Rossellini ci darà un Totò europeo

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Il personaggio di Salvatore Lojacono sarebbe piaciuto a Petrolini


Qualche settimane fa, sua altezza imperiale il principe Antonio De Curtis dei Griffo Focas Gagliardi, meglio noto come Totò, dovette far da testimonio alle nozze del suo segretario particolare. Giunti al momento della firma sui registri dello stato civile, un funzionano chiese a Totò: «Età quaranrtasei, vero, altezza?». Don Antonio De Curtis rispose: «Faccia lei... Semmai, il resto ce lo mettiamo un’altra volta...».

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Su quell'atto matrimoniale, venne scritta l'età che, ad occhio e croce, si può attribuire a Totò. Qualche anno più dei quarantatré che gli largisce una breve biografia in circolazione per gli uffici stampa delle case cinematografiche, e molti meno di quanti non risultino dagli annuari. Un almanacco del cinema uscito recentemente sostiene infatti che Totò è nato a Napoli il 15 febbraio del 1901, mentre il Libro d’oro della nobiltà italiana afferma che la nascita del «principe» risale al febbraio del 1898. Anche se le opinioni circa gli anni di sua altezza imperiale sono discordi, negli ambienti del cinema un punto d’incontro per tutti è rappresentato da questo slogan: «Se la maschera di Totò non è cambiata negli ultimi vent'anni, vuol dire che non cambierà più. E' ormai una maschera senza età». Dello slogan, naturalmente, il primo a compiacersi è l'interessato, e come lui se ne compiace la sua giovanissima fidanzata, Franca Faldini.

Appunto perché la maschera di Totò è considerata immutabile, così come immutato verso di lei è restato il favore del pubblico, da alcuni anni i produttori cinematografici si contendono a colpi di milioni l'esclusiva del primo attore comico italiano. I suoi film rientrano in quella ristretta categoria di pellicole alle quali il noleggio garantisce i migliori circuiti «a scatola chiusa». Basta che sui cartelloni pubblicitari possa comparire a grossi caratteri il nome di Totò, per assicurare il successo: la trama ed il valore intrinseco del film diventano fatti di secondaria importanza. E naturale quindi che il principe Antonio De Curtis non abbia voluto lasciare soltanto agli altri i vantaggi di questa situazione.

Nei primi anni del dopoguerra, i suoi guadagni cinematografici finirono presto col superare quelli che aveva realizzati con la rivista. Continuarono poi a salire sempre più, finché indussero l'attore a rinunciare definitivamente al palcoscenico Al tempo della prima denuncia Vanoni, Antonio De Curtis dichiarò un reddito tassabile (cioè netto) di tre milioni e seicentomila lire l'anno. In sede di verifica, i funzionari del fisco poterono accertare che quella cifra corrispondeva più o meno al suo reddito lordo settimanale: scoprirono cioè che Totò era vincolato per contratto ad una grande casa cinematografica, la quale gli corrispondeva, lavorasse o no, la somma «in contanti» di quattro milioni di lire alla settimana, per un periodo di dieci mesi all'anno. Probabilmente, i funzionari del fisco seppero anche che i quattro milioni dovevano essere versati a Totò entro le undici del mattino di ogni sabato, per evitare l'automatica denuncia del contratto ed il pagamento di una forte penalità.

In Italia i film di Totò hanno un successo strepitoso, ma altrettanto non può dirsi per i mercati esteri. Le pellicole che hanno registrato i più forti incassi nei locala italiani, hanno retto pochissimo nelle sale francesi e inglesi e non hanno affatto interessato il pubblico americano, fatta eccezione per alcune zone dell' America Latina. Praticamente, oltre che in Italia, i film di Totò hanno suscitato entusiasmi soltanto in Egitto ed in alcuni paesi del Medio Oriente. La «maschera» di Totò è insomma rimasta sempre un fenomeno interno. Dopo averla valorizzata al massimo, dal punto di vista finanziario, con dei contratti di ferro, e dal punto di vista artistico con i film «Guardie e ladri», «Napoli milionaria» e «47 morto che parla», Totò si è preoccupato di tentarne il lancio intemazionale. Gli occorreva un ottimo passaporto per l'estero, soprattutto per gli Stati Uniti: l'ha ottenuto con la firma di Roberto Rossellini al suo ultimo film: «Dov'è la libertà».

Tra le quattordici o quindici pellicole della sua carriera cinematografica, quella realizzata in questi ultimi tre mesi con Rossellini è stata senza dubbio la più impegnativa per Totò. Il regista intendeva dare al film un sapore petroliniano attraverso una ironia esasperata, quasi crudele: il Totò comico doveva quindi lasciare, più che in ogni altro film, il posto al Totò attore. Rossellini dice d’esserci riuscito e la stessa convinzione hanno dimostrato coloro che hanno potuto vedere la pellicola durante il montaggio. L'idea per il film «Dov'è la libertà» venne a Rossellini nel dicembre scorso, al tempo del processo Egidi. Sembra, anzi, che il regista avesse avuto l'intenzione di portare sullo schermo l'oscura vicenda di Primavalle (un suo collaboratore fu presente a tutte le udienze di quei processo e molti lo scambiarono per un giornalista perché non faceva che prendere appunti). Anche se il soggetto risultò poi del tutto diverso dal caso Egidi, apparve tuttavia influenzato da quella vicenda, soprattutto per certi intenti polemici.

