Lattuada Alberto
(Vaprio d'Adda, 14 novembre 1914 – Orvieto, 3 luglio 2005) è stato un regista, sceneggiatore, attore e produttore cinematografico italiano. Intellettuale dalla personalità eclettica, appassionato di letteratura, arte e fotografia, era noto soprattutto per aver trasposto sullo schermo molti celebri romanzi e alcuni colossal anche per il piccolo schermo. Nella sua lunga carriera ha scoperto e lanciato molte attrici come Marina Berti, Carla Del Poggio (divenuta poi sua moglie), Valeria Moriconi, Jacqueline Sassard, Catherine Spaak, Dalila Di Lazzaro, Teresa Ann Savoy, Nastassja Kinski, Clio Goldsmith, Barbara De Rossi e Sophie Duez.
Figlio del compositore Felice Lattuada, crebbe fra la campagna lombarda e Milano. Durante gli studi liceali, nel dicembre 1932 fondò insieme ad Alberto Mondadori il periodico quindicinale Camminare... in cui svolse mansioni di critico d'arte, mentre Mario Monicelli si occupava di critica cinematografica. L'anno seguente ebbe la sua prima esperienza al cinema come scenografo del cortometraggio Cuore rivelatore, tratto da un racconto di Poe e diretto da un diciottenne Mario Monicelli. Insieme a Mario Baffico nel biennio 1935-1936, collaborò a Il museo dell'amore come consulente per il colore (si trattava del primo mediometraggio italiano girato interamente a colori) e come assistente alla regia al lungometraggio La danza delle lancette. Entrato in contatto con Gianni Comencini (fratello del regista Luigi) e Mario Ferrari, si mise alla ricerca sistematica di vecchie pellicole, salvandole dal macero presso i magazzini dei distributori e ponendo le basi della futura Cineteca Italiana di Milano.
Durante gli anni universitari si iscrisse ai GUF partecipando ai Littoriali. In questo modo riuscì ad organizzare delle proiezioni retrospettive, giacché solo le sezioni cinematografiche dei GUF erano autorizzate a svolgere queste attività. Dopo la laurea in architettura, a partire dal 1938 iniziò a collaborare a diverse riviste: su Tempo illustrato scriveva come critico cinematografico, su Domus scriveva di architettura e arredamento; su Frontespizio pubblicò alcuni suoi racconti letterari. Nel 1940, nel difficile clima bellico riuscì ad allestire una retrospettiva di film francesi per la Triennale di Milano; il tumulto che seguì alla proiezione de La grande illusione provocò la sospensione delle proiezioni e il gruppo organizzatore dovette mettere in salvo le pellicole nascondendole alle ricerche della polizia fascista.
Nel 1941 organizzò anche una sua mostra e un libro di fotografie, Occhio Quadrato, ma passò subito al cinema a tempo pieno come aiuto regista per Mario Soldati (Piccolo mondo antico) e come sceneggiatore per Ferdinando Maria Poggioli (Sissignora). Tra il 1942 e il 1943 diresse i suoi primi due film, volutamente tratti da opere letterarie (il primo da Giacomo l'idealista di Emilio De Marchi e il secondo da La freccia nel fianco di Luciano Zuccoli) e non da soggetti originali per evitare le maglie della censura; definiti dalla critica «esercizi di stile formali e calligrafici», in realtà contenevano già quasi tutti gli elementi stilistici del suo cinema futuro. Equilibrio interno dell'inquadratura, uso sapiente delle luci e messa in risalto dei dettagli, calibrati movimenti di macchina e controllati stacchi di montaggio, saranno le cifre alle quali Lattuada rimarrà fedele.
Giacomo l'idealista segna l'esordio di Marina Berti, la prima di una serie di figure femminili alle quali Lattuada affida il compito di tracciare una psicologia, una cultura, un clima sociale o un'atmosfera. La freccia nel fianco, uno dei primi film italiani a esplorare (sia pure con tutte le prudenze di sorta) il mondo della sessualità infantile, ebbe anche una gestazione piuttosto travagliata; abbandonato dal regista dopo l'8 settembre 1943, venne ripreso e completato da Mario Costa, che tuttavia non risulta accreditato nei titoli.
Nell'immediato dopoguerra Lattuada si avvicinò al neorealismo con Il bandito, girato in una Torino devastata dai bombardamenti e dove sbandiera apertamente il suo amore per il cinema americano, e in particolare quello della gangster-story sullo stile di Scarface; su quel set debuttano in una parte drammatica la moglie Carla Del Poggio, da lui sposata il 2 aprile 1945 (da lei avrà due figli, Francesco, futuro direttore di produzione di fiction televisive, e Alessandro) e la sorella Bianca Lattuada come segretaria di edizione. Il film successivo, Il delitto di Giovanni Episcopo, tratto da D'Annunzio, si allontana da qualsiasi filone o corrente per iniziare a seguire la sua poetica base (l'individuo senza scrupoli in contrapposizione con una società inerte e indifferente a tutto) con maniacale puntiglio, organizzando alla perfezione scenografia e recitazione; in questo film si segnala in particolare quella di Aldo Fabrizi. Nel 1948, traendo suggestioni anche dal cinema francese, realizzò nella Pineta del Tombolo insieme a Tullio Pinelli e Federico Fellini, il celebre Senza pietà, descrizione di un paese in rovina dove, con gli aiuti americani, sbarcano violenza, contrabbando e malavita.
Del 1949 è Il mulino del Po, tratto dal romanzo più famoso di Riccardo Bacchelli (che collaborò anche alla sceneggiatura). Curò la regia di Didone ed Enea di Henry Purcell al Teatro dell'Opera di Roma e insieme a Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Carlo Lizzani ed Elsa Morante, cominciò a progettare una serie di pellicole su temi scottanti come l'emigrazione, la speculazione edilizia, il sistema carcerario. Le pressioni della casa di produzione, che sceglierà poi di realizzare un film sul concorso di bellezza di Miss Italia e sul mondo dei fotoromanzi, lo spinsero a fondare una cooperativa insieme alla moglie, a Fellini e alla Masina, e a realizzare in totale autonomia Luci del varietà spaccato sul rutilante mondo dell'avanspettacolo, al quale collaborarono anche il padre e la sorella. Il film però si rivelò un disastro finanziario.
Con il film successivo, Anna, Lattuada realizzò il suo più grande successo, grazie a protagonisti del livello di Silvana Mangano, Raf Vallone e Vittorio Gassman, e grazie a una canzone, El Negro Zumbon (ricavata da un vecchio standard ballabile cubano) che diventò un successo discografico mondiale. Riprendendo qualche tematica già presente in Riso amaro di Giuseppe De Santis, fornì più di uno spunto al successivo Mambo di Robert Rossen. Fu la prima pellicola italiana ad incassare oltre un miliardo di lire nelle prime visioni, e la prima ad essere presentata doppiata in inglese negli Stati Uniti. Il successo gli consentì di realizzare nel 1952 una delle sue opere più importanti, Il cappotto, dal racconto di Gogol, girato a Pavia, con protagonista Renato Rascel, uno dei primi film a svincolarsi definitivamente dal neorealismo, dove realtà e fantasia coesistono alla perfezione.
Nella pellicola La lupa tratto dal celebre racconto di Giovanni Verga, Lattuada continuò il viaggio d'osservazione del corpo e della sessualità femminile che lo accompagnerà, tranne qualche eccezione, in tutta la sua filmografia. Nei film di Lattuada la forza della figura femminile rende per la prima volta esplicito l'aspetto della sottomissione dell'uomo, il quale di contro tende sempre al raggiungimento di un suo fine senza avere scrupoli morali: la proprietà, il denaro, il delitto e la vendetta. Con l'episodio Gli italiani si voltano, inserito in L'amore in città, Lattuada si fermò ad esaminare con la tecnica della candid camera il fenomeno del gallismo maschile; La spiaggia è antesignana della commedia di costume, critica feroce dell'ipocrisia borghese; Scuola elementare si basava sui desideri (economici e di donne) di un maestro e di un bidello (Billi e Riva), ma era anche una sorta di omaggio alla figura del padre, che era stato maestro elementare.
Nel dittico Guendalina e Dolci inganni il regista seguiva la trasformazione sentimentale e sessuale di due adolescenti, interpretate rispettivamente da Jacqueline Sassard e Catherine Spaak. Ad esse si contrappongono i kolossal La tempesta e La steppa tratti dai prediletti autori russi, Puškin e Čechov. Gli anni sessanta furono caratterizzati da trasposizioni di opere letterarie di Guido Piovene (Lettere di una novizia), Niccolò Machiavelli (La mandragola) e Vitaliano Brancati (Don Giovanni in Sicilia), fino a giungere a Venga a prendere il caffè da noi, tratto dal romanzo La spartizione di Piero Chiara, satira di una certa borghesia provinciale ipocrita e sessuofobica, interpretato da Ugo Tognazzi.
Nel 1970 Lattuada ebbe la sua seconda esperienza come regista lirico inaugurando il Maggio Musicale Fiorentino con La Vestale di Gaspare Spontini e fu inoltre membro della giuria del Festival internazionale del cinema di Berlino. Dopo due pellicole frutto di evidenti compromessi, Bianco, rosso e... con Sophia Loren, quasi un remake di Anna e Sono stato io!, dove Giancarlo Giannini, un anonimo lavavetri, immagina un gesto clamoroso che lo porti sulle prime pagine dei quotidiani, Lattuada dal 1974 volle trattare la tematica dell'erotismo, a partire da Le farò da padre e proseguendo con Oh, Serafina! da un romanzo di Giuseppe Berto, Così come sei sul tema dell'incesto, fino agli ultimi suoi due film per il grande schermo, considerati artisticamente due fallimenti, La cicala e il tardo Una spina nel cuore, nuovamente tratto da Piero Chiara.
Nel 1981 iniziò a dirigere Nudo di donna, che dovette abbandonare quasi subito a causa di dissapori con l'attore protagonista, Nino Manfredi, che finì pertanto per dirigere sé stesso. Durante gli anni ottanta Lattuada firmò tre lavori per il piccolo schermo: il colossal di successo Cristoforo Colombo, l'intensa miniserie Due fratelli e il mediometraggio Mano rubata, tratto da un racconto di Tommaso Landolfi, che esplora il mondo spietato del gioco d'azzardo. Nel 1994 fece una simpatica apparizione nel film Il toro diretto da Carlo Mazzacurati, e quattro anni dopo donò tutto il suo materiale d'archivio alla Fondazione Cineteca Italiana di Milano, diretta all'epoca da Gianni Comencini. Morì a novant'anni nella sua casa di campagna a Orvieto (Terni), affetto da tempo dalla malattia di Alzheimer.
