto con Alberto Sordi e Carlo Verdone.
Era iscritto alla Loggia massonica "Gustavo Modena" dell'Oriente di Roma, appartenente all'Obbedienza della Gran Loggia d'Italia degli Alam.[senza fonte] È sepolto al Cimitero Monumentale del Verano di Roma.


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Conobbi Aldo Fabrizi a Genova, nel 1937, durante una delle mie prestazioni di avanspettacolo. Non lo avevo mai visto prima. Ricordo che faceva una macchietta, quelle di Decio, e poi un tango in frac intitolato Tullulù non m’ami più. Per me fu una rivelazione, perché scoprii non solo un uomo che mi faceva ridere ma un uomo che aveva una personalità. Allora, siccome il mio numeretto era ad apertura dello spettacolo, scendevo immediatamente in platea per andarmi a sentire Fabrizi che invece era la vedette e si esibiva in chiusura.

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 Ai suoi inizi, Aldo Fabrizi era molto più socievole. Dopo, quando fu scoperto cinematograficamente, anche lui come tanti altri si adagiò credendo probabilmente che quel suo modo di avere rapporti con la gente — ossia quella sua, diciamo, ineducazione, quel suo scarso rispetto umano — facessero parte di una sua personalità e fossero i requisiti che gli avevano dato il successo. Invece proprio questi, con l’andare del tempo, furono le sfaccettature che cominciarono a stancare coloro che gli stavano vicino, e così fu un po' emarginato.

Alberto Sordi

"Follie del Varietà" (Stefano De Matteis, Martina Lombardi, Marilea Somarè), Feltrinelli, Milano, 1980


Galleria fotografica e rassegna stampa

La quotazione di Fabrizi cresce di mese in mese. Ieri sera al Principe i romani rivolevano il tramviere, ormai famoso, ma il nostro comico preferì misurarsi con un pezzo nuovo, Il vetturino. Senza pietà, secondo il solito, ci parlò di un cavallo che stava su con un treppiede, povero cavallo, e alla fine lo vedemmo decomporsi come nei sogni, crollare con un gran rumore d’ossa secche. Chiuse l'applauditissimo spettacolo Il venditore sulla pubblica piazza di penne stilografiche tema classico che Fabrizi rinfresca con una violenza inaudita. Ogni tanto l'imbonitura gli finiva in un gargarismo, le parole si scioglievano in strani versi con una sensualità veramente barocca : la gioia del parlare, dell’oratoria per l’oratoria latente in ciascuno di noi.

«Vede come Dubout» mi ha detto il disegnatore Onorato parlando di lui. Giusto, nel suo «numero» le persone sono stipate, si attorcigliano, le dita di Paolo finiscono nella bocca di Antonio, tutti si pestano i piedi si pungono i fianchi e il sudore cola amarissimo da quelle facce borghesi poco cordiali. Il giorno del giudizio universale verrà con una musichetta leggera di sfondo — prego, maestro — e i reprobi si ammasseranno sotto il solleone in una sconfinata piattaforma di tram : li carci li carci...

Fabrizi non ha il cuore molto tenero, è sempre severo o intimidatorio, analitico. Certamente staccava la coda alle lucertole. Se nell’orchestra sente un rumore insolito domanda al clarinetto: «ti è caduta la dentiera?». Non vorrei fare del colore scrivendo che il suo umorismo si accende davanti ai quadri murali, l’uomo spaccato, anatomia. Può dunque difficilmente scivolare nel sentimento — o perde la sua nota — perchè il prossimo gli appare con una grinta che interessa soprattutto il medico e il moralista. La sua faccia stessa, così cinema, mobile — quando canta Lulù non sei più tu — subisce la sua immaginazione : gli occhi hanno il morbo di Basedoff e la mascella diventa un primo piano crudo e enorme.

Sotto il suo grasso cova il serpente. Di tutti i comici italiani mi sembra il meno leggiadro e il più sarcastico, un osservatore con i nervi un po’ scossi. Anche quando è a tavola e divora l’abbacchio e assimila trionfalmente ogni tanto fa una smorfia, qualche cosa non gli va. Vede un difetto, o vorrebbe trovarlo. Non litigherò mai con lui, egli saprebbe umiliarmi scoprendomi mancanze che io stesso non ho mai avuto il coraggio di risentire.

A me pare strano oltre tutto che l’Autore e l’esecutore del ferocissimo Decio, il gagà del Quadraro abbia il telefono. Chiamate 763-728 e vi risponderà proprio Fabrizi.

Cesare Zavattini, «Tempo», 14 marzo 1940


Un film in cui rispunta spesso De Amicis

Il Varietà è stato talmente saccheggiato, ormai quasi da un secolo, dalla pittura, dalla poesia, dalla letteratura e, per ultimo, dal cinema, che ben poco in questo campo resta da dire che non sia già stato detto. Scoperto dal decadentismo europeo in cerca di una nuova poetica, esso ha fatto presto a diventare convenzione cartacea o figurativa, un po’ come la mitologia greco-romana per la letteratura e la pittura classiche. Per tenerci al solo cinema, quanti film di questo genere abbiamo visto a partire dal lontano Variété con Lia de Putti e Emil Jannings. Bisogna, tuttavia, notare che il varietà cosi monotonamente eguale a se stesso in tutti i tempi e in tutti i luoghi, sembra avere riserve insospettate di vitalitf che ne giustificano sempre nuove interpretazioni, alcune delle quali, ogni tanto, anche nuove e felici. In realtà esso è vecchio quanto il mondo e le squisite figurine di danzatrici e mimi e suonatori dei vasi greci sono i lontani antenati delle nostre soubrettes in tutù, dei nostri caratteristi e dei nostri virtuosi di sassofono.

Steno e Monicelli con il loro film "Vita da cani" hanno voluto presentarci una nuova interpretazione di questo mondo dell'arte cosidetta varia, insieme prestigioso e logoro. Questi due registi e sceneggiatori, come è noto, provengono dalle file dei redattori di giornali umoristici che, durante i vent’anni del fascismo, ebbero grande fortuna. In quegli anni la formula dell’umorismo nostrano si rinnovò completamente riuscendo quasi a uscire dal vieto campo della freddura e a sfiorare la critica di costume. Fu un momento breve in cui la piccola borghesia italiana, dimenticando per poco le sue eterne angustie economiche, parve inclinare ad una maggiore conoscenza di sè, dei propri limiti e delle proprie deficienze. Dell’umorismo giornalistico, i nostri due registi hanno conservato sopratutto la disposizione a risolvere in una «battuta» le situazioni e le psicologie. Quale differenza passa tra la «battuta» e il «gag» cinematografico? Diremo che la «battuta» non ha che una dimensione, rivelandosi, appunto di essenza giornalistica, mentre il gag, con tutto il suo automatismo, sembra esser più ricco di sostanza teatrale. Abbiamo, con questa osservazione, già indicato uno dei limiti del film.

La storia del quale è molto semplice. Una modestissima compagnia di arte vana viaggia, come è l’uso, per le più sperdute e rustiche città dell’Italia provinciale. Il capocomico, Martoni, è un brav’uomo clamoroso ma cuor d’oro; al misero carro di Tespi sono aggregate o si aggregano numerose, Delle ragazze ansiose di «sfondare». Dopo molte vicende, effettivamente, almeno tre delle ragazze «sfondano». La prima diventa una celebre «soubrette» del varietà; la seconda si sposa con un bravo giovane che le vuol bene; la terza, dopo un fidanzamento povero e un matrimonio ricco, si suicida gettandosi dalla finestra. La compagnia comica Martoni che, all'inizio del film, abbiamo visto viaggiare in terza classe per l'Italia, riprende alla fine le sue peregrinazioni nella stessa classe di treno e con la stessa miseria.

Steno e Monicelli, avvertendo senza dubbio il carattere ormai oleografico dell’argomento, hanno avuto la buona idea, soprattutto nella prima parte, di puntare sulla descrizione di un ambiente meno noto; quello dei paesini visitati, appunto, soltanto dalle compagnie di terzo e quarto ordine. Abbiamo anche noi viaggiato in provincia e così abbiamo ritrovato con piacere le sale squallide e gelate, di solito adibite a cinema, con le sgangherate poltrone popolate di sbalorditi contadini; i minuscoli palcoscenici e le orchestre di tromboni; le locande rustiche avvezze a ospitare sensali di bestiame e viaggiatori di commercio; i caffeucci affollati ai giorni di mercato. La compagnia Martoni, con il suo capocomico miserabile e abituato a non pagare i conti e il suo stuolo di belle fanciulle affamate e affettuose, in quei paesini, su quei palco-scenici, ci sta benissimo; e, infatti, tutta la prima parte del film è non soltanto divertente ma anche veritiera. Peccato che i due registi non abbiano insistito su quegli ambienti cosi genuini e relativamente nuovi.

