«A prescindere», ho nostalgia del pubblico «vivo»

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Il debutto del celebre comico napoletano avvenne una notte di pioggia del ’22, al Salone Elena di Roma. Totò fu assunto come «straordinario»; non riusciva a guadagnarsi i soldi per il tram. Ora Antonio de Curtis dopo un lungo periodo di palcoscenico è diventato celebre; ogni tanto, comunque, lascia la sua sontuosa casa nel più elegante quartiere di Roma e se ne ritorna a Napoli.

Da più di un mese Totò, recita, provando se stesso, da solo, la notte, nella sua casa romana di viale Bruno Buozzi. Perché alla fine di novembre ritornerà al teatro, dopo sette anni di assenza. L’avaro bagaglio della sua maschera teatrale stava in un armadio: il vestituccio, la bombetta, le scarpette nere da ciclista, una vecchia chitarra, due paia di baffi finti, un naso di cartone. Lo stifelius, sdrucitissimo, impiccato alla stampella. Totò, maschera della ribalta, dormiva da sette anni nell’armadio. «A svegliarlo da quel lungo sonno non è stato facile — mi confessa Totò — perché il mio compagno di lavoro credeva addirittura d’essere morto come un personaggio della Commedia dell’Arte, Pulcinella o Arlecchino. Mi ha riso in faccia, come al solito, riconoscendomi, ed è saltato giù dall’armadio, sbadigliando, stiracchiandosi e allungando il collo. "Guarda chi si rivede, mi ha detto: ho saputo in sogno che sei diventato un divo del cinematografo, uno di quelli che non hanno mai bisogno del pubblico vivo che strilla ride fischia e applaude Totò nasce all’arte come un’antica maschera. L’abito del personaggio glielo impresta Napoli o, per meglio dire, glielo offre la miseria della sua città luminosa e disperata.

«Io devo tutto a Totò — mi confessa — e se non lo avessi incontrato un giorno, per la strada, e non lo avessi riconosciuto come il solo amico della mia vita, Dio solo sa quale sarebbe stato il mio destino. Cugino di Pulcinella, nipote di Arlecchino? Io non l’ho mai saputo, e ne hanno scritte tante a proposito di lui. Certo è, te lo posso assicurare, un buffone serissimo, il quale come tutti i buffoni che si rispettano maschera la ragione da follia e la follia da ragione».

1956 10 27 Settimana Incom Toto A prescindere f01A quattro anni Totò ebbe una smagliante divisa da marinaretto, confezionata in famiglia con pochi soldi.

1956 10 27 Settimana Incom Toto A prescindere f02A venti era soldato nel 22° fanteria, in Toscana. Risale a quei tempi la sua intramontabile battuta: «Siamo nomini o caporali?».

Il principe Antonio de Curtis quando parla di Totò si fa serio, quasi triste, la malinconia negli occhi e nella voce opaca. «Ne abbiamo passate insieme di tutti i colori. Mi disse, incontrandomi per la prima volta, di non perdere tempo, che avevo proprio la faccia che serviva a lui, e che lo avessi accompagnato, perché saremmo andati a morire di fame assieme. Io fui, insomma, il primo spettatore di Totò, come dire di me stesso. "Vedrai che il pubblico, alla fine, ci vorrà bene, perché gli faremo patire un sacco di piacere". Disse proprio il verbo "patire", quel buffone, ignorantissimo di filosofia come tutte le maschere, ma armatissimo di esperienze preziose, cioè a dire ricco di guai, di beffe subite, di appetito arretrato, esperienze che servono alla legge del contrasto comico. In fondo senza la miseria e le disgrazie non esisterebbe Pulcinella. Diceva infatti Petrolini al suo pubblico: "Vi pare una bella cosa ridermi in faccia? Vi rido in faccia io, a voi altri?". Dopo un brivido di dubbio, il pubblico scoppiava in applausi. E lui, il viso scemo e tonto, proseguiva: "Chi vuol ridere, vada fuori!"».

Come un'ombra

Antonio de Curtis è nato a Napoli in una strada dell’antico Rione Sanità. La sua prima esperienza teatrale avrà luogo a Roma nel lontano 1922. E a Roma sbarcò che lo seguiva, come un’ombra, Totò, la memoria piena delle rappresentazioni viste nei teatrini popolari della periferia napoletana e soprattutto con la memoria legata alle rappresentazioni umane che gli aveva offerto la sua città. Napoli è un palcoscenico all’aria aperta: teatro, poesia, letteratura, da secoli, fioriscono dalla verità della strada. Dramma e farsa, commedia e pantomima per lo più escono dal chiuso delle case, perché non possono mai fare a meno del «coro». Luna e sole fanno da riflettori all’immortale spettacolo di miseria e d'amore. La macchietta comica esce dall’ombra di un «basso», come una maschera, e la sua comicità ha ima sostanza fatta di pietà tragica. Fa ridere, cioè all'apparenza, ma dentro di lei sta acceso il fuoco vivo e bruciantissimo del «tragico quotidiano». E questa legge estetica la sapevano a memoria Salvatore di Giacomo, Matilde Serao, Eduardo Scarpetta. Dalla strada, più che dalle case, sgorga l’inesauribile fantasia ispirata della realtà d’arte napoletana. Non esiste infatti comicità senza umanità di paragone. Il riso, ce lo insegna Henri Bergson, è un gesto sociale. Ecco perché si ride dei vizi e delle virtù quando essi ci appaiono come una forma di meccanicità e sembrano dominare la persona in cui si incarnano. 