La scelta di un attore per un certo ruolo è un'intuizione, non è una cosa ragionata. Non so più da quanto tempo vedevo Totò nel fratocchio della Mandragola, in questo frate in cui, a dispetto della sua condizione di religioso, agisce la corruzione del danaro, una specie di sottofondo insondabile, di febbre segreta. La mimica di Totò mi sembrava straordinariamente adatta a esprimere la complessità di un personaggio, che avrebbe potuto insieme costituire una singolare prova della sua maturità d'attore e una sorpresa per il pubblico. Lo conoscevo da prima, ma l'incontro vero è stato quando abbiamo lavorato insieme per la Mandragola.
I miei rapporti con Totò attore sono stati straordinari, bastavano poche indicazioni perché con la sua mimica rendesse immediatamente il personaggio e i toni delle battute, tanto che in certi punti non ho voluto rinunciare alla sua recitazione in diretta benché avessi una arriflex. Quindi ho ritagliato tutte le battute sporcando poi il fondo sonoro con un'altra manipolazione in modo da salvare la presa diretta perché in presa diretta aveva delle piccolissime invenzioni, delle minime inflessioni di voce che erano poi irripetibili. Nel doppiaggio aveva qualche difficoltà a seguire il film sullo schermo, non ci vedeva, sentiva la colonna in cuffia, ma era difficile arrivare a un sincrono perfetto e quindi qualche cosa ho salvato della presa diretta, benché fosse un po' disturbata. Quando fanno il patto di corrompere madonna Lucrezia, sono vicini a un pozzo e allora questo rimbombo del pozzo che restituisce la voce un po' amplificata mi è servito anche per mescolare le cose e nascondere i difetti. Altri punti invece li ho doppiati con lui cercando il sincrono con un po' di pazienza. Il lavoro sul set è stato molto piacevole, molto creativo e dolcissimo.
Mi ricordo l'accellerata che abbiamo dovuto fare una notte per fuggire dal convento dove ci aveva scoperto l'arcivescovo di Urbino e ci aveva intimato di andarcene, dicendo: « Vede, il priore è un poveretto, un simpatico francescano che non sa niente, lui non sa cos'è la "Mandragola", non sa niente di Machiavelli, dovete lasciare il convento subito ». Io ho detto: « Ma abbiamo tante lampade da trasportare ». « Eh, fate, fate, fate, portate via tutto. Guardi che io la conosco bene, eh, perché io sono milanese ». « Sì, alor parlem milanes ». « Eh, lu el pari milanes par restà lì a girar la :'Mandragola", ma mi ghe disi de andar fora subit ». Dico: «Va beh, ho capito Eminenza, bisogna andare via, ma insomma tecnicamente non è facile ». « Sì, sì, ma non importa, non importa. Dovete andare via subito, ecco. Qui c'è il priore e lui vi insegnerà la strada per uscire ». Siamo ritornati al convento, erano le cinque e mezzo di sera, mancavano molte scene da fare, e allora ho detto: « Dobbiamo girare tutto prima di uscire di qui ». Il priore si è chiuso nella sua cella con un bicchiere di vino e ha fatto finta di non esserci più, di essere scomparso e noi abbiamo girato la scena forse più pericolosa quando fra' Timoteo prende la Bibbia e dice anche la Bibbia quando Lot era rimasto nel disastro solo e doveva procreare, perpetuare le specie, e così via.
La scena è stata girata accellerando le operazioni di trucco e ritruccando di notte la Schiaffino che alle quattro era disfatta perché erano venti ore che lavorava. A Totò davamo un caffè dopo l'altro. Finalmente all'alba avevamo finito e siamo usciti. Totò aveva capito le nostre necessità, e continuava a dire: « Avanti, avanti, finiamo tutto ». Certo, era anziano, ma aveva questi sette spiriti napoletani che gli si agitavano dentro, era straordinario. Un'altra scena molto bella che abbiamo girato e che ho montato (della quale però non è rimasto niente perché vedendo e rivedendo il film al montaggio Bini mi ha convinto che la scena in sé era molto bella, ma che nel ritmo generale avrebbe costituito una specie di fermata nell'imminenza del finale) era una scena che avevo inventato, non c'è nel testo di Machiavelli.
Avevo pensato di far affiorare un certo turbamento, una presa di coscienza in questo fratocchio corrotto dall'oro; lo facevo andare in una cripta dove c'erano tutti i frati morti, delle specie di mummie, l'avevo scoperta in una chiesetta non lontana da Urbino. Siamo scesi in questa cripta, e Totò salutando i fratelli, accendeva una candela dopo l'altra come in una specie di atto votivo e continuava ad aumentare la luce balbettando: «Fratelli, io lo so che forse, insomma, ho fatto qualche cosa, ma a fin di bene, a fin di bene l'ho fatto». E poi passava davanti a queste mummie mangiate dal tempo, dai topi, e diceva: «Fratelli addio, anzi arrivederci presto ». Si trattava di una sorta di monologo con la morte, di una confessione a chi non poteva parlare, una confessione a persone inesistenti, ma nello stesso tempo uno scarico di coscienza sempre in chiave di ipocrisia. Totò la fece benissimo, anche se per la sua superstizione all'inizio era molto riluttante, mi chiedeva: «Ma, Lattuada, è proprio necessario che io la faccia? ». Anche questa scena è stata rubata, perché anche lì è sopraggiunto l'arciprete dicendo: «Fuori! Fuori dai miei frati, fuori! Voi fate la "Mandragola", l'ho saputo dalla curia ». Mi sono ribellato e ho detto: «No, non andiamo fuori abbiamo avuto il permesso del prete». «Il prete non sa niente, io sono l'arciprete ». insomma, una lotta.
Mentre queste piccole scaramucce avvenivano tra il direttore di produzione e gli altri personaggi (perché io mandavo continuamente avanti nuovi personaggi, beh allora parli con l'ispettore, parli con il direttore, sostituivo continuamente gli interlocutori) intanto ho girato la scena incalzato dalla fretta. E' riuscita molto bene, stranamente, quando si fanno certe cose in queste condizioni, c'è una febbre che fa indovinare quasi tutto il meglio che si può fare, perché forse cincischiare a lungo su certe scene non è di grande aiuto. Stando magari tre giorni a perfezionare una scena, si perde una certa freschezza, una certa violenza anche di intuizioni, quando invece si è in queste condizioni il cervello lavora il doppio e fa vedere le cose rapidamente, fa venir fuori subito il nocciolo della scena. Questo colloquio del frate con i suoi interlocutori muti non è entrato nel montaggio, l'avevo dato non so a chi, forse a una cineteca, e poi l'ho perso di vista. Avrei sempre avuto voglia di impegnare Totò in una cosa importante, ma averlo come protagonista di un film non era facile, bisognava convincerlo, e poi al momento di concludere te lo sottraevano con delle proposte facili, immediate, da realizzare alla svelta, uno dei tanti film in cui riusciva a infilare degli inserti eccezionali che restavano sempre un po' a parte. Subito dopo La mandragola gli proposi una novella di Pirandello, «La cattura », gli piaceva molto, mi diceva: «E' bellissima, è bellissima, la voglio fare », ma intanto mentre io uscivo entrava un altro che diceva: «Ecco qua dieci milioni di anticipo, dobbiamo farlo subito, dobbiamo girare subito, subito », e se lo rubava, lo sottraeva ai progetti più ambiziosi, che spesso si estenuavano in trattative troppo lunghe. Peccato.
C'eravamo trovati così bene che era nata l'idea di fare un'altra cosa insieme. Totò aveva molto apprezzato il tatto con cui avevo cercato di superare le difficoltà che gli venivano dalle condizioni disastrose dei suoi occhi, gli avevo preparato dei percorsi in cui toccando determinati punti sapeva dove mettere i piedi, dove scendere, dove appoggiarsi. Piccoli accorgimenti, trucchetti, percorsi tattili, cose da niente, ma sufficienti per metterlo a suo agio, perché non si sentisse menomato, e potesse lavorare con una certa tranquillità. Me ne fu sempre molto grato, facendone un altro motivo della straordinaria amicizia che ci legò nel periodo breve, ma intenso e piacevolissimo, della nostra collaborazione.
Alberto Lattuada ("Totò, l'uomo e la maschera" (Franca Faldini - Goffredo Fori) - Feltrinelli, 1977
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Il regista del "Bandito" con la moglie, la sorella e il padre, ha fondato una cooperativa cui si sono associati lo sceneggiatore Fellini e gli attori Lulli, Masina e Kitzmiller. E' il primo esperimento del genere in Italia
Da qualche tempo i migliori registi italiani vanno studiando la possibilità di produrre direttamente i loro film. Sono stati spinti a ciò dall'esempio di molti produttori la cui attivitià si risolve nel far da tramite fra capitale e lavoro, fra capitale e soggettisti, sceneggiatori, regista, operatore, attori, musicista. In altri termini questi «mediatori» producono senza capitali propri raccogliendo la somma necessaria alla realizzazione di un film attraverso il finanziamento concesso da uno o più capitalisti e gli anticipi accordati dalle società di noleggio. Questo sistema, assai diffuso anche all'estero, è basato sulla fiducia ispirata dal produttore, sulla sua capacità di preparare e fare film di successo grazie ad un'abile scelta di buoni soggetti e di buoni realizzatori. Perchè, si son chiesti alcuni registi, questa fiducia non potrebbe essere ispirata da noi che siamo i veri artefici della riuscita di un film e che abbiamo dimostrato con le nostre opere di poter meritarla?
L'idea era un po' l’uovo di Colombo: bisognava avere il coraggio di metterla in pratica. Tale coraggio non se l'era no finora permesso che Rossellini e De Sica, due registi i quali, favoriti da un grande prestigio internazionale, hanno avuto offerte e concessioni di ogni genere; ma con un po’ di iniziativa e di buona volontà avrebbero potuto permetterselo anche altri affermatisi solidamente all’estero da molto tempo. Fra questi uno dei più autorizzati a compiere il tentativo era Alberto Lattuada il quale dal «Bandito» in poi ha ottenuto grandi successi di critica e di pubblico in Europa e in America. Egli si trovava in condizioni particolarmente favorevoli perchè riuniva in famiglia quattro elementi fondamentali alla realizzazione di un film: lui stesso come sceneggiatore e regista, sua moglie Carla del Poggio come interprete, sua sorella Bianca come direttrice di produzione suo padre Felice come musicista.