Nella seconda parte, invece, il film passa dalla provincia inedita e povera alla città ricca e troppo nota, dalla descrizione d'ambiente all’intreccio e subito decade nella ricetta e nel luogo comune. La storia della ragazza ambiziosa che sposa il milionario e poi, rosa dal rimorso, si uccide, sembra venuta fuori da un romanzo di Ohnet; la fortuna di quella che diventa soubrette non è meno abborracciata; il matrimonio della terza sa di apologhetto morale. Come al solito, appena si esce dalla miseria e dal dialetto e si passa negli ambienti ricchi e civili, ci si imbatte nella volgarità e nell’approssimazione. Quel milionario che riceve in casa sua, in vestaglia, la ballerina, è un personaggio stonato e improbabile. E anche il n odo con il quale il buon Martoni si libera delia sua soubrette per non intralciarle la camera, appartiene ad una tradizione deamicisiana ormai definitivamente scontata. Il film, oltre che sulla arguta e precisa descrizione d’ambiente della prima parte, regge sulla recitazione di Fabrizi, bravissimo davvero e più misurato e sapido del solito. Gina Lollobrigida ha dei buoni momenti e, per una volta, la sua timidezza di attrice si intona col personaggio interpretato. La regia di Steno e Monicelli, senza granai voli ma pulita e cordiale, è perfettamente adatta al genere del film, appunto, comico-sentimentale.

Alberto Moravia, «L'Europeo», anno VI, n.42, 15 ottobre 1950


In Italia il film comico è l’erede diretto del teatro dialettale e della commedia dell’arte. Quanto dire di un teatro che non ha mai oltrepassato i limiti angusti dell' improvvisazione e della pittura di genere. Come il teatro dialettale, il film comico italiano punta sull’interpretazione di un attore di riconosciu to temperamento e lascia il resto alla fortuna. I vari Totò, Fabrizi, De Filippo ecc. ecc., si muovono il più delle volte su sfondi generici, tra comparse senza rilievo, in vicende improbabili e irreali. Non è sorprendente che in questo vuoto da campana pneumatica, in questa mancanza assoluta di una realtà psicologica o sociale purchessia. la loro arte spesso notevole si esaurisca in lazzi, barzellette, battute cartacee, trovate da giornali umoristici. La differenza tra il dramma e la commedia è che si piange ”per” qualche cosa, e si ride, invece "di" qualche cosa. Ma di che cosa potrebbero ridere Fabrizi. Totò e De Filippo e gli altri se ogni critica è assente dai loro film? Cosi la vis comica italiana, fatto non nuovo nella nostra storia, si disperde in buffoneria.

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Signori, in carrozza, film diretto da Luigi Zampa, con Aldo Fabrizi e Peppino De Filippo come interpreti principali, racconta i casi di un controllore dei vagoni letto la cui vita è divisa tra Roma e Parigi. A Roma egli ha la moglie e i figli, a Parigi ramante. Ma le cose nella famiglia romana non vanno bene: la moglie è pigra p trascurata, la dimora è sempre in disordine e. inconveniente ' peggiore di tutti, un cognato disoccupato, scroccone e persino un po’ ladro, si è impiantato in casa e non se ne vuole più andare. Il controllore disperato respira il giorno che gli viene proposto dalla direzione delle ferrovie di trasferirsi a Parigi. Così potrà vivere con l’amante che, al contrario della moglie, è ordinata, pulita e attiva; e al tempo stesso potrà disfarsi dell’ossessionante presenza del cognato. Ma, naturalmente, questo piano, cosi semplice, fallisce. Il cognato insegue il controllore fino a Parigi, lo rintraccia in casa dell’amante. ci si impianta, e. come a Roma, non vuol più andarsene via. E la moglie, insospettita dalle lettere del fratello, piomba anche lei nella capitale francese. Ne segue una situazione piena di equivoci e di inseguimenti, finché in un locale notturno le due donne si incontrano e la doppia vita del con trailo r e crolla miseramente. Abbandonato dall’amante parigina il controllore torna alla grassa e bonaria moglie romana. In compenso la moglie, riconoscendo i propri torti, caccia di casa l’insopportabile fratello.

In questo film c’è un solo motivo veramente vitale: il rapporto tra scroccone e scroccato, tra il controllore dei vagoni letti e il suo impudente e insaziabile cognato. Questo motivo non è davvero nuovo, esso si ritrova in tutto il teatro comico dalla più remota antichità a oggi; tuttavia, riferito com’è ad una realtà psicologica sempre attuale, esso riesce ancora a suscitare il riso. Ma per tutto quanto riguarda l'ambiente e la verità dei caratteri. Signori, in carrozza non si leva molto al disopra della media alquanto bassa del film comico italiano. Non conosciamo gli stipendi delle ferrovie, ma dubitiamo che essi consentano ad un controllore di mantenere due famiglie e frequentare le "boìtes" di Montmartre. D’altra parte, mentre l’ambiente casalingo romano è descritto con tratti che si sentono autentici, i luoghi parigini hanno un'aria convenzionale e turistica. E quell’amante parigina non sembra adatta al personaggio interpretato da Fabrizi: troppo fine e troppo diversa. In generale, a Parigi il film perde consistenza e diventa del tutto improbabile.

Il tandem Fabrizi-De Filippo funziona a meraviglia; ma separati l’uno dall’altro i due comici, in altre scene comiche o sentimentali, non fanno più né ridere né piangere. La regìa è decorosa.

Alberto Moravia, «L'Europeo», anno VII, n.48, 25 novembre 1951


Chiunque abbia visto recitare Fabrizi davanti alla macchina da presa in questi ultimi tempi era in grado di prevedere quello che successo. E cioè che Aldo Fabrizi avrebbe finito prima o poi per fare tutto da sé, non solo mettere le mani nei soggetti e nelle sceneggiature, come per il passato, ma dirigere i propri film. L'attore era non solo generoso, ma esuberante, traboccava da tutte le parti. Come lutti i veri comici Fabrizi possiede il senso della battuta, e di una battuta che scaturisce dalla situazione del momento, il suo è un repertorio «a soggetto», con un doppio fondo. Quell’ispirazione che i comici normali traggono dal pubblico, in un teatro, dal calore che si sviluppa dall'attenzione di una platea. Fabrizi se la porta con sé dovunque vada. Se recita la scena di un film in mezzo a una strada, Fabrizi finisce per crearsi anche lì un pubblico, una platea. Il regista ripete la scena, per una qualsiasi ragione tecnica, siate pur certi che Fabrizi cambierà la sua battuta. E’ un fare e disfare continuo, perché l’uomo recita naturalmente, adopera il dialetto romano come un poeta dialettale, sempre attento a spremerne un tono, un accento, un’espressione differente dalla prima. In queste condizioni dirigere Fabrizi è difficile, almeno quanto per lui sopportare di essere inquadrato in uno schema studiato sulla carta in precedenza. Per questo dopo Emigrantes (1949) venne Benvenuto Reverendo! (1950) e ora siamo alla serie della Famiglia Passaguai. Fabrizi si sfoga. Dopo un primo film, nel quale si raccontavano le avventure di una famigliola romana sulla spiaggia di Fiumicino, durante una domenica d’estate, è venuto il secondo. La famiglia Passaguai fa fortuna, e se ne annunciano altri due. Il soggetto del terzo film Fabrizi se lo tiene in corpo da una quindicina d’anni, s’intitola La famigliola e anche senza averne letto una riga potremmo riferirvi di cosa si tratta. Basterà pensare a cos’era il programma del comico Fabrizi quindici anni fa, ai suoi numeri di avanspettacolo, a personaggi come «Il tranviere», «Il cameriere». «Il vetturino», popolani carichi di figli, che lavorano tutto il giorno coi piedi gonfi, si cibano di sfilatini pieni di «patate a sacchetti», una galleria di poveri diavoli in cui migliaia di altri poveri diavoli, convenuti nei cinema di periferia ad ascoltarli, riconoscevano i propri guai, la propria rassegnazione, l’umorismo involontario della propria esistenza. Era l’epoca in cui si andava a cercare Fabrizi, l’estate, nei cinema dei Prati, e la voce del comico, bassa, strascicata, insistente cominciava a enumerare decine e decine di guai con quella frase che ancora ci risuona nelle orecchie: «Ci avete fatto caso che...?» e via via. snocciolava cataloghi interi di piccoli episodi, disgrazie, contrattempi interrotti soltanto dal grido soffocato «Che macello!» che tornava periodicamente nel discorso come il lamento di un uomo in un incubo. Ed era fatale che Fabrizi ritornasse a quella sua prima ispirazione.

Quanto alla serie della Famiglia Passaguai, questo c'è da dire, che Fabrizi vi si abbandona alla farsa; rinunciando in partenza, almeno nelle intenzioni, persino a quella «percentuale di patetico» che si era concessa nei film precedenti. Siamo dunque in pieno film comico, e Fabrizi ha chiamato a dargli man forte, volta per volta, il nerbo degli attori comici nostrani. Nel primo film, infatti, oltre ad Ave Ninchi, destinata già da Vipere in pace a figurare come sua moglie, figurano maschere popolari come Peppino De Filippo, Tino Scotti, Luigi Pavese. Giovanni Grasso, Enrico Luzi (Che ce l'ha lei il crick?). Siamo nel campo dell'umorismo regionale, come al reggimento. L’ambiente è si quello di una famiglia romana, ma intorno la gente parla napoletano, milanese, siciliano e persino triestino. Nel secondo film il giuoco è portato ancora un passo avanti. Arrivano Macario, il piemontese, Virgilio Riento, l'abruzzese.

La prima idea della Famiglia Passaguai l’ebbe un umorista romano morto nel primo dopoguerra. Anton Germano Rossi, autore, o meglio inventore della rubrica «La contronovella» del settimanale Marc’Aurelio. Rossi raccolse un certo numero dei suoi raccontini in un libro dal titolo volutamente volgare. Porco qua e porco là! Preparò la serie della Famiglia Passaguai, se non sbaglio, per la radio. Ma l’umorismo di Anton Germano, per quanto brutale, era fantastico, e non c’è niente di più reale e rionale del repertorio di cui si serve Fabrizi.