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Il film ha inizio in un carcere. Salvatore Lojacono (Totò) si trova in galera da venticinque anni. Vi è entrato giovanissimo con una condanna a trent'anni, per aver ammazzato un tale che se la intendeva con sua moglie. Il delitto da lui compiuto ha fatto epoca a Roma: nella zona tra San Carlo al Corso e piazza del Popolo. Salvatore viene ricordato come «il barbiere di via delie Colonnette» (una strada popolare parzialmente scomparsa insieme a tante altre, ad opera del «piano regolatore»). Dal giorno del suo ingresso nel carcere, l’ex-barbiere non ha fatto altro che perseguire l’idea ossessiva della fuga. Con metodo da certosino, giorno per giorno, ha messo a pento un piano perfetto, con cento su cento probabilità di riuscita. Allo scadere del venticinquesimo anno, non resta altro che metterlo in esecuzione. Ma un condono imprevisto manda tutto all'aria: Salvatore ha speso i suoi anni di galera in una fatica inutile.

L’ex-barbiere di via delle Colonnette si ritrova libero per le vie di Roma proprio la sera di Capodanno: la città non è più quella che lui conosceva. Grosse automobili, filo bus, insegne luminose: tutte cose che gii mettono quasi paura, perché le vede per la prima volta. Ha nel portafogli una decina di biglietti da mille, corrispondenti alla «paga» per i suoi lavori carcerari, e un gran desiderio di trascorrere la notte con una donna. Si guarda intorno stordito, quasi ubriacato. Non sente neppure il freddo, nonostante sia in giacchetta (era entrato in prigione d’estate). Il suo sguardo, ad un certo momento, è attratto da una ragazza ferma all'angolo della strada, con la sigaretta in bocca. L’aspetto della donna è senz'altro equivoco per lui: molto rossetto, capelli decolorati e un’aria provocante che non ammette dubbi. Dopo avere girato un po' intorno, Salvatore decide di «abbordarla» come era in uso venticinque anni prima. Ma la ragazza è onesta e ci manca poco che non gli si avventi contro.

La serata la trascorre insieme a una donna dall’aria innocente, che gli ha strizzato l’occhio e gli ha fatto un cenno caratteristico con la testa. La porta in una pizzeria di lusso, deciso a far baldoria. Rimane solo, nel cuore della notte, dopo aver speso, fino all'ultima lira, i suoi risparmi del carcere. Non sa dove andare: non ha parenti, né amici. Finisce col dormire all’aperto e la mattina appresso, chissà come, si trova al mattatoio della città. E' là che, inaspettatamente, incontra Romolo, uno dei tanti fratelli di Aida, la moglie per la quale è finito in galera e che ormai è morta da tempo. Romolo ha dei grossi anelli d'oro alle dita e tutti lo trattano con deferenza. Fa grandi feste all'ex-barbiere e finisce col condurlo a casa sua, in una lussuosa automobile americana.

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Salvatore Lojacono rivede così molti visi noti e quello della suocera, che troneggia tra i figli e le nuore; quello del suocero, ormai rimbambito. Conosce anche un certo Nandino, che gli viene presentato come «cognato». Cognato di chi? Riesce a sapere che si tratta di colui che ha fatto da marito ad Aida mentre lui era in carcere. Non si irrita, naturalmente. Aida doveva pur avere un compagno durante la sua assenza! Per Nandino, anzi, prova una simpatia particolare. E oltre ai parenti e al marito putativo di sua moglie, Salvatore trova anche una servetta dall'aria pudica e ingenua (Vera Molnar), che gli accende subito il cuore. La felicità dell’ex-recluso sembra non aver più limiti. Ma finisce presto, poiché ad un certo momento scopre che i parenti della moglie lo hanno accolto tra loro soltanto per un fine delittuoso. Durante l'occupazione tedesca di Roma si sono appropriati dei beni di un ebreo e, poiché questi ne reclama la restituzione, hanno pensato di «farlo fuori» Chi meglio di Salvatore, un omicida, può servire allo scopo? Quanto alla servetta pudica e ingenua, ha accettato la sua corte solo nella speranza che l'ex-barbiere ripari a certe licenze che lei ha accordalo al più vecchio di casa.

Le illusioni di Salvatore Lojacono crollano improvvisamente, una dietro l’altra. Il poveretto finisce col sentirsi solo, tremendamente solo; prigioniero della sua miseria, più di quanto non lo sia stato al reclusorio. L'umanità gli appare molto meno crudele vista da «dentro», cioè dalla prigione. Non ha che una speranza: tornarsene in carcere. Ma là non ce lo vogliono più. Nella sua mente si riaffaccia il piano che ha tanto meditato per fuggire. E’ semplice: basta applicarlo alla rovescia... Così l'ex-barbiere può distendersi ancora sull'accogliente pagliericcio della sua cella, dove infine torna a sentirsi «libero».


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«L'Europeo», anno VII, n.34, 13 agosto 1952