I Lattuada si misero facilmente d'accordo e, per completare il gruppo, Alberto chiamò Federico Fellini, uno dei nostri migliori sceneggiatori col quale è legato da un'affettuosa consuetudine di collaborazione, e tre attori che aveva lanciati in «Senza pietà»: Giulia Masina, moglie di Fellini, Folco Lulli e John Kitzmiller. Ciascuno si impegnò a versare la retribuzione del proprio lavoro come quota sociale avendo in compenso una proporzionale caratura nella proprietà e nello sfruttamento della pellicola. Non fu difficile, poi, trovare nella Capitotium Film chi fosse disposto ad associarsi alla produzione per coprire il costo delle rimanenti voci. La Capitolium portò anche un altro attore di primo piano, Peppino de Filippo, e l’operatore Otello Martelli. La «troupe» era al completo.
L'esperimento è interessante e non mancherà di avete molti imitatori modificando profondamente l'organizzazione della nostra cinematografia la quale, come ognun sa, ha un carattere prevalentemente artigiano assai favorevole a iniziative del genere. Il film che la cooperativa capeggiata da Lattuada (il primo esperimento del genere tentato in Italia) comincerà a girare in maggio, si intitola «Le luci del varietà» e, ispirandosi al «Capitan Fracassa» di Gautier, descrive la vita e le avventure di un gruppo di attori che cominciano o finiscono la carriera nell'avanspettacolo trascinando nei piccoli teatri di provincia le loro speranze, le loro amerezze, le loro ambizioni, le loro fisime. Ma non sarà un film rivista: sarà piuttosto un film d'ambiente pieno di patetico grottesco e di ironico umorismo.
Come i romanzi picareschi, «Le luci del varietà» non si basa su una vera e propria vicenda, ma segue l'avventuroso girovagare di una compagnia da caffè-concerto formatasi per compiere una «tournée» intorno a Roma. Fra i componenti del gruppo c'è un fantasista (Peppino de Filippo), veterano del mestiere, la cui spropositata vanità gli fa vantare successi immaginarii e prendere atteggiamenti donchisciotteschi: una ballerinetta alle prime armi (Carla del Poggio), cordiale e affettuosa nella vita quanto è feroce e intrattabile nelle faccende del mestiere, la quale non esita a respingere il fantasista per seguire un ricco protettore che la lancerà nella grande rivista; una canterina piena di timidezze e di pudori (Giulia Masina) che finisce per seguire la sua vocazione di piccola borghese sposando un dongiovanni provinciale (Folco Lulli) sognante travolgenti avventure con le attrici; un suonatore di tromba (John Kitzmiller) il quale è rimasto in Italia dopo la smobilitazione' dell'esercito americano per vegliare sullo spirito inquieto del fratello morto in guerra e altri tipici personaggi secondari.
La storia e il carattere di ciascun personaggio si riflette e prende luce nella storia di tutti e nel carattere degli ambienti in cui passano grazie ad un seguito di significativi episodi, ora comici ed ora drammatici. Lattuada, che per essere arrivato al cinematografo dall'architettura, è al tempo stesso un razionale e un artista, un uomo di metodo e di fantasia, cercherà di andare oltre alle pittoresche apparenze di un mondo che i romantici ci hanno descritto anche troppo: ciò che lo interessa è la verità spirituale che si nasconde in ogni aspetto, in ogni movimento, in ogni evento, ed è questa verità che si propone di cogliere sotto la nobile miseria dei guitti.
Per meglio riuscirvi ha studiato attentamente la psicologia degli attori sia valendosi delle sue esperienze di regista cinematografico e teatrale, sia frequentando assiduamente i palcoscenici di varietà. Con la stessa sistematica passione sta preparandosi al film che dovrà dirigere alla fine dell'estate per conto di una società italo-argentina: «Ragazza alla Bo-ca» dal romanzo di Manuel Galvez. Ne sara protagonista Carla del Poggio, che nel Sud America è popolare quanto Anna Magnani, e verrà girato in uno dei piu popolari quartieri di Buenos Aires. In seguito realizzerà il secondo film della sua cooperativa: «Casa Monaco», un soggetto di Laurani e Giannotti che narra una drammatica storia d'amore in una famiglia di operai milanesi. Nello stesso periodo Carla del Poggio interpreterà altri due film: un western calabrese diretto da un regista esordiente e un giallo-sentimentale diretto da Cottafavi.
Ermanno Contini, «La Settimana Incom Illustrata», 18 marzo 1950
«L'ASSENZA dell’amore ha generato molte calamità che si sarebbero potute evitare. Invece che la pioggia d’oro dell'amore, è scesa stigli uomini la cappa nera dell’indifferenza. Ed ecco che gli uomini hanno perduto "gli occhi dell'amore" e non sanno più distinguere alcuna cosa, brancolano in una oscurità di morte. Di qui è cominciato lo scadimento graduale di tutti i valori, di qui è cominciata la distruzione della coscienza, isterilita fin nella radice: è una lunga catena che va ad ancorarsi ai pie di del diavolo. Quanto grandi siano in questa faccenda le colpe degli spiriti eletti, degli artisti, dei sacerdoti della poesia, è difficile dire. Assenze, fughe, ritorni, polemiche, confusioni d’ogni specie hanno ridotto l’orticello delle Muse un mucchio di sterpi e di sabbia arida pressoché impraticabile.
I migliori si sono chiusi in casa a coltivare fiori di serra, fiori rarissimi senza profumo Invece io credo che sia proprio questo il necessario momento di tornare ad esporsi in posizioni indifese, di abbandonare, sia pure per breve tempo, il lavoro della spietata analisi e delle troppo pedantesche ricerche di stile, di rompere u guscio che fa da custodia a un preteso determinato modernismo e rinnovare il flusso d'amore che muove gli uomini verso l’unità. Occorre rifarsi alle grandi virtù, non avere paura» dell’eloquenza, essere romantici al modo di Leopardi e di Manzoni. L’ uomo aspetta che gli si ridia la ricchezza tolta, il calore dei sentimenti e degli affetti, la solidarietà cristiana». Sono questi i punti sostanziali della prefazione ad Occhio Quadrato, atlante fotografico che Alberto Lattuada pubblica nel 1941 per le edizioni «Corrente» e che, tradotte in altro linguaggio, più comprensibile e immediato, rileggiamo nel 1945 sulle pagine del Mondo fiorentino:» E' necessario trivellare il nostro suolo, sprofondare fino alle radici della nostra terra, cercare nel fondo delle nostre memorie poetiche, dei sentimenti più segreti. Altrimenti nasceranno dei frutti stentati o falsi, buoni forse a sorprendere una parte del nostro pubblico cittadino, ammalato cronicamente di esterofilia e in ritardo, come sempre, di trent'anni sulle mode artistiche, ma non buoni a convincere lo spettatore del mondo. Giacché si spierà ormai di parlare a tutti gli uomini, per lo meno a tutti gli europei. Ché se cosi non fosse, se dovessimo ridurci a una cultura paesana, sarà meglio farci kara kiri».
Sopra: i registi e le interpreti principali di "Luci del varietà": Federico Fellini, Giulietta Masina, Carla del Poggio e Alberto Lattuada. Sotto: Lattuada mentre dirige lo stesso film.
Lattuada si è inoltre avvicinato al cinematografo nella maniera più umile, diremmo quasi religiosa: raccogliendone i cimeli preziosi e conservandoli nel primo reliquiario del genere che si fa in Italia : la cineteca privata Mario Ferrari. L'amore per i classici, lo studio appassionato di essi, ancorché inutili agli effetti pratici, lo hanno aiutato molto soprattutto da un punto di vista morale. Lattuada cioè, osservando con ammirazione le più nobili conquiste dell’arte cinematografica, deve aver compreso che negli anni del suo debutto non vi erano molte vie d’uscita nonostante la tanto sbandierata "rinascita”. La lezione morale dei "classici" Lattuada non l'ha mai scordata: ha infatti sempre seguito le sue idee, concedendo poco o nulla alle cosi dette necessità commerciali del film, attirandosi spesso lo ire dei produttori da un lato e, dall’altro, il sospetto dei conformisti. Ciò non vuol dire che egli, al momento opportuno, non abbia saputo concedersi, tutt’altro: lo sta a dimostrare soprattutto la seconda parte di Il bandito. Ma tali concessioni furono sempre praticate a mente fredda, dichiarate magari con sfrontatezza, senza mai recare degli alibi pietosi, buoni tutt’al più a convincere e a consolare se stessi nelle congiunture critiche. Codesta moralità è stata sempre una delle sue qualità migliori, di fronte a certi attimi di debolezza, che pure lo avranno posseduto, di fronte agli allettamenti di un facile guadagno che si sarebbe realizzato mettendo in primo piano il mestiere e trascurando invece le esigenze artistiche; ci debbono essere stati sempre, vogliamo dire, un von Stroheim, un Chaplin, un Dreyer a mettergli in allarme la coscienza, a frenarlo sulla china pericolosa delle concessioni, che, ad un certo punto riescono a disorientare anche il più astuto e freddo calcolatore. A chi conosce la giungla, irta d’insidie, che è il mondo cinematografico italiano, a chi sa apprezzare le battaglie quotidiane che certi nostri registi conducono al fine di non cedere su certi sacrosanti principi, a chi insomma sa che i film» non piovono dal cielo» e sono invece il risultato di una lotta continua, che apparta temente, nulla ha da spartire con la creazione artistica, il valore di questa qualità di Lattuada non potrà sfuggire: essa lo eleva, a priori, fino al ristretto ambito del l'aristocrazia del cinema italiano. Il critico. soprattutto, deve tener conto di questi dati di fatto; altrimenti il giudizio del film in quanto tale, seppure approfondito, sarà sempre manchevole: potrà provocare delle ingiuste stroncature o, non è escluso, degli eccessivi elogi, difficile com’è tirare la somma storico-critica di un regista, quando costui è ancora nel pieno della sua evoluzione. Tenuti invece ben presenti codesti fatti preliminari, allora si potrà con maggior tranquillità iniziarne l'analisi.