Aldo Fabrizi si è dunque servito delle trovate di Anton Germano Rossi (che fra l’altro è l’inventore della parola «picchiatello», ora di uso comune) come punto di partenza. Insieme ad Amendola e Maccari, che collaborarono con Rossi ai giornali umoristici di prima della guerra. Fabrizi ha riscritto e rifatto la vita della Famiglia Passaguai sulla sua misura. Il secondo film è stato ambientato nel campo profughi dei Parioli. La famiglia Passaguai vive fra sinistrati, sfollati, displaced persons, e ogni altra sorta di poveracci senza casa e perciò «senza fissa dimora». Quand'ecco che, per un improvviso colpo della sorte, la fortuna rovescia la sua cornucopia addosso ai Passaguai. I quali cadono, senza nessuna preparazione o preambolo, nel mondo dei ricchi, dei borsari neri, degli arricchiti dell’ultima guerra, facile preda di quegli squali. Com’è composta la famiglia Passaguai? Oltre lui, il cavalier Valenci, e Ave Ninchi, vi figurano tre figliuoli: Giovanna Ralli, nella finzione una ragazzetta carina sventata e civetta quel tanto che basta, e in realtà una giovane recluta piena di buona volontà e fanatica per il cinema, Carlo Delle Piane, il ragazzo nasuto di Cuore e Domani è troppo tardi, e Giancarlo Zarfati, un bambino di tre anni e mezzo bello come un angelo (ultimo dei dodici figli di un bagnino del Tevere) la cui dote principale consiste nell’ eseguire ogni sorta di versacci e suoni inarticolati fra la generale soddisfazione. Dice Fabrizi di Nasone: «Pò esse fijo mio uno co’ 'sta faccia?».

Gian Gaspare Napolitano, «L'Europeo», anno VII, n.50, 12 dicembre 1951


Nell’America del Nord, prima di arrivarci in film, ci arrivai in bastimento nel lontano 1938 («ammàppete», come passa il tempo!) per esibirmi in un teatro della Broadway, come comico macchiettista. Vi rimasi tre mesi e, devo dire la verità, trovai che, in quanto a spaghetti, non c'era proprio niente da dire. Fabbriche, impiantate da italiani, ne scaricavano a tonnellate sul mercato, di ottima qualità, di quelli, insomma, che tengono la «corda», per modo che, quando li cucini, non c’è pericolo che diventino colla per manifesti, e lasciano l'acqua priva di quel lìmacciume che sta a denotare la cattiva qualità. Durante la traversata, all'altezza del Gulf Stream, fummo colti da una specie di maremoto, che, oltre a fracassare tutte le cose che a bordo non erano infisse, trasformò il mio corpo in una palla elastica. Rimbalzavo, nella mia cabina, da una parete all'altra, ad ogni flusso e riflusso delle gigantesche ondate, sulle quali la mastodontica nave danzava la tarantella; e, sul mio capo, pioveva di tutto: libri, scarpe, vestiti, ombrelli, valigie...

Nell’America del Sud, invece, ci arrivai prima in pellicola e poi in carne ed ossa, per fare da regista e attore in un mio film: «Emigrantes». Le accoglienze in Argentina, specie degli italiani, furono festosissime. E alla «prima» di quel film, presente Evita Peron, e tutto lo stato maggiore della Presidenza, ci rimisi un vestito. Furono tali e tante le espansioni da parte del pubblico che, tira di qua tira di là, il bavero della mia giacca restò nelle mani di un «aficionado», un altro mi tagliò la «pattellina» della tasca ; ma per ricordo, si capisce. E, taglia di qua e strappa di là, a momenti mi avrebbero cavato anche le brache, per distribuirsele a pezzetti. Dovetti sottrarmi a quegli entusiasmi a viva forza, anche perchè non mi sembrava conveniente rimanere in mutande davanti alla Presidentessa. Ma, prima dovetti concedere un autografo a un tale sulla fronte, lo graffiai tutto col pennino della stilo, ma lui era stracontento, e mi giurò che non si sarebbe la-

A Parigi, avevo fatto amicizia con un italiano che teneva un ristorante un po' lontano dal centro. Un ristorante che chiudeva alle undici di sera. Si era convenuto che, quando a quell'ora, il cuoco, che era francese, se ne fosse andato, l'avrei sostituito nella cucina, e, a porte chiuse, il proprietario, la moglie e i miei compagni attori, con i quali lavoravo per il film «Signori, in carrozza», avremmo tutti insieme cenato con quelle vivande che io avrei preparato, e che, naturalmente, erano della nostra cucina. Tutte le sere, in attesa che il cuoco francese si disponesse ad andarsene, si faceva finta di giocare a scopone. Era una delicatezza. Non si voleva che capisse il vero scopo della nostra serale irruzione nei locale. Una bella sera, però, quel simpatico «chef», dopo di aver deposto il berrettone bianco e il grembiule e indossato i panni della strada, anziché andarsene si venne a sedere al nostro tavolo e si dispose a seguire il gioco con viva attenzione. Passò un quarto d’ora, mezz’ora, un'ora. La cosa si faceva tragica. A un tratto, quel brav'uomo, dopo di aver consultato l’orologio, si rivolse a me dicendo: «Monsieur Fabrizi, quando si decide ad andare in cucina? Questa sera vorrei, se me lo permette, assaggiare anch'io i suoi ” maccaronl ". Non le nascondo che non ho pranzato per questo, e ora ho molto appetito». Dico, ma come ha saputo che io, ecc. E lui mi fa: «Dagli odori che la mattina trovo in cucina. Siccome non sono quelli che emanano le mie vivande, ho mangiato la foglia». Basta, mi toccò, per tutto il tempo che rimanemmo a Parigi, cucinare anche per lui. Di scopone non se ne parlò più. E fu un bene. E' un gioco noioso quando lo si gioca sul serio, figuriamoci per finta.

Non so se avete seguito le trasmissioni radio di «Punto interrogativo». In quelle trasmissioni ho elargito, pianoforti, radio, vitelli, caprette, ecc. E ciò forse ha fatto pensare al pubblico che bastava rivolgersi a me per ottenere il soddisfacimento di ogni bisogno o desiderio. Infatti c’è chi mi scrive di mandargli un pianoforte, chi un biglietto di aereo per Buenos Aires, andata e ritorno, altri chiede un impiego, e c’è persino chi mi supplica di far uscire di prigione il proprio marito condannato a 15 anni di reclusione, senza sapere forse che, questa di graziare un condannato, è prerogativa riservata soltanto ai capi di Stato. Non parliamo poi della’ richiesta di sussidi, di giocattoli, di indumenti, ecc. Per quel che posso, volentieri accontento, anche se con ritardo, dovuto al fatto che queste richieste sono inviate, sì, per lettera, ma a chilogrammi e, solo per leggerle, occorrono mesi.

*Nella prossima stagione teatrale, mi. riprometto di costituire una compagnia per rappresentare alcune commedie. In confidenza, però, vi dico, fidando sulla vostra discrezione, che è più facile mettere insieme una «troupe» per «girare» un film, che un complesso di attori per rappresentare lavori teatrali. Ma spero di riuscire nell’intento. Compatibilmente con gli impegni cinematografici. Ho finito di «girare» «Papà diventa mamma», come regista e attore. Dovrò fare un film con Pabst, e un altro con Matthieu. Poco fa ho ricevuto una telefonata da Parigi dal regista Clouzot che mi vorrebbe interprete di un suo film. Comunque, le cose difficili a realizzarsi sono quelle che più mi appassionano. Ecco perchè, quando posso, mi dedico alla culinaria. Che cosa è complessa e difficilissima. Pigliate, ad esempio, le fettuocine alla amatriciana. A parte la cottura, il sugo, il «pecorino», occorre che il «guanciale», sia veramente tale, ée lo sostituite con la «pancetta», avete rovinato tutto.

Aldo Fabrizi, «Domenica del Corriere», 26 maggio 1952


F. G., «Tempo», 1956 - Waler Chiari e Aldo Fabrizi


«Radiocorriere TV», 1965


Mi capita in mano un fascicolo, pescato su una bancarella, intitolato «Mezz'ora con Fabrizi». Sono sessantaquattro paginette di chiacchiere, sketches, battute della serie «Ciavéte fatto caso...» e non ci sarebbe neanche bisogno della data, agosto 1941-anno XIX dell'era fascista, per riportare la pubblicazione ai tempi dell'Italietta vulnerata e strafottente, spinta sull’incongruo palcoscenico della guerra dal delirio di Mussolini.

«Disegni di Attolo» recita impropriamente la didascalia, ma noi riconosciamo subito nelle caricature del protagonista e nei quadri d'ambiente il segno inconfondibile del vignettista Affato, che immortalò la piccola borghesia romana sulle pagine del «Marc’Aurelio». E le testatine dei capitoli, che intrecciano a schizzi graziosi titoli come «La famiglia», «Il vetturino», «Il portiere» o «Lo sciatore», sono di un’altra
mano e recano, piccolissima, la firma «F». Ovvero Federico Fellini da Rimini, anni 21, allora scudiero immancabile, «spalla» scrivente e compagno d’avventure di quello che la stampa aveva battezzato «Il Comico moderno».