Questo abbiamo tenuto a premettere, tanto più che i film di Lattuada non sempre hanno seguito quella traccia cristallina che abbiamo schematicamente descritto, ina più volte sono stati oggetto di discussioni e rimproveri per certi elementi contradditori in essi contenuti. Dopo aver partecipato al lavoro di sceneggiatura di Piccolo mondo antico (1940-1941) e di Sissignor a (1941), Lattuada dirige il suo primo film Giacomo l'idealista (1942), che generalmente oggi si classifica tra le opere della tendenza calligrafica del nostro cinema. Orbene, se è vero che Lattuada ha prediletto «l’inquadratura in cui era riuscito a iscrivere l’attrice Marina Berti entro cinque rettangoli», tuttavia il film non può essere paragonato ad altri campioni dell'allora imperante "calligrafismo", ai film di Castellani per esempio. V’è già, in Giacomo l’idealista, una esigenza diversa, ora psicologica, nello scavare il personaggio interpretato da Andrea Checchi (si ricordi la famosa "scena del gatto"), ora sinceramente poetica, come nella sequenza del traghetto dell’Adda; v’è soprattutto evidente una caratteristica, che in seguito Lattuada, per sua fortuna non abbandonerà mai : la scelta doviziosa di tipi, che riescano a fermarsi nella memoria dello spettatore. Non v’è regista importante infatti che non ci abbia regalato una galleria di tipi indimenticabili, le cui caratteristiche somatiche e psicologiche si siano compenetrate a vicenda. Anche i tipi talvolta testimoniano la levatura di un film, indipendentemente da altri pregi e difetti: sono i tipi di Giacomo l‘idealista, che hanno fatto di Lattuada un regista con una "faccia", con un "sapore”.
Dopo Giacomo l'idealista ritroviamo Lattuada nel 1946, nelle immagini violente di un treno di reduci; il protagonista del film trova la casa distrutta, i genitori morti e la sorella in un bordello; cerca di portarla via, ma il ”mac” glielo impedisce freddandola; lui, a sua volta, lo uccide e diviene un bandito. Questa storia truculenta e furibonda. «tipica di un paese, di un’epoca, d’una scuoia, d’uno stile nuovo», ove si rivede una Magnani generosa, ricca di temperamento come non mai, e si ribadisce l'arte della tipizzazione, propria di Lattuada. spiccio nella scena del gioco delle carte per la strada, sfocia pierò nel "mèlo” più vieto, con il bandito che muore, tenendo in mano un'ochetta per bambini. Qui abbiamo il limite delle concessioni fatte da Lattuada al gusto andante dei suoi finanziatori — qui e nella precedente Im freccia nel fianco (1943), che non consideriamo —: concessioni gettate con pesantezza, quasi con rabbia. E le ragioni umane del film rimangono a mezz'aria e cosi il bandito resta un documento indiretto di un periodo quanto mai avventuroso e ricco de! nostro cinema, in cui le testimonianze dirette sulla nostra realtà si chiamano Roma, città aperta, Paisà, Sciuscià e II sole sorge ancora.
Con II bandito, pierò, certi equivoci hanno termine, da Il delitto di Giovanni Episcopo (1947) in poi, il cammino di Lattuada sarà tutta una salita, proteso ad un continuo miglioramento, ad un affinamento del suo stile, a volte faticoso, a volte invece spedito. La qual cosa non appare sùbito evidente: Il debito di Giovanni Episcopo, anzi, viene generalmente considerato come un ritorno al "calligrafismo”. Rivisto oggi, il film ci sembra un tentativo, non riuscito, di dare una quarta dimensione (nel tempo, nella storia) al realismo italiano, tentativo che, ripetuto con II mulino del Po, darà luogo a risultati a volte sorprendenti. Parlare quindi di dualismo nel caso di Lattuada, come di due tendenze, una attuale e una calligrafica, procedenti di pari passo, ci sembra avventato, spiccio se si pensa alle infinite possibilità del realismo, che sta sostanzialmente al di sopra dei "generi”. L’ascesa continua con Senza pietà. In un anno, il 1948, in cui vedono la luce film importanti come La terra trema, Ladri di biciclette e Germania anno zero, l’opera di Lattuada passa quasi inosservata. Né del resto la premessa un pio’ generica del regista, di «volere, anzitutto, fare il processo implacabile alla guerra, mettendo in luce uno degli episodi più caratteristici del dopoguerra», è tale da poter distrarre critica e pubblico, assorti nella contemplazione del suicidio di Edmund, degli sforzi del disoccupato Ricci per riottenere lo strumento indispensabile al suo lavoro, della lotta che conduce ’Ntoni per giungere ad una maggiore giustizia sociale. Interessa semmai il problema razziale, che Senza pietà per la prima volta pone, traendo lo spunto da una situazione abbastanza frequente nel dopo guerra italiano. Ma a questo punto, importantissimo, il soggetto gira e gira intorno, reverentemente evitando ogni concreta specificazione: l’amore fra l’italiana Angela e il negro americano Jerry resta di conseguenza qualcosa di puramente platonico ; il film si guarda bene dall’affrontare i rapporti sessuali dei due, che la logica del racconto rende indispensabili. Senza pietà quindi, con il tema del destino invincibile, contro il quale inutilmente combattono i protagonisti, sta a mezza strada fra il realismo italiano del dopoguerra e il film francese dell’anteguerra; i difetti poi di un dialogo, lasciato allo stadio di prima approssimazione, riducono spesso le dimensioni della storia e dei personaggi al livello del romanzo popolare, della ragazza perseguitata e dell'amante sfortunato. Viceversa Lattuada acuisce la sua sensibilità nella ricerca dei tipi, vestendo il destino con il candido abito di una sorta d’impotente, invertebrato o quasi, e dando origine, con l'antinomia fra l'uomo tutto bianco” e "l’uomo tutto nero”, ad una trovata degna di un Faulkner. A questo film, carico di reminiscenze male assimilate, segue II mulino del Po (1948), con cui l'arricchimento e l'affinamento delle sue qualità divengono più evidenti. «Nella letteratura moderna», premette Lattuada, «anche in quella dei migliori scrittori, la nostra società appare rappresentata in caratteri individualistici o, al più, in caratteri di una sola classe, ed è così che nella mente dell'italiano, le nostre provincie sono perennemente popolate di farmacisti, medici condotti, contadini ipocriti, marescialli dei carabinieri. Può darsi che le secolari tradizioni auliche dei nostri scrittori abbiano ostacolato un vero accostamento sociale alla vita del popolo e qui, penso, sarebbero da cercarsi le cause che ritardano indefinitamente la fioritura del nostro romanzo». Ormai molte tracce di "calligrafismo", equivalente all’ "aulicismo" letterario, sono scomparse; ogni elemento costitutivo del film prende il suo posto, senza nocive preponderanze; fotografia. scenografia e costumi si ritraggono discreti, lasciando un largo margine di sviluppo a fatti più importanti, ad esempio, agli storici scioperi per la tassa sul macinato, a lotte «sempre concrete nelle loro ragioni e cause», come ha voluto chiamarle Lattuada riferendosi agli scioperi dei braccianti emiliani, che avevano luogo proprio all'epoca dell’uscita del film. Con questa ricorrenza, che egli interpreta pessimisticamente, come i' negazione tragica di requie», Lattuada giustifica «l’assenza di chiusura» del film, la sua non-conclusione, che ha sollevato parecchie discussioni. E Lattuada fa suo il naturalismo di Bacchetti : non ci si consola più con gli interventi divini, con la supcriore provvidenza, ma ci si basa esclusivamente sull'uomo o, meglio, sulla capacità di sperare che l’uomo ha. Il pessimismo di Lattuada ha dunque un limite, quello della speranza; al di là di esso sta solo La distruzione dell’uomo,
Con II mulino del Po Lattuada raggiunge una personalità abbastanza definita, nella eguale confluisce il meglio delle sue esperienze passate, da Occhio Quadrato in poi; ormai egli riesce a rispondere alle molteplici domande che la vita moderna a mano a mano pone. Al quesito «Il cinema d'oggi rispecchia i problemi dell’uomo moderno?», proposto dal convegno di Perugia, tenutosi nel settembre 1949, Lattuada risponde che» scarsamente, in modo casuale, in felici e brevi coincidenze, ossi vivono». E parla «del ricatto che ogni forza in gioco nel mondo, esercita sull’uomo per trascinarlo nella sua orbita, del problema dell’egoismo individuale, della sopraffazione collettiva, dello sfruttamento del lavoro, della intolleranza religiosa e politica, della non felicità umana»; si rifà a Kafka per dire: «Tu uomo sei colpevole, punto e basta». Questo sfogo pessimistico ha uno sfondo personale e collima con un particolare stato d’animo del regista, che si vede rifiutati i suoi progetti dalle case di produzione, respinto il suo ultimo film da varie censure straniere sotto l’accusa di incitamento alla rivolta ; «Quei problemi non vivono, perché il cinema non ha autonomia, il cinema vive sotto censura, il cinema costa troppo, il cinema è diventato un fatto industriale, che poco o nulla ha da vedere con l’arte». E Lattuada conclude il suo intervento dicendo: «Io non credo ad altre soluzioni del problema, se non a quella che dia autonomia di creazione al cinema, lo metta in grado di essere un fatto individuale... Siamo dunque di fronte a ostacoli grandissimi, per superare i quali gli autori devono lottare senza tregua per sfuggire alla morsa del capitale. E se da un lato è consigliabile la strada della più severa modestia, cioè del minimo costo, un costo addirittura sopportabile dagli autori (girare nel formato ridotto di 16 mm), dall'altro la speranza più viva è quella del prodigioso progresso tecnico che avvicini il giorno, non lontanissimo invero, in cui la pellicola costerà come un foglio di carta bianca e la macchina da presa come un rasoio elettrico. Avremo fatto il passo decisivo verso la vera libertà d' espressione dell'arte cinematografica». Luci del varietà, il film che Lattuada ha recentemente diretto, valendosi della valida collaborazione di Federico Fellini e mettendo in atto, per la prima volta da noi, un sistema produttivo cooperativistico, ha, tra gli altri, questo significato importantissimo: che Lattuada, per fare in certo modo da sé, non ha atteso» il giorno in cui la pellicola costerà come un foglio di carta bianca e la macchina da presa come un rasoio elettrico».
Callisto Cosulich, «Cinema», n.56, 15 febbraio 1951
«Lunga strada da Rascel a Gogol», Franco Berutti, «Settimo Giorno», anno V, n.4, 24 gennaio 1952
Scuola elementare ha una qualità rara nei film come negli uomini: ha un suono genuino. Non che la continuità del racconto sia perfetta: c'è per un momento un brusco stacco di piani quando sul tetto del Duomo in una lepida scena. Billi ha la folgorante dinamica rivelazione di muovere alla conquista della città. E c’è in qualche punto urta arrendevolezza verso le soluzioni facili e implicitamente lacrimogene, come nella promozione del ragazzino disgraziato dalla botteguccia di barbiere al grande garage. Però, per la natura stessa della sua tecnica, un film passa attraverso tante mani, è soggetto a tante distorsioni e inframmettenze, che è raro che arrivi alla fine mantenendo quella coerenza di accento e di timbro che è il solo criterio per distinguere una opera convinta da quella che non lo è. Mi pare che Scuola elementare abbia questa coerenza.
E siccome non è la frigida formale coerenza che può essere talvolta frutto di uno scaltrito mestiere, perché vi palpita dentro il contraddittorio movimento della vita, questo film rappresenta una felice innovazione nella carriera di Alberto Lattuada. Devo dirlo? È la prima volta che lo sento commosso davanti ai suoi personaggi e al suo soggetto. Forse tante cose insieme vi contribuirono. Forse i ricordi della fanciullezza, i visi dei compagni di gioco, i fantasmi dei cari maestri scomparsi. Forse l’amore della sua città natia, Milano, che vive nel suo cuore se la fissa in immagini così pittoresche e insieme cosi attente, colme di ammirazione e di nostalgia. Si direbbe che questa spinta abbia una volta tanto lacerato quel diaframma fatto di calcolata abilità, e quasi talora di intellettuale sussiego, che lo separa dalle cose, ponendolo improvvisamente in comunicazione affettuosa col suo mondo. Che è il mondo di una scuola elementare milanese (una scuola milanese in cui ci sono è vero Per combinazione molti romani), coi suoi ragazzi, i suoi asegnanti, i suoi bidelli, ma Poi per propagazione di casi si allarga sino a divenire la rappresentazione di tutto un settore sociale, una immagine in scorcio di quell'immenso crocicchio di destini e di , anime che è la città.
Quattro personaggi escono soprattutto in luce nella vicenda. Uno è Trilli, il maestro che relegato nella scuoletta del suo lontano paese sin che vive la vecchia mamma, si fa trasferire già orinai maturo a Milano per conoscere come dice nel suo ingenuo linguaggio burocratico «le grandi sedi», per accostarsi anche tardi al miraggio cittadino e che, per un momento distratto da' quell’ideale di buon educatore che lo aveva accompagnato tutta la vita, sta per lasciare la scuola, sinché la passione e i suoi ragazzi non lo riprendono. L’altra è Laura, la ragazza che, per un momento respinta da quel mondo di frivolezza e di lusso a cui la sua bellezza e la sua prima amara esperienza d’amore la conducevano, cerca una soluzione nel suo diploma di maestrina da cui subito la fatalità la stacca per portarla via, già stanca, verso il suo povero destino di girl. Il terzo è Pilade, il buon compare trapiantatosi come bidello a Milano con la segreta illusione di mettere un giorno la mano sul grande affare («qui ancora non mi hanno capito!»); e che avendolo trovato ma essendosi ingolfato nei guai, se ne ritrae abbandonando l’affare all'affarista che può sfruttarlo, e tornando alle solite mance e alla vendita spicciola delle lamette da barba. Il quarto è Crip-pa, il ragazzino isolato nella sua selvatica fierezza di figlio della miseria e della colpa. Sono quattro caratteri visti e delineati con penetrante comprensione e gentile simpatia, senza tesi astratte ma con la coscienza presente del sottofondo sociale che li crea e li condiziona, comici (quando devono esserlo) con tatto o patetici senza smanceria: e il modo come questi destini sono presi e lasciati, quasi rinunciando a spiegarli e a risolverli, è prova di acuta e intelligente regia.
Meno si vede, se mai, quella che nel titolo è la protagonista, la scuola elementare: meno, voglio dire, di quelli che sono nel momento attuale i suoi problemi, i suoi orientamenti, la sua crisi. Solo in un punto il grande perenne ideale della scuola quale ce lo tramandarono le generazioni del Risorgimento riappare in tutta la sua maestà, ed è alla fine quando ci viene ricostruita davanti una cerimonia di premiazione a vecchi e gloriosi insegnanti, con la partecipazione personale dei premiati Per un momento umili ed eroiche figure che in cambio di poco pane, hanno consacrato la loro vita all’educazione di migliaia e migliaia di ragazzi, compaiono sullo schermo, su quello schermo uso tanto spesso a mostrare volgarità e sconcezza.
Si mettano sull’attenti.
«Epoca», 1955
«Gazzetta del Popolo», 7 luglio 1957
La principale caratteristica di Lattuada è la pazienza con cui sa attendere il momento buono per realizzare un progetto che l’appassiona. L’idea di tradurre in film il racconto cecoviano gli venne mentre girava “Il cappotto”
Roma, gennaio
«Vieni alle cinque. Troverai sigari e whisky e chiacchieriamo un po’». Così alle cinque pigio il campanello sormontato dal biglietto da visita di Alberto Lattuada, la porta si spalanca e appare lui in maniche di camicia e bretelle. La divisa delle biricchinate. Quando si leva la giacca state pur certi che sta combinandone una delle sue. Infatti il campanello l’aveva interrotto mentre lavorava a degli "improvvisi” pianistici. «Voglio fare uno scherzo a un cacciatore di rarità musicali — e si rimette al pianoforte per farmi ascoltare la sua composizione — incido questa musica su un nastro magnetico e glielo mando... ”è di uno sconosciuto autore sud-americano” gli scrivo e lui va sicuramente in sollucchero per queste dissonanze irrazionali... gli verrà voglia di conoscere questo autore misterioso — spreme dai tasti bianchi e neri accordi complicati: — forse ci scriverà sopra anche un saggio».
Ecco un altro aspetto del politecnico Lattuada: architetto, pittore, scenografo, sceneggiatore, regista, musicista e. forse, qualcos’altro ancora, per placare la sua irrequietezza. Il bello è che fa tutto con accanito impegno, con l’ ”animus” del crociato. E’ capace di metterci dieci anni per portare a termine un’impresa, senza mai perdere l’entusiasmo iniziale e senza abbandonare di un punto quell’ideale perfezionistico che fa parte della sua natura.
Dieci anni or sono, infatti, mentre girava ”Il cappotto” a Pavia, cominciò a leggere Cechov e rimase conquistato dal racconto lungo intitolato ”La steppa”.
«Quando giunsi all’ultima riga: "...egli si lasciò cadere esausto su una panca e con lacrime amare salutò la nuova, ignota vita che ora cominciava per lui...” baciai le pagine del libro con la piena felicità e ri-conoscenza di chi si trova di fronte all’autentica poesia».
La vicenda del piccolo Jegor gli aveva riportato alla mente la storia della sua infanzia, le impressioni che la campagna lombarda aveva impresso nella sua memoria, ricordi assopiti di scoperte favolose. Allora nacque il film che solo ora ha finito.
«Fu durante un incontro parigino con Moris Ergas che combinammo nello spazio di due minuti di produrre il film su ”La steppa”... Erano passati esattamente nove anni dal momento in cui avevo deciso di portare sullo schermo la storia di Jegoruska...», gli occhi hanno un lampo mefistofelico. Mi versa il whisky promesso e tira fuori da un armadietto una mezza dozzina di scatole di sigari.
«Ti do un sigaro Lattuada — dice aprendo e chiudendo tutto il campionario. — Me li ha mandati Zavattini da Cuba... c’è scritto sopra il mio nome». Finalmente trova quello che sta cercando: un tubo di alluminio, lungo venti centimetri. Lo apre, lo scuote fino a farne uscire un interminabile rotolo di foglie gialle legate da un anello di carta dorata sul quale effettivamente c’è scritto il suo nome. Che sia un altro scherzo del suo repertorio? Così equipaggiati ritorniamo alla "Steppa".
«E’ un film che rinuncia all’intrigo, alla geometria degli effetti, al sapore forte delle spezie... un cinema che ha il sapore del pane... una forma di spettacolo assai ambiziosa e audace per un pubblico nuovo che sempre più numeroso rifiuta il vecchio cinema per l’esigenza di forme più mature e colte di spettacolo... Il cinema è arrivato a una grande svolta. Tra dieci anni sarà un genere di spettacolo riservato a una "élite” perchè la sua popolarità sarà assorbita compietamente dalla televisione... Chi sa? Forse stiamo assistendo all’inizio di una lunga agonia».
L’idea che il cinema possa morire non gli dispiace del tutto. Ha certamente la soluzione di ricambio pronta. A 48 anni sarebbe disposto a ricominciare da capo la ricerca di cose "destinate al successo". E’ un uomo dalle soluzioni rapide e radicali. Quando capì che per girare "La steppa" in Russia ci sarebbero voluti mesi di trattative, prese il treno e percorse quindicimila chilometri su e giù per la Jugoslavia.
«Ho visto villaggi bellissimi, forme straordinarie e una steppa che non ha nulla da invidiare a quella descritta da Cechov. Per questo ho rinunciato anche alla ricostruzione di certi aspetti tipicamente russi e ho deciso di ambientare il racconto proprio in Jugoslavia.
Dalla Vojvodina sono sceso fino a Mostar, la città turca, e ho preso tutto autentico: musiche, costumi, danze, forme architettoniche. Era inutile ricominciare col solito cartone e con i costumi russi che ormai hanno sapore di operetta, tanto si sono visti. La storia, naturalmente. rimane quella che è: la rivelazione dei simbolici valori della vita agli occhi di un bambino che abbandona la casa materna per raggiungere la città dove inizierà i suoi studi. La malattia che colpì Daniele Spallone, il ragazzo protagonista del film, ci costrinse a una sosta forzata di quasi due mesi durante i quali le foglie degli alberi erano cadute e il bosco che avevamo scelto era stato allagato dal fiume vicino. Per un momento fui preso dalla disperazione; una disperazione così vera che commosse gli jugoslavi e li spinse a infrangere tutte le regole. Tagliarono una cinquantina di alberi e li portarono in uno studio di Belgrado. E così, sia pure con molta fatica perchè gli alberi, sdra-icati, non ne volevano sapere di stare dritti in quel luogo innaturale, riuscimmo a finire il nostro dim».