Tra la greve zampata di Attalo e la piroetta ironizzante di Fellini si può collocare la poetica di Aldo Fabrizi, quirite tanto antropologicamente plebeo da trasformare la presunta inferiorità sociale in una connotazione aristocratica: volgare per scelta esistenziale, raffinatissimo per vocazione d’artista Orfano precoce di un falegname, figlio di una bancarellara di Campo de’ Fiori dove lui stesso non sdegnò di proferire frutta e verdura, tutta la preistoria del «Sor Aldo», fino al momento in cui fa capo cella al Corso Cinema come esecutore di una canzoncina che un fine  dicitore gli aveva protestato, è avvolta in un intreccio di leggende, a cominciare dall’anno di nascita che certe enciclopedie retrocedono esagerando addirittura al secolo scorso.

Passato attraverso tutti i mestieri che rispecchierà nelle sue celebri macchiette («Io faccio er portiere — so’ fijo de mestiere — e sento er dovere — de quello che ffo...»), Fabrizi approda alla scrittura umoristica (che continuerà a praticare fino all’ultimo come sonettaro cantore della pastasciutta) e subito dopo al teatro di varietà.

Sul finire degli anni Trenta lo conoscono già tutti, anche attraverso la radio e i dischi; e il suo travaso nel cinema è un fenomeno fisiologico.

«Avanti, c’è posto», «Campo de’ Fiori» e « L’ultima carrozzella» sono grandissimi successi di pubblico, ma i cinefili criptocomunisti della rivista «Cinema» non glieli perdonano; e arrivano a trattarlo come un borsaro nero perché i suoi compensi sono lievitati fino al milione. Proprio in questi anni dietro al comico c’è il giovane Fellini, in un sodalizio che oppone orgogliosamente la pratica dello spettacolo e il gusto della risata alle fumisterie dei cervelloni. Il che non impedisce, come è avvenuto per Totò, che molti intellettuali patentati, da Silvio d’Amico a Ennio Fiatano, si appassionino alla figura di Fabrizi, al quale secondo alcuni manca solo l’esistenza di una forte tradizione teatrale romanesca per diventare ciò che Eduardo sta diventando nel solco della napoletanità.

È ormai leggenda anche il modo in cui Fabrizi fu trascinato da Rossellini, tramite l’amico Fellini, a impersonare il prete di «Roma città aperta». Scrissero che lo fece per i quattrini, senza impegnarsi, litigando quotidianamente con la Magnani. L’evidenza, però, sta nelle immagini: nella nobiltà dimessa e pastosa, ammiccante e solenne, di quel sacerdote che scavalcando ogni retorica diventò un
simbolo della nuova Italia. Una personificazione in cui l’umile attore del varietà, ma della razza che piaceva a Bertolt Brecht, travasò tutta la sua grintosità di popolano indomabile.

Bisogna pur scrivere, ora che se ne è andato, quello che vivente Fabrizi forse in Italia non fu mai scritto. Il nostro non è stato solo uno stupendo animale di cinema, ma un grande attore paragonabile ai maggiori caratteristi del secolo: Emil Jannings, Wallace Beery, Raimu. Lo tentarono da una parte gli allettamenti del successo di massa, dall’altra l’impegno verso il quale lo risucchiavano registi dal palato fino come Blasetti, Castellani e Monicelli. Per un po’ si tenne in mezzo alle due soluzioni, anche se dopo gli anni Cinquanta cedette alle occasioni più facili e talvolta si svilì in una specie di autodenigrazione provocatoria. Ma imponendo comunque una chiave personale, a volte debordante a volte improvvisamente sobria e raffinata. E la sua lunga filmografia, per chi la rivista in disordine nella programmazione televisiva, è una fonte continua di liete sorprese.

La gloria di Aldo Fabrizi non si affida solo a «Roma città aperta», ma a una serie di titoli che vanno da «Vivere in pace» a «Il delitto di Giovanni Episcopo», da «Prima comunione» a «Guardie e ladri» e a tanti altri. Senza dimenticare i film che diresse da sé, come «Marsina stretta» (nell’antologia «Questa è la vita»), dove rende a meraviglia un personaggio di Pirandello impacciato da un abito da cerimonia inadatto a lui. Una metafora, quasi, del suo sentirsi strangolato in un mondo dello spettacolo che in cambio del successo voleva imporgli regole e osservanze.

Fabrizi, e va detto a suo onore in un contesto di uomini senza qualità, preferì restare se stesso nel bene e nel male. Il suo piatto di spaghetti se lo condì «ar modo mio» (come ancora annunciano certi osti della capitale): con l’olio del talento, l’aglio della tigna e il peperoncino dello sberleffo.

Tullio Kezich, «Corriere della Sera, 3 aprile 1990


ROMA — Mentre il cuore gli si spegneva in petto, la televisione, dopo tanto tempo, gli dedicava un istante di attenzione. Nel telegiornale delle tredici presentavano un libro sul teatro di rivista, e nel servizio c'era pure un frammento di un suo vecchio numero: «Tu Lulù non m'ami più», roba degli anni Trenta.

Aldo Fabrizi stavolta è morto davvero. È morto come succede ai vecchi: scivolando ineluttabilmente fuori dalla vita. Romano come l'abbacchio, potrebbe essere il suo epitaffio. Battuta un po’ greve, che però forse gli avrebbe acceso un lampo d'ironia in fondo agli occhi. O forse di commozione, chissà. Perché della sua romanità rotonda e sfriggente Aldo Fabrizi aveva fatto il suo blasone, la sua maschera.

È morto per un arresto cardiaco, verso le tre di pomeriggio, dopo un anno passato quasi sempre in clinica. Era stato ricoverato per un'intossicazione da psicofarmaci: prima all'isola Tiberina, giusto di fronte al ristorante dell’amatissima sorella, la sora Lella. Poi in una clinica specializzata nell'assistenza agli anziani. Il figlio Massimo e la figlia Wilma adesso sono costretti a difendersi dall’accusa di averlo abbandonato, perché così vogliono le regole di un giornalismo spietato. Avevano pubblicato nei giorni scorsi delle foto del vecchio, scrivendo appunto che era stato buttato lì in un letto. «Abbiamo scelto la clinica proprio perché è vicina alle nostre abitazioni», dice ora Massimo, «e questo ci permetteva di stargli accanto il più possibile».

Di solito dormiva in poltrona, per via di una difficoltà a respirare. Ma ieri ha chiesto di mettersi a letto. Viveva male la sua prigionia di malato: stava scrivendo un libro di memorie, e questo gli serviva a passare il tempo, ma negli ultimi giorni stava troppo male anche per lavorare. Oli piaceva scrivere: anni fa dedicò un libro ad uno dei grandi amori della sua vita, la pastasciutta.

Il mondo del cinema lo piange un po' distrattamente: era un grande attore, ha fatto grandi film. Ma succedeva tanto tempo fa. Forse il ricordo più tenero è quello di Carlo Verdone, che ammette di averlo scelto tanto tempo fa come una sorta di nonno artistico. Lo piangono sceneggiatori e registi, da Age a Suso Cecchi d'Amico a Carlo Lizzani, che ricordano i tempi eroici del cinema del dopoguerra. E lo piange il cinema «ufficiale»; Carmine Cianfarani presidente dell’Anica, Ivo Grippo presidente dell'Ente Gestione Cimena.

Il presidente della Repubblica Francesco Cossiga ha mandato un telegramma ai familiari, nel quale ricorda la sua straordinaria capacità di suscitare emozioni, sentimenti e riflessioni. Mentre il sindaco di Roma Carraro parla di come avesse saputo esprimere «l'anima della città, l'umanità e la schiettezza della sua gente». Valori in bianco e nero, come i suoi film. Valori che nella Roma incanaglita di oggi nessuno forse, nemmeno Aldo Fabrizi, saprebbe più ritrovare. La televisione, come si usa in queste circostanze, oggi gli dedicherà una serata: daranno «Avanti c'è posto», una commedia leggera.

«Corriere della Sera, 3 aprile 1990


Ha dominalo il varietà, esercitandovi un peso maggiore di quello che abbia mai raggiunto. Aveva la battuta pronta, ma non era soltanto un battutista, era un grande narratore orale. Diventava fluviale addirittura fronteggiando il pubblico, qualsiasi pubblico, anche quello della suburra, con la sicurezza non solo di cavarsela, perché era il suo mestiere, ma di stravincere con la forza delle sue storie. Le sue storie eran le storie di tutti, disavventure che potevano capitare a un tranviere, a un vetturino, a un tifoso di calcio, a uno sciatore dilettante, a chiunque. Ma lui ne faceva di volta in volta una cosa unica, una leggenda.

Muovendo il suo corpo grosso e compatto come se fosse leggero come una piuma, prolungando i suoi racconti infiniti con dei grugniti che risultavano più eloquenti e più espressivi delle stesse parole, Aldo Fabrizi era destinato ad arrivare al successo in ogni campo. Il varietà gli concesse di emergere. La grande rivista gli fece posto. Ma si provò anche con la radio, prima di sfondare nel cinema. I dischi dei suoi sketch andarono a ruba come più tardi sarebbero andati quelli dei maggiori cantanti. Insomma, sapeva far ridere, anche non esibendo il suo capoccione, anche non apparendo strippato in un vestilo da marinaretto o da donna. La sua voce consolava dalle malinconie superando il fruscio dei dischi. E' stato lui a conferire al romanesco la qualità non di un semplice dialetto, ma del suono stesso di un particolare modo di pensare, di accettare la vita, la dignità e la responsabilità del linguaggio comico, una valenza universale.