«E adesso?». Si alza e s’avvia verso lo studio. «Vieni, vieni a vedere... questa è la sceneggiatura inglese di "Jagua Nana”... devo leggerla questa notte. Non so ancora se potrò farlo subito questo film perchè le autorità nigeriane sono discordi sulle interpretazioni che possono scaturire dalla storia di questa ragazza... Poi sto rileggendo "La montagna incantata” di Thomas Mann perchè dei produttori tedeschi vorrebbero farne un film... Questi, invece, sono gli appunti di una inchiesta che sto facendo con Lily Bistrattyn sulla condizione delle ragazze che vivono in una grande città. E' una indagine piena di cose curiose e inaspettate sugli ambienti dell’alta borghesia, del cinema, delle case di moda... bello, bello! E sto pensando anche a un film sulla mia famiglia, ima specie di recherche. La nostra è stata una famiglia straordinaria... Pensa che mia madre, a un certo punto, dovette disciplinare i discorsi a tavola per evitare che il pasto si trasformasse in una rissa polemica. Stabilì che ognuno di noi avesse diritto a cinque interventi, concisi. Cinque e non uno di più... una famiglia straordinaria. Sono sicuro che sarebbe un film destinato al successo». Ahi! ci metterà magari altri dieci anni, ma state sicuri che, prima o poi, Lattuada riuscirà a trovare il produttore anche per questa impresa.
Franco Calderoni, «Tempo», anno XXV, n.5, 2 febbraio 1963
«Radiocorriere TV», 1963 - Alberto Lattuada
Cosi Carla Dei Poggio chiama il suo piccolo Alessandro, che ha da poco compiuto i cinque mesi e la cui presenza condiziona tutti i programmi della famiglia. E’ colpa sua se si è detto che l’attrice avrebbe abbandonato cinema e teatro
Roma, dicembre
Quando Carla del Poggio apprese, tempo fa, dai giornali la propria decisione di smettere di fare l’attrice, la sua prima reazione fu la meraviglia; la seconda, il disappunto, e decise che avrebbe fatto una smentita; infine subentrò l’indifferenza, e lasciò perdere. Una smentita, pensò, per essere efficace deve poter contrapporre a un’affermazione dei fatti concreti, ed essa, in quel momento, non faceva proprio nulla che avesse a che vedere con il cinema o con il teatro; stava semplicemente allevando il proprio bambino, nato cinque mesi fa. Si chiama Alessandro ed è un bambino paffuto, con gli occhi azzurri, i capelli chiari, il quale si dimostra lietissimo di essere venuto al mondo, ama la musica, soprattutto quella del carillon, non piange quasi mai e sorride a tutti, meno che ai fotografi, dei quali disdegna in particolar modo i lampi dei flash.
E’ lui, "questo pupazzo pelato”, come lo chiama affettuosamente la madre, la causa principale di tutte le voci messe in circolazione sulla sua "rinuncia”. Sebbene il marito, Alberto Lattuada, l’avesse consigliata di prendersi una nutrice, l’attrice non ha voluto infatti sottrarsi a nessuno dei suoi doveri di madre; e ciò l’ha costretta, ben presto, a rifiutare alcune offerte vantaggiose di lavoro. La pinna gliela fece, ad agosto, la Televisione. Si trattava di prendere il posto già tenuto da Delia Scala in ”Lui e lei”, che è dopo "Lascia o raddoppia?” la più popolare rubrica della TV; il tono della rubrica, per di più, sarebbe stato rialzato e la Del Poggio, con la sua aria di brava signora borghese e le sue doti d’attrice, vi avrebbe contribuito.
Ma Alessandro era nato da un mese, e la rubrica si effettua a Milano: Carla del Poggio, dopo qualche esitazione, disse di no. La seconda offerta venne da Napoli. A settembre Eduardo avrebbe ricominciato gli spettacoli della Scarpettiana, e invitò l’attrice a riprendere il suo posto, abbandonato l’anno prima, a metà della gravidanza. Questa volta la tentazione era anche più grande. Carla del Poggio ama infatti il teatro; dopo una lunga carriera cinematografica, due anni fa scoprì che nulla può eguagliare l’emozione, il brivido, la soddisfazione, che la presenza del pubblico procura ad un attore. E se la sua prima esperienza di palco-scenico, con la compagnia di riviste di Macario, ebbe un epilogo negativo, ciò dipese da una serie complessa di ragioni ma sostanzialmente da un errore di calcolo, cui la sua acuta sensibilità diede proporzioni esagerate.
Ma con Eduardo, sette mesi dopo, si sentì perfettamente a suo agio. La formula della Scarpettiana le piaceva; napoletana di nascita, sapeva che il pubblico le voleva bene e di questa certezza aveva bisogno, dopo i dubbi quasi ossessivi che l’avevano tormentata durante la tournée con Macario; l’ambiente della compagnia era ricco di entusiasmo e di calore umano. Quando essa annunciò ad Eduardo che doveva .interrompere le recite, egli fu comprensivo e affettuoso con lei, come un padre; disse che i figli sono una grande cosa e vengono prima di tutto il resto. Ma appunto per queste ragioni, allorché quest’anno Carla del Poggio si è rifiutata di andare a Napoli, è stato quasi logico che Eduardo dicesse: «Se la del Poggio si rifiuta di recitare in teatro con noi, vuol proprio dire che ha deciso di non lavorare più».
Non era vero. «Dopo che si è fatto l’attrice per quattordici anni», dice Carla del Poggio, «smettere è quasi impossibile. Se lo facessi, sentirei che mi mancherebbe qualcosa; non mi sentirei più io. Il lavoro oltretutto, quando ci si è abituati, costituisce uno sfogo fisico, di cui non si può fare a meno». Era vero, invece, che Carla del Poggio voleva dimenticare per alcuni mesi i propri impegni ed essere soltanto una mamma, come tutte le altre; voleva tenere in braccio, allattare, star vicino giorno e notte al proprio bambino. Era una gioia cui aveva sempre pensato e che aveva atteso per molti anni, dal giorno in cui nel 1945 la ”diva” del cinema italiano prebellico, Carla del Poggio, e il regista Alberto Lattuada si erano sposati, lei in tenuta bianca da tennis e lui col maglione; e la delusa aspettativa di questa gioia era stato certamente imo dei motivi determinanti degli alti e bassi del suo carattere, dell’altalena dei suoi umori, oscillanti fra scatti di allegria e momenti di depressione e di inspiegabile malinconia.
«Il carattere di mia moglie», disse una volta Lattuada, «è come una sinusoide». Ora, dopo la nascita del figlio, la sinusoide si è trasformata in una linea orizzontale. Il piccolo Alessandro è divenuto non solo la persona più importante della casa, ma lo stabilizzatore degli umori di sua madre. La sua ricettività infatti è troppo acuta, per poterla ingannare. E come accade a tutte le madri, il pensiero del figlio è divenuto dominante nella mente di Carla del Poggio: ogni cosa, direttamente o indirettamente, la rimanda a lui. L’attrice ricorda di aver già provato qualcosa di lontanamente simile da bambina, quando raccolse per strada un gattino appena nato e lo rinchiuse, perchè il padre non lo vedesse, nella caldaia del termosifone: tutto il giorno pensava a lui con geloso, materno senso di protezione.
Naturalmente, i problemi dell’educazione dei figli sono divenuti di grande attualità nella famiglia Lattuada. E una volta tanto l’attrice e il regista, che si sono sempre distinti per i loro caratteri diversi, i loro gusti opposti, una certa tendenza a litigare, si sono trovati perfettamente d’accordo. «I bambini», dice Carla del Poggio con il suo .tono trafelato e serio, «bisogna studiarli, cercare di capirli, intuire e stimolare le loro tendenze; ma non bisogna imporgli nulla. Io sono per un’educazione di tipo selvaggio: devono imparare presto a sbrigarsela da soli, devono buscarne e imparare a difendersi. Oggi ci vuole gente svelta, che sappia sbrigarsela in qualsiasi occasione; non ci tengo affatto ad avere un figlio laureato, ma ci tengo moltissimo che mio figlio divenga un uomo libero di scegliersi la sua strada e capace soprattutto di guadagnarsi la vita».
Il piccolo Alessandro ha compiuto da poco i cinque mesi e dimostra di avere un ottimo carattere. Le sue uniche proteste riguardano l’ora in cui deve andare a letto: considera le sei di sera un’ora sconveniente per il figlio di un regista e di un’attrice. Alberto Lattuada già pensa al giorno, quando avrà compiuto un anno, in cui potrà portarlo in giro in automobile, seduto accanto a lui, su un apposito seggiolino; Carla del Poggio non vede l’ora che sia divenuto grandicello per potergli mostrare tutti i film che ha fatto suo padre. Ve ne sono alcuni, e fra i più veri Senza pietà, Il mulino sul Po, Luci del varietà, in cui Alessandro Lattuada potrà ammirare anche sua madre.
Stelio Martini, «Tempo», anno XVIII, n.50, 13 dicembre 1956 (Foto di Federico Patellani)
Perché Totò non perdesse ne La mandragola nemmeno un grammo della sua comicità, bisognava lasciarlo parlare come parla di solito. Abbiamo dovuto perciò giungere a un compromesso: nel film fra' Timoteo è un fiorentino d'adozione, un monaco "che venne dal napoletano, dov'ha fatto lunga pratica," come dice una battuta aggiunta al copione. D'altra parte, non è stato un grave attentato alla veridicità della storia. Un frate è un po' come un soldato, può essere reclutato anche fuori regione. Per il resto, Totò è un fra' Timoteo perfetto, con la sua capacità di convincere e quell'aria furbesca piena di sottintesi. Non era facile trovare ne La mandragola, un episodio in cui Totò potesse scatenarsi utilizzando tutte le sue risorse espressive.
Nel copione non era prevista una parentesi di follia medianica, come quella che Totò crea di sua iniziativa sulla scena o nei film. È stato necessario inventarla apposta per lui: alla fine della commedia, quando Callimaco e Lucrezia passarlo la notte insieme, e Machiavelli canta il trionfo dell'amore, il turpe fra' Timoteo avrà un dialogo con la morte; o meglio, ci sarà un agitato monologo di Totò con questa realtà invisibile, o visibile solo per lui.
Da solo, Totò farà una rappresentazione comico macabra, una specie di danza degli scheletri come se ne vedono tante nell'iconografia medioevale.
«L'Espresso», 20 giugno1965
Francesco Lattuada, secondogenito del celebre regista, è finito in galera per un affare di droga. Cresciuto all’ombra della notorietà paterna, forse oppresso da quella stessa notorietà, Lattuada junior è precipitato nella spirale dei paradisi artificiali - Ora è stato accusato di spaccio di hascisc e per la seconda volta in due anni è finito in prigione - In casa, i suoi familiari vivono una tragedia purtroppo abbastanza comune
Roma, giugno
Adesso ì figli d'arte finiscono in disgrazia: questa sembra essere la nuova legge degli anni '80. Dopo le amare disavventure di Nicola Salerno, ecco Francesco Lattuada, vent’ anni, secondogenito del regista della Cicala e di Carla Del Poggio, che viene messo sotto accusa, con immaginabili conseguenze: l’ambiente cinematografico a soqquadro, nel timore che Lo scandalo possa coinvolgere presto altri figli della Roma-bene.
Perché ci si riduce così? Perché un ragazzo che apparentemente ha tutto e per il quale sua madre sogna un futuro da pianista finisce nel voluminoso dossier del nucleo antidroga e va in galera per due volte nel giro di due anni?
L'interrogativo-incubo trova risposte contraddittorie: c'è chi è disposto a comprendere e chi invece infierisce: molti prendono le distanze e insinuano: • E un figlio del permissivismo. Quel ragazzo è cresciuto solo e pieno di complessi»; oppure: «Per colpa del successo, in vent'anni di carriera suo padre non ha mai potuto dedicarsi completamente a lui...»
LA PRIMA DEBOLEZZA
Il fattaccio è accaduto sabato 31 maggio, ma per parecchi giorni si è riusciti a nascondere la notizia, a proteggere con una fitta omertà il grave episodio che ha gettato nella desolazione una famiglia celebre. «Mio figlio non è un drogato», aveva dichiarato nell’aprile del 1978 Carla Del Poggio, allorché il suo ragazzo «cadde» per la prima volta e finì in carcere per detenzione di sostanze stupefacenti. (L’avevano fermato a Civitavecchia - con tre amici, ed era rimasto circa due settimane in quel carcere. In seguito si era parlato di una debolezza irripetibile, una disgrazia che non avrebbe avuto seguito).
Purtroppo non è stato così e i carabinieri in borghese che da qualche giorno avevano preso a pedinare il giovane sospetto, quel sabato di fine maggio, verso le quattordici, l'hanno colto in flagrante a Roma, a piazza Imerio, mentre consegnava una piccola dose di hascisc ad un coetaneo, per alcuni fogli da diecimila.
Un’altra mazzata proprio all’inizio dell’estate, proprio quando, dopo il successo ottenuto con La cicala, suo padre Alberto Lattuada aveva programmato di approfittare di un periodo di riposo per vivere vicino come non mai a Francesco, bisognoso d’attenzioni, ma soprattutto impegnato negli esami di maturità al liceo artistico. Il ragazzo è invece finito a Regina Coeli per spaccio di droga, sollevando un ciclone di ipotesi che sballotta l'alta borghesia romana. A poco servono sociologi e psicologi, che provano a spiegare, dando la colpa al benessere, al consumismo, ai tempi disumar dl'isti-tuto della famiglia irrimediabilmente devastato.
NON SA DIFENDERSI
Ma è vero? E quale, tra tutte queste cause, ha finito per rendere debole e indifeso Francesco Lattuada, avvelenando i suoi giorni da hippie? Gli amici lo raccontano chiuso di carattere, facile ad abbattersi, incapace di reagire con grinta ai soprassalti della malinconia, alle delusioni. Non sa difendersi, non ci tiene a rendersi presentabile al meglio, subisce la personalità del padre, «si lascia andare», «si butta via». Cosa è stato fatto per aiutarlo? Cosa si fa per recuperarlo?
Dopo l’ultimo arresto a piazza Imerio, ha scontato quasi tre giorni di carcere e, lunedì sera 2 giugno, è tornato miracolosamente in libertà provvisoria, grazie all'intervento abile ma principalmente gonfio di toni umani del suo avvocato Michele Montesoro. La difesa si è battuta per mettere in evidenza le possibilità che ancora ci sono per strappare il ragazzo dall’ambiente dei drogati irrimediabilmente perduti, assicurando che può trovare ancora via di scampo.
Ma nelle vie dei Parioli, non più quartiere baluardo della nobile borghesia, dove la droga circola, parecchi sorridono e scuotono la testa, assicurando che le furbe parole dell'avvocato difficilmente troveranno riscontro nella realtà
«Ogni volta che si cade», si sostiene, «si va un metro più giù e ci si allontana, per chilometri e chilometri, dalle regole giuste o sbagliate di questa società e di questo mondo. Ogni volta salvarsi diventa sempre più arduo, se non impossibile. Francesco è uno dei tanti, per lui non si possono trovare delle scusanti solo perché si chiama Lattuada. Dopo l'episodio di Civitavecchia, anche l’anno scorso venne "pizzicato" con la roba e riuscì ad evitare il castigo. Ma questa volta come andrà a finire?».
Il dramma davvero non è finito. Francesco è tornato con i suoi capelli a spazzola, con i suoi jeans trasandati, agli impegni sani che s’era prefisso: la maturità artistica, gli studi di pianoforte, i dialoghi confidenziali con sua madre, l'unica donna che non gli incute timore e vergogna.
Bisogna stargli sempre vicino, bisogna fare il possibile. Carla Del Poggio lo sa bene e, con coraggio, vive, combatte l'infelicità che rischia di avvolgerla sempre di più.
SON SOLO RAGAZZATE...
Ma chi altri fa qualcosa per Francesco? Non suo fratello Alessandro, venti-quattro anni, giovane molto serio e incapace di perdonare simili sbandamenti; non gli amici, molti dei quali si sono allontanati dalla casa importante dei Lattuada proprio nel momento in cui avrebbero forse potuto essere utili. Poi c'è suo padre, che nel cinema ha lasciato il segno fin dai tempi del Cappotto di Rascel. È un regista che si è sempre piccato di scoprire talenti, che si è sempre circondato di giovani e affascinanti promesse, avviandole verso la celebrità. Artista che alterna slanci di entusiasmo a lunghi periodi di riflessione, uomo di private debolezze e pubbliche virtù, su cui è fiorita un'aneddotica che va dilatandosi di questi tempi dopo l’uscita del suo libro Diario di un amatore. E c’è da dire che Alberto Lattuada, dopo aver diretto decine di film, è ancora giustamente sulla cresta dell’onda, è ancora in grado di consigliare aspiranti attrici quasi bambine prese chissà dove, come nessun altro Pigmalione. Ma purtroppo, e molti gliene fanno una colpa, non gli è mai riuscito dì consigliare suo figlio, o perlomeno di farsi ascoltare nei rari dialoghi che hanno avuto.
E una storia amara, è una storia cominciata con i primi piccoli, atroci sospetti di una madre angosciata, e che ha avuto sviluppi clamorosi causa la notorietà riflessa che accompagna le azioni del giovane. E patetiche sembrano ormai le parole di quei pochi che vogliono crederlo completamente attratto dalla musica. «£ già un ottimo pianista», insistono. «Certe ragazzate non possono perderlo, vedrete si salverà...».
DUE SETTIMANE ATROCI
L'altra volta, per l'incidente di Civitavecchia, il procedimento penale ebbe come pubblico ministero il dottor Antonio Lojacono e in istruttoria, considerato il reato come articolo 72 della legge sulla droga (possesso di modica quantità per uso personale), non si dette luogo a procedere e venne derubricato. Ma dalla prigione di Civitavecchia Francesco Lattuada uscì ancora più debole e stordito di prima, e confessò d’aver passato "due settimane d’inferno, da non augurare neppure al peg-gior nemico".
Questa volta si è rinserrato nel suo mutismo, questa volta sa che rischia grosso e teme la condanna per spaccio di stupefacenti; poco importa che nell’occasione si trattasse di una modesta quantità di hascisc.
Lo cerchiamo ed evita di rispondere, non vuole assolutamente spiegare il perché dell’ultima disavventura. Conoscerlo davvero diventa difficile per chiunque, poiché i soli che lui sente davvero amici sono, probabilmente, la madre e l’avvocato di fiducia. Agli altri che sanno, ripete come a noi al telefono. «Non voglio parlare. Preferisco dimenticare in fretta, non mi interessa spiegare fatti miei privati».
UN «ANIMALE FERITO»
È spaventato, si sente come un animale ferito, raccontano che preferisca dormire di giorno e studiare di notte. In attesa di giudizio, in attesa che siano analizzate le sostanze che gli hanno sequestrato, si sente ancor più fuori degli schemi di questa società, che pur ha attribuito ai suoi genitori ricchezza e successo. Ma i figli ormai sono sempre più corpi separati dai padri. Lo decevano gli amici di Nicola Salerno, colpito ancor più profondamente dallo stesso destino, e lo ripetono i conoscenti di Francesco Lattuada nel quartiere dì lusso dove è cresciuto senza ritrovarsi, senza essere felice.
Gianni Melli, «Oggi», anno XXXVI, n.27, 2 luglio 1980
IL LUTTO È morto ieri mattina all’età di 91 anni uno dei grandi padri del nostro cinema. Etichettato come «il regista delle ninfette», ha saputo invece raccontare il bigottismo della borghesia italiana. Con intelligenza e stile degni di un maestro
Gli italiani si voltano: si intitolava così un delizioso episodio girato da Alberto Lattuada nel 1953, per il film collettivo Amore in città. Doveva essere il primo di una serie di film/reportage voluti da Cesare Zavattini, per fare contro-informazione, critica sociale: in ogni capitolo il grande Cesare avrebbe voluto 5-6 episodi seri, di denuncia (e Amore in città conteneva il suo Storia di Caterina; co-diretto con il giovanissimo Citto Maselli), e un episodio finale scherzoso, «in levare». Amore in città rimase poi un film unico, isolato, ma Vepisodio Gli italiani si voltano conteneva, almeno ad una lettura superficiale, tutta la filosofia di Alberto Lattuada. Erano 10 minuti di belle ragazze che camminavano per strada, suscitando gli sguardi ammirati degli uomini: una di loro era una giovanissima Valeria Monconi, altra grande artista che ci ha da poco lasciati; uno dei tanti maschi allupati che inseguivano le fanciulle, salvo rimanere senza flato al culmine della scalinata di piazza di Spagna, era un collega di Lattuada, milanese come lui. Marco Ferreri.