£’ significativo che proprio lui, che aveva fatto tanto ridere gli italiani durante il fascismo, sia stato chiamato da Roberto Rossellini a interpretare un personaggio da piangere per gli italiani dopo il fascismo, accanto a una grande Federico Fellini è stato presentato come suggeritore del teatro di varietà di Fabrizi. Fabrizi ha ammesso la possibilità di qualche collaborazione, ma ha sempre rivendicato il ruolo di maestro. Teneva moltissimo alla sua originalità, a non dipendere da nessuno in nessun modo. Per questo, forse oltre che per l'appesantimento della vecchiaia, ha fatto meno in televisione di quanto abbia fallo sul palcoscenico del varietà, della rivista, al microfono della radio. Aveva sempre l'aria di considerare i nuovi talenti come gente che sbagliava mestiere.

Oreste Del Buono

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«So’ vivo e vegeto!», aveva tuonato il 21 aprile di un anno fa nella sua tipica furia da burbero benefico, condita con un pizzico d'ironia: quel giorno il Gr2 aveva dato per sbaglio la notizia della sua morte. Fabrizi, che era ricoverato all’ospedale per un’insufficienza respiratoria, smalti la rabbia mangiando con gusto un piatto di spaghetti e una sogliola.

  • Brontolava anche per la sua data di nascita: -L’Enciclopedia dello Spettacolo dice che sono nato nel 1897 e invece sono del 1905. Ma li voi ammazza'? Quelli non sanno gnente, come i giornalisti».
  • Prima di entrare nel mondo dello spettacolo.
    aveva fatto una trentina di mestieri: tra cui il postino, il tipografo all’Osservatore Romano, il guardiano notturno, il vetturino, il «fruttarolo» a Campo de’ Fiori.
  • Circa settanta i suoi dischi con canzoni e monologhi farseschi. Nel '29 il comico Miscel esitò a interpretare la sua filastrocca umoristica «Nel Duemila». Lui se la prese e la recità in scena di persona. Nacque così il comico Fabrizi.
  • «Ciavete fatto caso?»: è questa la sua battuta più celebre, mentre tra i suoi tipi grotteschi si ricorda il pugnatore. «È la Divina Commedia della comicità», sussurrò una volta papa Pio XII.
  • Novantatré film da attore. molti da regista e da soggettista. Quelli che amava di più erano due prove registiche: «Marsina stretta», tratto da Pirandello e «Emigrantes». Si vantava della presenza nei libri scolastici dell'Unione Sovietica di «Hanno rubato un tram», una sua sceneggiatura.
  • Cinquant'anni sulle scene, in teatro raggiunse fama internazionale col Mastro Titta nel -Rugantino». Negli anni Settanta ha fatto coppia con Nino Taranto in «I ragazzi irresistibili» di Nell Simon.
  • La radio ha ospitato la sua voce sin dagli anni Trenta. Ma recentemente gli ha vietato la soddisfazione di una «Fabrizi story», già programmata dalia Rai e poi improvvisa-
    mente sparita. In televisione era negli anni Sessanta una delle facce più note dei «Caroselli» con Ave Ninchi. Negli anni Settanta ripropose le sue macchiette nel varietà -Speciale per voi». L'ultima apparizione dell'87 nel varietà di Bramieri. Arrivano numerose telefonate e lettere da telespettatori commossi.
  • Lacrime e spaghetti si dice di lui. Tre i libri «gastronomici»: «La pastasciutta», «Nonna minestra» e -Nonno pane». Molte le raccolte di sonetti. Ma ironizzando sul suo spirito ingenuo diceva: -In realtà dovrei scrivere un libro intitolato "Le mie fregature"».

Alessandro Cannavò

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Oltre novanta film, una lunga galleria di personaggi che appartenevano al suo mondo popolare: ecco la carriera cinematografica di Aldo Fabrizi. L'esordio sul set è del '41 con Avanti, c'è posto, di Bonnard in cui interpreta un tranviere (il soggetto era suo. la sceneggiatura fu realizzata con Zavattini e Fellini); l’ultima opera è Giovanni senza pensieri dal giovane Marco Colli nell’86 dove veste i panni di due anziani gemelli droghieri.

Fabrizi ha spesso portato sul grande schermo personaggi che aveva presentato in precedenza alla radio o in teatro. Come in Campo de' fiori e in L’ultima carrozzella, entrambi del ’43. Ma è con l’eroico don Pietro di Roma città aperta di Rossellini (1945) che raggiunge una fama internazionale, rivelando doti drammatiche.

Al periodo neorealista appartengono anche Vivere in pace di Zampa (’46), Prima comunione e Francesco, giullare di Dio, entrambi del '50. L’anno dopo un’altra grande prova in Guardie e ladri di Steno e Monicelli in cui è il brigadiere che si oppone al ladro Totò. In Altri tempi di Zampa (’52) è un venditore ambulante di libri.

Dopo tanti film commerciali, toma al cinema di qualità negli anni Settanta con La Tosca di Luigi Magni e Ceravamo tanto amati di Scola. Numerosi i film che firma da regista: da Emigrantes (1948) alla serie della Famiglia Passaguai (’51); da Questa è la vita (’53) a Hanno rubato un tram ('54) a Il maestro (’58).


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ROMA — (Ansa) «Non lo vedevo da quarant'anni — ha detto Federico Fellini appena informato della morte di Aldo Fabrizi — ma lo ricordo come uno dei primi amici che ho conosciuto a Roma nel '38. Insieme abbiamo frequentato l’avanspettacolo».

Fellini, che come soggettista collaborò ai primi film di Fabrizi, ha ricordato ancora: «I suoi numeri erano basati sull’osservazione del mondo piccolo borghese, il pubblico riconosceva in lui un amico».

«Era un orco buono, un'ottima guida per capire i romani e Roma, di cui mi taceva conoscere anche la cucina e le trattorie».

«Toccò a me convincerlo ad accettare il ruolo di don Pietro in "Roma città aperta": diceva di non volere la parte perché era un ruolo drammatico. E mi chiese, riferendosi ai tedeschi: "E se poi tornano?"».

«Corriere della Sera, 3 aprile 1990


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«L'Unità», 3 aprile 1990 - Pagina dedicata ad Aldo Fabrizi


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Aldo Fabrizi è morto ieri pomeriggio alle 15 nella clinica «Marcella». Aveva 85 anni, anche se alcune biografìe danno il 1906 come data di nascita. Lui ha sempre protestato: l'anno buono (lo ha ribadito nell'87, in una delle sue ultime interviste) è il 1905. I funerali avranno luogo domani nella chiesa di San Lorenzo in Damaso a piazza della Cancelleria. Era ricoverato da alcune settimane nella clinica, specializzata nell'assistenza agli anziani.

L'avevano scelta i figli Massimo e Wilma, che hanno voluto fare, proprio ieri, una precisazione: «Non abbiamo abbandonato nostro padre, come un giornale ha voluto far capire. Abbiamo scelto la clinica proprio perché è vicina alle nostre abitazioni, e questo ci permetteva di stargli accanto il più possibile». La polemica nasce da un servizio fotografico pubblicato da un settimanale, che ritraeva l'anziano attore nella sua stanza alla «Marcella». Fabrizi soffriva da tempo di difficoltà respiratorie e di insufficienza cardiaca. Le sue condizioni erano peggiorate da un anno, a causa di un'intossicazione da psicofarmaci. Superato il momento più difficile, aveva tuttavia ripreso a lavorare con lena: stava scrivendo le sue memorie.

E' un peccato che non abbia potuto portarle a termine: dall'infanzia povera in un quartiere popolare di Roma al grande successo come attore e anche come scrittore, la sua vita rappresenta bene uno spaccato della storia d'Italia. Il padre, falegname, morì quando l'attore aveva 8 anni. Fu l'inizio dei «cento mestieri»: fruttivendolo con la mamma, cuoco, ebanista, cacciatore, tramviere, imbianchino, vetturino, panettiere, vetraio. Intanto divertiva gli amici con i suoi monologhi e scriveva le prime poesie in romanesco. Le avrebbe portate, di lì a qualche anno, a Trilussa, che lo incoraggiò a proseguire. Lui però preferiva Belli, perché esprimeva «l'anima del popolo», quella cui diede voce sulle scene o ai microfoni, creando macchiette e personaggi indimenticabili: per esempio il tramviere romano.

Comico nei varietà dal '31 al '41, sullo schermo nel '42 (con «Avanti c'è posto»), Aldo Fabrizi, come raccontava volentieri, ebbe un successo lento ma inarrestabile. Fitte e esilaranti le sue apparizioni alla radio, un po' più rade nei decenni successivi quelle alla televisione. Improvvisava monologhi, scriveva canzoni, cantava. Con la moglie Beatrice Rocchi, «Reginella», giunse persino a Broadway. Reginella era una cantante, fecero coppia fissa prima della guerra per molti anni. Si erano conosciuti sulle scene, ebbero un fidanzamento sorvegliatissimo da genitori e parenti, «senza nemmeno un bacio», come amava raccontare l'attore. Si sposarono nel '32.

Quando la donna morì, nell'81, Fabrizi volle che in chiesa venissero diffuse le note di «Son tornate a fiorire le rose», un successo di «Reginella». Sentimentale e beffardo Fabrizi: nell'estate cruciale del '44 Rossellini gli propose il copione di «Roma città aperta»; si narra che scoppiasse a piangere, vere lacrime di commozione, e subito dopo chiedesse un milione, cifra inarrivabile. Poi fece quanto gli si chiedeva, e fu il grande successo. Ma l'attore di cinema e di teatro, il comico popolaresco e irresistibile che ricordava a molti Petrolini senza aver avuto l'occasione di vederlo (perché il biglietto del teatro costava troppo, per il giovane Fabrizi) non ha mai dimenticato quelle poesie portate a Trilussa: anche se la più vera ispirazione gli venne sempre, in questo campo, dal suo amore per la cucina, che gli consentito di scrivere due libri argutamente memorabili: La pastasciutta e Nonna minestra.

m. b., «La Stampa», 3 aprile 1990

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Affetto, cordoglio e stima dal mondo della politica e dello spettacolo. Il presidente della Repubblica Francesco Gossiga ha ricordato di Fabrizi «la prestigiosa carriera, che ha dato al teatro e al cinema italiano esemplari interpretazioni e la sua maestria di attore e di uomo di spettacolo, capace di suscitare nel pubblico emozioni, sentimenti, riflessioni». Federico Fellini: «Una guida ideale per conoscere Roma e per capire ì suoi abitanti. Fabrizi era una specie di orso buono che mi faceva conoscere anche i piatti romani, le piccole trattorie dove si mangiava bene. Ricordo anche certe passeggiate notturne per Roma che con lui sembrava un grande appartamento privato: certe volte veniva in carrozzella e si intratteneva col vetturino, un mestiere che conosceva bene per averlo praticato».

Del Fabrizi «romano» parla anche Luigi Magni, autore di molti film sulla Roma del secolo scorso, che ha diretto l'attore scomparso nella Tosca del 1973. «Ho il dispiacere di avere fatto un solo film con lui. Con Fabrizi scompare l'ultimo vero rappresentante della romanità, una tradizione, una cultura, una umanità, un modo di fare che oggi non si trovano più».

Carlo Verdone, regista delta nuova generazione che deve alla capitale una parte della sua ispirazione, si definisce «nipote di Fabrizi»: «Se Alberto Sordi è il mio padre artistico lui è certamente stato mio nonno. Fabrizi ha saputo cogliere la vera essenza di quello spirito romanesco che ha caratterizzato il periodo della ricostruzione dopo la guerra e che ha avuto in campo de' Fiori il suo osservatorio fondamentale e in Fabrizi stesso il più attento e sensibile osservatore» Proprio su uno dei film che hanno descritto la capitale durante la guerra, Roma città aperta, Ugo Pirro ha scritto il libro Celluioide da cui ora Carlo Lizzani si appresta a realizzare un film «Sono contento di rappresentare Fabrizi sullo schermo - ha detto ieri il regista -, anche se con il volto di un altro attore».

Lacrime di commozione per Marisa Merlini: «Fabrizi. come Totò, è sempre stato bistrattalo, tenuto in scarsa considerazione. In Italia il valore delle persone si riconosce sempre post mortem e anche a lui è toccato di andarsene in un'infinita malinconia» Lacrime anche per Nino Manfredi, compagno di lavoro in Rugantino. «Sono troppo colpito nei sentimenti per parlare di un collega straordinario col quale avevo rapporti di profonda ammirazione e amicizia».

f. e., «La Stampa», 3 aprile 1990


Attore, scrittore, regista, uomo dai molti talenti - fu fra le altre cose gastronomo, e poeta romanesco - Aldo Fabrizi rimarrà come una delle figure fondamentali del nuovo cinema italiano, e questo anche a prescindere dalla sua partecipazione a Roma città aperta, dove tuttavia la sua caratterizzazione del buon prete indicò sin dall'inizio la strada maestra poi imboccata dal filone più vitale del neorealismo, quella che temperava il melodramma con la comicità dialettale.

Fu certo un colpo di genio da parte di Rossellini l'affidare due parti drammatiche ad attori brillanti, provenienti dalla rivista, come Fabrizi e come Anna Magnani. Ma una ragione non secondaria di quell'ispirata scrittura fu il fatto che nel 1945 Fabrizi era già un divo, il primo divo di quel cinema post-fascista che pescò quasi tutti i suoi eroi fra gli entertainers del teatro di varietà: basti pensare a Macario, a Totò, e subito dopo a Rascel e a Walter Chiari.

Rispetto ai quali Fabrizi era atipico, come lo era stato nel teatro leggero. A differenza degli altri comici di rivista, non aveva una sua compagnia, non ballava, e non faceva i numeri tradizionali; la sua specialità era un lungo assolo confidenziale, in gran parte improvvisato, e di solito collocato prima del finale. I testi se li scriveva da sé, o tramite autori che controllava da vicino, come il giovanissimo Federico Fellini. Nel cinema egli esordì con copioni ai quali aveva collaborato, ritagliandosi parti su misura. Debuttò trasferendo sullo schermo, e adattandolo a un fatto di cronaca, il bigliettaio di tram di un suo sketch (Avanti c'è posto); in Campo de' fiori fu un pescivendolo con sciocche ambizioni di scalata sociale; in L'ultima carrozzella fu un vetturino che proibisce alla figlia le nozze con un tassinaro. Questa trilogia, tutta girata nel 1943, precede il film famoso di Rossellini e anticipa per alcuni versi il neorealismo, per altri la commedia all'italiana. Non bello, non distinto, non giovane, almeno nell'aspetto nel '43 aveva solo trentasette anni, ma si presentava come persona di mezza età, romanescamente finto-bonario, fintosommesso, e gran nemico della retorica, Fabrizi fu l'uomo giusto al momento giusto, la più plausibile incarnazione di quell'antieroe che il pubblico italiano attendeva.

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Come tale si impose anche all'estero, vedi il peana di James Agee (il fondatore della critica cinematografica americana moderna) su Vivere in pace, o l'entusiasmo del grande regista tedesco Wilhelm Pabst. Più ambizioso dei suoi colleghi Totò, Macario e simili, tuttavia, Fabrizi continuò l'avventura cinematografica cercando la qualità, frequentando registi come Blasetti (Prima comunione), Castellani [Mio figlio professore), lo stesso Rossellini (Francesco giullare di Dio), ovvero tentando egli stesso la regia, come nel fallito ma, almeno nelle intenzioni, tutt'altro che banale Emigranti. Col passare degli anni, e la cosa non sorprende, un fisico pesantemente caratterizzato come il suo avrebbe faticato a continuare a imporsi come protagonista, mentre la naturale accidia ne sconsigliava il proprietario da un ritorno stabile alle assi del palcoscenico.

Ma il passaggio a parti di minor spicco, e soprattutto a una comicità più elementare, non fu un cattivo affare per il pubblico, che si vide regalare molte perle, anticipate dal meraviglioso Guardie e ladri di Steno e Monicelli (1951), dove Fabrizi si dimostrò perfettamente in grado di reggere il confronto con il fenomeno Totò. Un modo degno di commemorare Fabrizi è anche quello di cercarne le brevi apparizioni in tante pellicole per altri versi da dimenticare, che oggi compaiono confusamente in televisione; anche un filmetto senza alcuna pretesa come Ibfò, Fabrizi e i giovani d'oggi (1960), per esempio, con i due vecchi volponi consuoceri loro malgrado, contiene momenti di pura delizia.

Col tempo Fabrizi tirò i remi in barca quasi del tutto, dedicandosi alla prediletta pastasciutta e ai suoi cento sughi, ma ogni tanto si lasciò convincere a ritirare fuori le unghie. Per la sua ultima memorabile apparizione sulle scene siamo debitori a Garinei e Giovannini, autori di Rugantino, dove Fabrizi fu il boia mastro Titta, definitiva incarnazione di capitolino cinismo mascherato da saggezza popolare. E a Ettore Scola si deve la sua ultima partecipazione cinematografica, nei non meno indimenticabili panni del truce palazzinaro venuto dal niente di C'eravamo tanto amati: tipico esponente di quell'orribile Italia per la quale i don Morosini si erano sacrificati, ma per la quale, almeno finché sarà capace di produrre occhi spassionati in cui specchiarsi, si potrà dire che rimane ancora qualche speranza.

Masolino d'Amico, «La Stampa», 3 aprile 1990


Quando nel '42 apparve per la prima volta sugli schermi in Avanti c'è posto di Mario Bonnard (ma la sceneggiatura era firmata anche dal giovane Fellini), Aldo Fabrizi era una delle più popolari attrazioni dei teatri romani: le sue macchiette, tratte dalla cronaca di tutti i giorni, venivano replicate per settimane di fronte a un pubblico entusiasta. Come aveva conquistato le platee teatrali, quel signore grasso con il cappello floscio e la marsina, conquistò le masse dei cinema.

Ad Avanti c'è posto seguirono altri successi: Campo de' Fiori e L'ultima carrozzella. Furono in molti a identificarsi nel popolano cinico e bonario, ironico e moralista che reagiva alle ansie e alle miserie, alle pene e alle speranze di tutti in quei turbolenti climi di guerra. Il «comico moderno» (così definito sui manifesti) era passato dalle scene poco nobili del varietà a un cinema «piccolo bor¬ ghese» che fece storcere il naso ai critici impegnati. La strada di Fabrizi non si incrociò mai con quella degli intellettuali: anche coloro che avevano amato il surrealismo di un Petrolini, nel nuovo divo videro sempre e solo «un pezzo di realtà greggia trasportata di peso dalla vita di tutti i giorni alle luci di una ribalta».