Alberto Lattuada ha fatto voltare gli italiani per mezzo secolo. Dagli anni ‘50 in poi cominciò a essere definito «il regista delle ninfette», e lui non si tirava indietro, anche se da bravo intellettuale era il primo a sapere quanto tale cliché fosse riduttivo. Il culto per la bellezza femminile era un suo tratto, artistico e umano, ed era ciò che rendeva i suoi film così popolari. Ma c’era altro, nel suo cinema, molto altro: in primis, la letteratura. Lattuada era, come si diceva, un uomo colto: nato a Milano il 13 novembre 1914, era cresciuto nell’ambiente milanese dei Guf - le associazioni studentesche fasciste che praticavano una lieve «fronda» rispetto al regime -, era soprattutto un appassionato di architettura, fotografia e letteratura. E infatti si avvicinò al cinema
Si intitolava «Gli italiani si voltano», episodio del ’53. Letterale: seguivano figure di belle donne...
come assistente di un grande cineasta-scrittore, Mario Soldati: da lui (e da Ferdinando Maria Poggioli, altro suo maestro) ereditò il gusto per un cinema di ispirazione letteraria e di alti valori formali. Per tutti questi registi si parlò, nella critica del dopoguerra, di «calligrafismo»: e per salvarli in corner dalla mancata adesione al neorealismo, si diceva che i soggetti letterari erano un modo di evitare la propaganda di regime. Mezzo secolo dopo, è lecito dire che Lattuada sapeva già benissimo cosa voleva, dal cinema e dalla vita, fin dal primo film, Giacomo l'idealista (1943, da un romanzo di Emilio De Marchi).
Non gli interessava la denuncia sociale del neorealismo, né la sperimentazione, né l’adagiarsi nelle formule del cinema di genere: partendo da romanzi, cercava strutture narrative solide in cui inserire un’acuta osservazione della morale (e del moralismo) borghese. Morale che gli andava, ovviamente, stretta: il cinema di Lattuada narra l’eterna lotta fra i bigotti e i ribelli; e se i bigotti spesso vincono, ciò non toglie che lui stia con i ribelli. In questo senso, il suo primo film importante è II bandito, del 1946, in cui Amedeo Naz-zari è «costretto» a diventare un fuorilegge dalle amare circostanze di un Dopoguerra che per Lattuada, come per De Sica e per Rossellini, è da subito un luogo, e un tempo, di delusioni e di compromessi. Nel film c’è già una giovanissima Carla Del Poggio, che poi diventerà sua moglie. Negli anni successivi, dopo un paio di eleganti trascrizioni letterarie (Il mulino del Po da Bacchelli, Il delitto di Giovanni Episcopo da D’Annunzio), contribuisce a lanciare il più giovane collega Federico Fellini, con il quale co-dirige Luci del varietà (1950); e poi inanella una serie di ritratti antinconformisti, da Anna ( 1951, con una esuberante, magnifica Silvana Mangano) a La lupa (1952), dalla sensuale novella di Verga, fino allo straordinario travet del Cappotto (sempre 1952).
Questo film, in cui Renato Rascel è quasi magico nell’incarnare il modesto impiegatuccio Akakij Akakievic creato da Gogol, basterebbe per includere Lattuada nell’Olimpo dei grandi: tornerà all’amata Russia con altri tre film ispirati a capolavori letterari, La tempesta da Puskin (1958, con un cast intemazionale un po’ assurdo, in cui Pugaciov è interpretato dall 'americano Van Heflin), La steppa da Cechov ( 1962) e il notevole Cuore di cane da Bulgakov (1975), con uno straordinario Cochi Ponzoni (si, lui, la «spalla» di Renato Pozzetto) nel ruolo dell’uomo/cane Poligraph Poligraphovic. Gli anni ‘50 sono il periodo d’oro di Lattuada: l’Italia è già sufficientemente moderna per apprezzare i suoi film, ma ancora sufficientemente arcaica per dar loro quella patina di scandalo che non fa male al box-office. Esemplare, in questo senso, il dittico composto da La spiaggia (1954) e Guendalina (1956). Aiutato da due attrici francesi (Martine Carol nel primo, Jacqueline Sassard nel secondo), il regista disegna due donne «contro», una prostituta che tenta invano di conquistare la rispettabilità e una giovane che sfida la morale, o il moralismo, degli adulti. Continua a lanciare attrici: Catherine Spaak in Dolci inganni (1960). successivamente Therese Ann Savoy in Le farò da padre (con un insolito, conturbante Gigi Proietti), Clio Goldsmith in La cicala, Nastassja Kinski in Così come sei (al fianco di Mastroianni). Ma siamo già agli anni ‘70 e ‘80, anni discontinui, anni di vecchiaia in cui Lattuada non sembra più al passo con i tempi. Prima, però, il regista ha in serbo altri colpi. A parte parliamo di Mafioso, un film incredibile, una delle migliori prove in assoluto di Alberto Sordi, e della Mandragola, con Totò al servizio di Niccolò Machiavelli. Ma è giusto ricordare anche la malizia e l’ironia di Don Giovanni in Sicilia (1967, da
Lontano dalla denuncia sociale del Neorealismo gli interessava catturare la morale della borghesia
Brancati) e di Venga a prendere il caffè da noi (1971, da Piero Chiara), due successi con i quali valorizza due grandi attori come Landò Buzzanca e Ugo Tognazzi e sfiora la commedia all'italiana, rendendola però più sottile, meno ridanciana e altrettanto ficcante rispetto ai maestri del genere come Risi, Mollicelli e Scola. Dopo La cicala, che nel 1980 è quasi un esempio nobile di commedia sexy (alla Tinto Brass, tanto per capirci, ma con maggiore eleganza formale), Lattuada dirige solo un altro film. Una spina nel cuore, nel 1987: un altro. Nudo di donna ( 1981 ), lo vede ritirarsi dopo pochi giorni di lavorazione, per insanabili contrasti con il protagonista Nino Manfredi (che poi firma la regia). Nell’85 dirige un kolossal tv, Cristoforo Colombo, non memorabile. Ha condiviso con il suo concittadino Luigi Comcncini - classe 1916, ancora vivo - il triste destino di una malattia che l’ha inesorabilmente allontanato dal cinema e dal mondo. È stato un grande individualista del cinema italiano, poco classificabile in generi, scuole, filoni. Ha fatto i film che amava con le attrici (e gli attori) che amava. Per anni è stato in brillante sintonia con il pubblico. E difficile, per un regista, chiedere di più.
«L'Unità», 4 luglio 2005
Alberto Lattuada ospite a casa di Antonio de Curtis
Immagini dal set e foto di scena dal film "La Mandragola"
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Filmografia
Regista cinematografico
Giacomo l'idealista (1942)
La freccia nel fianco (1943) terminato da Mario Costa nel 1945
La nostra guerra (1945) cortometraggio documentaristico
Il bandito (1946)
Il delitto di Giovanni Episcopo (1947)
Senza pietà (1948)
Il mulino del Po (1949)
Luci del varietà, co-regia di Federico Fellini (1950)
Anna (1951)
Il cappotto (1952)
La lupa (1953)
L'amore in città, episodio Gli italiani si voltano (1953)
La spiaggia (1954)
Scuola elementare (1954)
Guendalina (1957)
La tempesta (1958)
Dolci inganni (1960)
Lettere di una novizia (1960)
L'imprevisto (1961)
Mafioso (1962)
La steppa (1962)
La mandragola (1965)
Matchless (1966)
Don Giovanni in Sicilia (1967)
Fräulein Doktor (1969)
L'amica (1969)
Venga a prendere il caffè da noi (1970)
Bianco, rosso e... (1972)
Sono stato io! (1973)
Le farò da padre (1974)
Cuore di cane (1976)
Oh, Serafina! (1976)
Così come sei (1978)
La cicala (1980)
Nudo di donna (1981) regia delle riprese iniziali, sostituito poi da Nino Manfredi
Una spina nel cuore (1986)
12 registi per 12 città, episodio Genova (1989) documentario
Regista televisivo
Fanciulle in fiore (1977) servizio televisivo per la trasmissione Odeon. Tutto quanto fa spettacolo di Brando Giordani ed Emilio Ravel
Cristoforo Colombo (1985) sceneggiato televisivo
Due fratelli (1987) miniserie televisiva
Mano rubata (1989) mediometraggio televisivo
Collaborazioni
Cuore rivelatore, cortometraggio, regia di Alberto Mondadori e Cesare Civita (1933) - scenografia
Il museo dell'amore, mediometraggio, regia di Mario Baffico (1935) - consulente per il colore
La danza delle lancette, regia di Mario Baffico (1936) - assistente regista
Piccolo mondo antico, regia di Mario Soldati (1941) - aiuto regista e sceneggiatore
Sissignora, regia di Ferdinando Maria Poggioli (1941) - aiuto regista e sceneggiatore
Il cappello da prete, regia di Ferdinando Maria Poggioli (1944) - sceneggiatore
Un eroe dei nostri tempi, regia di Mario Monicelli (1955) - attore
Il corpo della ragassa, regia di Pasquale Festa Campanile (1978) - adattamento del romanzo di Gianni Brera
Il toro, regia di Carlo Mazzacurati (1994) - attore
Note
^ Joe Denti, SENTIERI DI CELLULOIDE n.8: La Storia del Cinema vissuta dai Capolavori del neorealismo, Simonelli Editore, ISBN 9788876476167. URL consultato il 20 settembre 2016.
^ Eco del cinema, n. 150, maggio 1936.
^ Locatelli, Massimo, Un dolce inganno. Il sonoro nel cinema italiano dalla ricostruzione al boom, Comunicazioni sociali, Milano : Vita e Pensiero, 2004.
^ Mosconi, Elena. L'onorevole Angelina e la breve stagione della repubblica (cinematografica) delle donne, Milano : Vita e Pensiero, 2007, Comunicazioni sociali : 2, 2007
^ Lives in Brief. The Times (London, England), Friday, July 08, 2005; pg. 72; Issue 68434.
^ Sito web del Quirinale: dettaglio decorato.
^ Sito web del Quirinale: dettaglio decorato.
Riferimenti e bibliografie:
- Alberto Lattuada ("Totò, l'uomo e la maschera" (Franca Faldini - Goffredo Fori) - Feltrinelli, 1977
- Ermanno Contini, «La Settimana Incom Illustrata», 18 marzo 1950
- Callisto Cosulich, «Cinema», n.56, 15 febbraio 1951
- Stelio Martini, «Tempo», anno XVIII, n.50, 13 dicembre 1956 (Foto di Federico Patellani)
- «L'Espresso», 20 giugno1965
- Gianni Melli, «Oggi», anno XXXVI, n.27, 2 luglio 1980
- «L'Unità», 4 luglio 2005