Lo scrisse, in positivo, Silvio dAmico in un articolo del '44 che resta uno dei più vividi ritratti critici del personaggio sul palcoscenico. Se qualcuno denigrò i suoi film parlando di «talento fiacco» e «visione meschina», altri videro nei suoi personaggi ritagliati dal vero una premonizione del neorealismo. Le cronache riportano che Rossellini scelse Fabrizi per Roma città aperta perché gli serviva un nome di cassetta, ma è indubbio che con l'attore romano il regista sentì subito un'affinità elettiva. Nel recensire la sua opera prima di regìa, Emigrantes (1949), Flaiano scriveva: «Girato in Argentina resta un film romanesco. Siamo a Buenos Aires ma nelle scene del film circola l'aria di certe strade romane nei giorni di scirocco...».

Il giudizio di Flaiano è acuto, ma può essere rivoltato. E' proprio quel moralismo facile, quel bonario «volemose bene», quel cinismo sentimentale a costituire la vena sincera e autentica dell'attore. Fabrizi la trasportò negli anni del dopoguerra dai personaggi popolareschi dei primi film al rurale di Vivere in pace di Luigi Zampa, al piccolo borghese del delizioso Prima Comunione di Blasetti, al brigadiere burbero e dal grande cuore di Guardie e ladri di Steno e Monicelli e in coppia con un meraviglioso Totò. Senza dimenticare la prova drammatica e intimista di II delitto di Giovanni Episcopo, con la regìa diLattuada; o altre interpretazioni di rilievo, come il professore pirandelliano di Marsina stretta da lui stesso diretto.

La parte più cospicua della parabola cinematografica di Fabrizi durò poco più di un decennio. Poi le presenze del comico non si contano, ma si tratta, salvo eccezioni, di filmetti commerciali, che si rivelano tali sin dai titoli: Prepotenti più di prima, Un militare e mezzo, Twist, Lolite e vitelloni. Solo negli Anni 70, con C'eravamo tanto amati di Scola, Fabrizi riappare in un'opera di livello. Sicuramente l'epilogo della sua vicenda artistica lo aveva amareggiato e reso ancor più sarcastico il carattere strafottente dell'uomo. Si era trincerato dietro le sue ricette di cucina e nel suo isolamento stava serivento un'autobiografia commissionatagli da Mondadori, Storie di Campo de' Fiori, nella quale intendeva raccogliere i ricordi di un'infanzia povera mai rinnegata, nel bene e nel male, lungo i tanti decenni di una grande carriera.

Alessandra Levantesi, «La Stampa», 3 aprile 1990


Si sentiva sottovalutato dalla Rai, che oggi lo ricorda con «Avanti c'è posto»

Per commemorare la scomparsa di Aldo Fabrizi oggi alle 15,20 Raidue trasmetterà iffilm «Avanti c'è posto» diretto da Mario Bonnard. Cirato nel 1942, segnò il debutto cinematografico dell'attore che immediatamente fece presa sul grande pubblico con la sua arguzia e la sua «maschera» così particolare: la voce roca, strascicata e nasale, i capelli arruffati, due grandi borse sotto gli occhi strabuzzati e un po' acquosi, da soli erano più eloquenti di mille parole.

Ancora in cinema fu poi l'eroico Don Pietro di «Roma città aperta», in teatro il bonario boia i mastro Titta del «Rugantino», nella vita fu un romano verace, vecchio stile, tanto amante della cucina da mettere in versi le sue ricette e da non aver pietà per il suo corpo, divenuto con gli anni sempre più ingombrante per le continue intemperanze gastronomiche. Ma la bonomia espressa dai suoi personaggi non deve trarre in inganno: era di carattere battagliero, con punte di insofferenza e reagiva gagliardamente alle ingiustizie. Alcuni anni fa, ad esempio, si lagnò con la Rai, e fece anche un ricorso in pretura, per essere sta- to completamente ignorato nella presentazione di una rassegna dei film più significativi degli ultimi 40 anni. Tra l'attore e l'azienda i rapporti erano però già cattivi a causa di una «Fabrizi story» radiofonica programmata in ogni dettaglio e poi misteriosamente annullata.

Si lamentava spesso e dice che avrebbe potuto scrivere un libro sulle fregature subite. Nato a Roma nel 1905 da una famiglia modesta, rimase presto orfano e si arrangiò in mille mestieri. «Mi manca giusto di fare il palombaro e il pizzardone — raccontava — mi sono alzato a tutte . ti le ore del giorno e della notte, ho fatto ogni turno possibile, ho mangiato tutte le sbobbe a tutte le mense. Sono stato anche guardiano notturno, meccanico, decoratore, disoccupato e balia». Tutte queste esperienze saranno preziose per la carriera di attore nel varietà, agli inizi degli Anni Trenta e più tardi nel cinema come attore. Aldilà delle celebrazioni più o meno ufficiali (i funerali si svolgeranno domani in San Lorenzo a Roma), quella di Fabrizi rimane una figura importante per la sua genuinità, la sua simpatia, il suo stampo vernacolare e popolaresco.

«Stampa Sera», 3 aprile 1990


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TRIESTE — «Mi ha trovato per caso, stavo uscendo...». Quando le comunichiamo che Aldo Fabrizi è morto, Ave Ninchi non riesce a trattenere le lacrime: «Oh no! Povero. E’ morto da solo. So che stava male. Ho rimorso: avrei dovuto telefonargli in questi giorni». E ripete al telefono, come un «mea culpa», con la voce rotta dall’emozione: «Oddio, quanto mi dispiace».

«Trent'anni ho lavorato con lui — ricorda Ave Ninchi —. E’ stato un grande amico. Per tanti anni: anni gloriosi, anni poveri, anni difficili. Ma eravamo molto uniti, molto felici tutti in grande simbiosi, perchè non avevamo mai il copione, si andava via cosi, recitando come parlavamo».

Lei quando ha conosciuto Aldo Fabrizi?

«In tempo di guerra, in occasione dei primi film che cominciai a girare dopo aver lasciato l'Accademia. Era davvero un cinema d’altri tempi. Il primo film mi pare fosse 'Vivere in pace', che era un bel film, diretto nel 1946 da Luigi Zampa. E ancora oggi è un bel film. E poi abbiamo fatto tanti altri film insieme. In quegli anni si sfornavano tanti film. La gente andava al cinema. Non c’era ancora la televisione. E noi, come tutti, appena usciti dal vortice della guerra, poveri in canna, qualcuno povero ma bello, cercavamo di rifarci una vita, vivendo alla giornata. Girando un film dietro l'altro, per mettere da parte qualcosa». Com’era il vostro rapporto fuori del set?

«Eravamo grandi amici — ricorda Ave Ninchi con un fil di voce—. Lui è sempre stato una figura molto familiare al pubblico italiano. Aldo e io recitavamo insieme, eravamo una coppia (marito e moglie sul set) molto affiatata. Così affiatata, così collaudata, che tutto il mondo credeva che lui fosse mio marito. Invece non era mio marito: era il mio carissimo amico, uno straordinario compagno di lavoro».

Vi accomunava anche la passione per la buona cucina...

«Mi ricordo che lui era anche produttore del film e voleva cucinare per tutti e chiedeva a ognuno di noi: 'Che cosa vuoi tu? Preferisci questo o quello?'. E lui cucinava... e lasciava correre le ore, che lui pagava, poverino, perchè era il produttore. S'immagini che nel suo studio, dove giravamo, si era fatto installare apposta una cucina».

Come Fabrizi ricordava i suoi esordi?

«Negli anni Trenta aveva fatto tanta gavetta, tanto varietà, ci raccontava con lo stesso gusto le barzellette e le sue nuove ricette. E poi hanno scoperto le sue doti di umanità incredibile. Aldo non recitava mai, parlava sempre. Proprio parlava. Non era un attore, era una forza della natura. Ma soprattutto era un buon uomo. E mi dispiace tanto che sia morto cosi...»

Si ricorda qualche aneddoto?

«Cosa vuole, adesso non mi viene niente. So solo che ho lavorato con lui per quasi trent'anni e che ora non c'è più. Abbiamo fatto tanti film (qualche volta anche brutti), insieme, ma era l’unico modo per guadagnare. lo, per esempio, avevo una scusante: volevo rifarmi la casa che era saltata con la guerra. E il cinema, per quanto mal pagato rispetto a oggi (si faceva un film per 60 o al massimo per 100 mila lire), mi consentì di rifarmi la casa di Pesaro, una villettina che, dopo essere stata occupata dai tedeschi durante la guerra, fu da loro fatta saltare con una mina. La chiamai 'Aldina', proprio perchè avevo fatto tanti film con Aldo Fabrizi, che mi avevano consentito di mettere da parte quanto bastava per ricostruirla».

Quand’è stata l’ultima volta che l’ha visto?

«Due anni fa, che ero a Roma. Aldino — io l’ho sempre chiamato così — stava molto male. L’ultima volta gli ho telefonato meno di un mese fa e gli. ho detto: 'Adesso, quando vengo a Roma, ti vengo a prendere e andiamo a mangiare fuori insieme. E lui mi ha risposto: 'Non posso più: sono in carrozzella... Non posso più muovermi’. Sapesse come mi dispiace. L'ho visto proprio oggi in televisione in un programma sul varietà. E mi sono ricordata che avevo promesso di telefonargli. Mi dispiace, povero Aldino».

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Renzo Sanson, «Piccolo di Trieste», 3 aprile 1990





Videoclip estratti dalle serie televisive prodotte dalla RAI e curate da Giancarlo Governi; "Il Pianeta Totò", ideata e condotta da Giancarlo Governi, trasmessa in tre edizioni diverse - riviste e corrette - a partire dal 1988 e "Totò un altro pianeta" speciale in 15 puntate trasmesso nel 1993 su Rai Uno.

Filmografia

Attore

Avanti c'è posto di Mario Bonnard (anche soggetto e sceneggiatura) (1942)
Campo de' fiori di Mario Bonnard (anche soggetto e sceneggiatura) (1943)
L'ultima carrozzella di Mario Mattoli (anche soggetto e sceneggiatura) (1943)
Circo equestre Za-bum (episodi Dalla finestra e Il postino) di Mario Mattoli (1944)
Roma città aperta di Roberto Rossellini (1945)
Mio figlio professore di Renato Castellani (anche soggetto e sceneggiatura) (1946)
Il vento m'ha cantato una canzone, regia di Camillo Mastrocinque (1947)
Vivere in pace di Luigi Zampa (anche soggetto e sceneggiatura) (1947)
Il delitto di Giovanni Episcopo di Alberto Lattuada (anche sceneggiatura) (1947)
Tombolo, paradiso nero di Giorgio Ferroni (1947)
Natale al campo 119 di Pietro Francisci (anche soggetto e sceneggiatura) (1948)
Emigrantes, di Aldo Fabrizi (anche soggetto e sceneggiatura) (1948)
Antonio di Padova di Pietro Francisci (1949)
Vita da cani di Steno e Monicelli (anche soggetto e sceneggiatura) (1950)
Prima comunione di Alessandro Blasetti (1950)
Francesco, giullare di Dio di Roberto Rossellini (1950)
La famiglia Passaguai di Aldo Fabrizi (1951)
La famiglia Passaguai fa fortuna di Aldo Fabrizi (1951)
Signori, in carrozza! di Luigi Zampa (1951)
Fiorenzo il terzo uomo di Stefano Canzio (1951)
Tre passi a Nord (Three steps North) di William Lee Wilder (1951)
Cameriera bella presenza offresi... di Giorgio Pàstina (1951)
Parigi è sempre Parigi di Luciano Emmer (1951)
Guardie e ladri di Steno e Monicelli (anche sceneggiatura) (1951)
Cinque poveri in automobile di Mario Mattoli (anche soggetto e sceneggiatura) (1952)
Altri tempi (episodio Il carrettino dei libri vecchi) di Alessandro Blasetti (1952)
Papà diventa mamma di Aldo Fabrizi (anche soggetto e sceneggiatura) (1952)
William Tell (The Story of William Tell) di Jack Cardiff (1953)
Siamo tutti inquilini di Mario Mattoli (1953)
Una di quelle di Aldo Fabrizi (1953)
La voce del silenzio di Georg Wilhelm Pabst (1953)
L'età dell'amore di Lionello De Felice (1953)
Il più comico spettacolo del mondo di Mario Mattoli (non accreditato) (1953)
Cento anni d'amore (episodio Garibaldina) di Lionello De Felice (1954)
Hanno rubato un tram di Aldo Fabrizi (1954)
Questa è la vita, di Aldo Fabrizi (episodio Marsina stretta, anche soggetto e sceneggiatura) (1954)
Cose da pazzi di Georg Wilhelm Pabst (1954)
Io piaccio di Giorgio Bianchi (1955)
I due compari di Carlo Borghesio (anche soggetto e sceneggiatura) (1955)
Carosello di varietà di Aldo Quinti e Aldo Bonaldi (1955)
Accadde al penitenziario di Giorgio Bianchi (1955)
I pappagalli di Bruno Paolinelli (1955)
Un po' di cielo di Giorgio Moser (1955)
Mi permette, babbo! di Mario Bonnard (1956)
Donatella di Mario Monicelli (1956)
Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo di Mauro Bolognini (1956)
Il maestro (El maestro), di Aldo Fabrizi (anche soggetto e sceneggiatura) (1957)
Festa di maggio (Premier mai) di Luis Saslavsky (1958)
I prepotenti di Mario Amendola (anche soggetto) (1958)
Prepotenti più di prima di Mario Mattoli (anche soggetto e sceneggiatura) (1959)
I tartassati di Steno (anche soggetto e sceneggiatura) (1959)
Ferdinando I, re di Napoli di Gianni Franciolini (1959)
Un militare e mezzo di Steno (anche soggetto e sceneggiatura) (1960)
La sposa bella (The angel wore red) di Nunnally Johnson (1960)
Totò, Fabrizi e i giovani d'oggi di Mario Mattoli (1960)
Gerarchi si muore di Giorgio Simonelli (1961)
Fra' Manisco cerca guai di Armando William Tamburella (1961)
Le meraviglie di Aladino di Mario Bava (1961)
Twist, lolite e vitelloni di Marino Girolami (1962)
I quattro monaci di Carlo Ludovico Bragaglia (1962)
Gli italiani e le donne (episodio Chi la fa, l'aspetti) di Marino Girolami (1962)
I quattro tassisti (episodio L'uomo in bleu) di Giorgio Bianchi (1963)
I quattro moschettieri di Carlo Ludovico Bragaglia (1963)
Il giorno più corto di Sergio Corbucci (1963)
Das Feuerschiff di Ladislao Vajda (1963)
Totò contro i 4 di Steno (1963)
Made in Italy di Nanni Loy (1965)
Sette monaci d'oro di Marino Girolami (1966)
Tre morsi nella mela (Three bites of the apple) di Alvin Ganzer (1967)
Cose di Cosa Nostra di Steno (anche soggetto e sceneggiatura) (1971)
La Tosca di Luigi Magni (1973)
C'eravamo tanto amati di Ettore Scola (1974)
I baroni di Giampaolo Lomi (1975)
Il ginecologo della mutua di Joe D'Amato (1977)
Nerone di Castellacci e Pingitore (1977)
Giovanni Senzapensieri di Marco Colli (1986)

Regista e attore 

Emigrantes (anche soggetto e sceneggiatura) (1948)
Benvenuto, reverendo! (anche produzione, soggetto e sceneggiatura) (1950)
La famiglia Passaguai (anche produzione, soggetto e sceneggiatura) (1951)
La famiglia Passaguai fa fortuna (anche produzione, soggetto e sceneggiatura) (1951)
Papà diventa mamma (anche produzione, soggetto e sceneggiatura) (1952)
Una di quelle (anche produzione, soggetto e sceneggiatura) (1953)
Questa è la vita (episodio Marsina stretta, anche soggetto e sceneggiatura) (1954)
Hanno rubato un tram (anche soggetto e sceneggiatura) (1954)
Il maestro (El maestro), di Aldo Fabrizi (anche soggetto e sceneggiatura) (1957)

Opere

Lucciche ar sole : poesie romanesche. Roma, Società poligrafica romana, 1928.
Volemose bene : Hai fatto un affare : 1 atto. Mario Mattoli e Marcello Marchesi (coautori). Roma, Ed. Ariminum, 1944.
La pastasciutta : ricette nuove e considerazioni in versi. Milano, Mondadori, 1971.
Nonna minestra : ricette e considerazioni in versi. Milano, Mondadori, 1974.
Nonno pane : ricette e considerazioni in versi. Milano, Mondadori, 1980.
Monologhi e macchiette. Maria Cielo Pessione (a cura di). Roma, Theoria, 1994. ISBN 88-241-0392-8.
Ciavéte fatto caso?. Marco Giusti (a cura di). Con videocassetta. Milano, Mondadori, 2002. ISBN 88-04-49221-X.

 

Note

1^ Si veda Ettore Veo, Saluto ad Aldo Fabrizi, nella Strenna dei Romanisti del 1948.
2^ Lo stesso Pascarella, ad esempio, aveva dato letture pubbliche della sua Scoperta dell'America. Anche un altro celebre attore romano Checco Durante, fino ad epoca recente, leggeva le sue poesie, negli intervalli delle rappresentazioni teatrali.
3^ Lungo soprabito di tela leggera indossato per lavoro.
4^ Quirinale. 1-09-2010

Bibliografia

Camillo Moscati. Aldo Fabrizi : l'ultimo re di Roma. Genova, Lo Vecchio, 1992.
AA. VV. La famiglia Passaguai - Una trilogia di Aldo Fabrizi. Fondazione Aldo Fabrizi, 1999.
Massimo Fabrizi. Aldo Fabrizi, mio padre. Roma, Gremese, 2006. ISBN 88-8440-411-8.


Riferimenti e bibliografie:

  • Treccani - Totò visto da Aldo Fabrizi - Aldo Fabrizi e la radio
  • Alberto Sordi in "Follie del Varietà" (Stefano De Matteis, Martina Lombardi, Marilea Somarè), Feltrinelli, Milano, 1980
  • Alberto Moravia, «L'Europeo», anno VI, n.42, 15 ottobre 1950
  • Alberto Moravia, «L'Europeo», anno VII, n.48, 25 novembre 1951
  • Gian Gaspare Napolitano, «L'Europeo», anno VII, n.50, 12 dicembre 1951
  • "Follie del Varietà" (Stefano De Matteis, Martina Lombardi, Marilea Somarè), Feltrinelli, Milano, 1980