1956 10 27 Settimana Incom Toto A prescindere f031922: è nata la maschera di Totò. Al Salone Elena, allo Jovinelli, al Salone Margherita il nuovo comico suscita valanghe di ilarità.

1956 10 27 Settimana Incom Toto A prescindere f04La prima fotografia pubblicitaria esposta nelle vetrine della Sala Umberto dopo il successo. Totò assume la maschera del «viveur».

«Tutto quello che so fare — mi confessa Antonio de Curtis — me lo ha insegnato Totò che sapeva l’arte di guardare da vicino la verità della strada. Questo impareggiabile buffone ha uno sguardo come l’obbiettivo di una macchina fotografica». La maschera di Totò è saltata fuori dalla strada di un vicolo napoletano, come quella di Pulcinella, secco come un burattino, snodato come una marionetta di pezza, il collo di gomma, gli occhi di porcellana, il naso lungo e vero che sembra lunghissimo e finto, la pelle di gesso, la bocca tagliata come quella di un pupazzo di terracotta, cammina morbido, quasi a passo di danza allungata, toccando, se gli salta il ghiribizzo di fare una piroletta, con il mento le punte delle scarpe. 

Cagnara e pernacchie 

E’ un tipo che sta tutto nella verità del contrasto, ma che non vien giù dalle nuvole della fantasia, come Pulcinella, che senza la verità della sua miseria e dei suoi guai e delle batoste ricevute non sarebbe riuscito a significare nei secoli lo spirito disperato della comicità napoletana. 

Il primo ricordo della vita romana di Totò sta tutto in una notte di pioggia. Totò riesce a farsi scritturare come attore «straordinario» dalla compagnia comica diretta da Umberto Capece, la quale presentava i suoi spettacoli in un fetentissimo teatrino del Quartiere Prati, verso Borgo. Questo teatro si chiamava Salone Elena. Gli attori della compagnia affamatissima passavano dalla farsa al drammone, davanti ad un pubblico scatenato e spietato, fischi cagnara e pernacchie ad ogni papera. Gli attori affrontavano l’assalto degli spettatori con un coraggio da leoni. Spettatori che tacevano soltanto quando il dramma li legava alla commozione di sentimenti elementari, e dichiarati senza complimenti retorici. C’ era chi, addirittura, scoppiava a piangere singhiozzando ai lamenti di qualche orfanella rapita o di una madre purissima maltrattata da un bruto feroce. Il capocomico passava dal tragico al comico, da un giorno all’altro: dalla Cieca di Sorrento a Pulcinella. Totò, come attore «straordinario», non aveva diritto nemmeno ad un soldo di paga. La sera che osò domandare a Capece che gli fossero dati almeno i soldi del tram, quello lo mise alla porta. Ma la «maschera» era già nata, i primi lazzi, i primi frizzi, le mosse snodate, l’acrobatismo dei passi, dei salti, degli inchini. Inconsciamente, sentiva in sé che il pubblico cattivissimo del Teatro Elena ridendo di lui aveva già dato la sentenza. Uscendo, quella notte, dal teatro di Prati pioveva a dirotto. Nei pressi di piazza Cavour una «caldarostara» gli offrì gratis due castagne arrostite, perché lo riconobbe in «quello che faceva ridere al Salone Elena». «Ma lo sai che tu sei più bravo di Pulcinella. Domenica stavo in platea con i ragazzini e mia cognata e quando hai fatto "Don Ciccillo" ci siamo schiattati dalle risate. Avevamo tutti le lacrime agli occhi dal ridere. Insomma, te possino, piagnevamo ridendo». 

1956 10 27 Settimana Incom Toto A prescindere f05L'attore abita al secondo piano di una bella casa in Via Bruno Buozzi. Il pappagallo Gennaro e Dick, un lupo di quattordici anni, si permettono libertà consentite soltanto a vecchi amici. In questi giorni Totò ha iniziato la lavorazione di un nuovo film.

1956 10 27 Settimana Incom Toto A prescindere f06Un angolo del salone centrale di casa de Curtis. La porta immette in un salotto camera da pranzo. I pavimenti sono di marmo decorato. I mobili appartengono, nella maggior parte, al secolo XVIII.

Roma seguitava ad essergli nemica. Riuscì per alcune sere a lavorare al Teatro Diocleziano. Un altro comico, geloso, lo fece mettere alla porta. Uscendo, quella sera, non trovò più chi gli regalasse due castagne arrostite. Totò, come Petrolini, imporrà la sua maschera nel vecchio Teatro Jovinelli a piazza Guglielmo Pepe. E affronterà finalmente da solo il pubblico, in obbedienza, se si può dire, al suo stabilito personaggio nelle sue interpretazioni variate. In quel teatro si attruppava la Roma scanzonata e perentoria dei bulli. Nella piazza schiumava la malavita, dove tirava ima aria di fiera, tra urli e richiami di venditori ambulanti e di giocatori di bussolotto. I ladri erano di casa, il coltello in saccoccia, come ai tempi di Gioachino Belli.

Una grossa baracca

Il proprietario del Teatro Jovinelli era nato a Caiazzo, nella provincia di Napoli, e non aveva paura nemmeno del demonio. Pareva un gigante e tutto il rione lo rispettava dal giorno in cui ridusse come una pecora «er più» di piazza Guglielmo Pepe, che si chiamava Giacomo il Frascatano, ultimo discendente di Meo Patacca, padre adottivo di quello che sarà, domani, «Nino er bullo» di Petrolini. Da quel teatro spiccheranno il volo, a Roma, Viviani e Petrolini, Armando Gill e Pasquariello. Peppino Jovinelli dirigeva la sua grossa baracca con arie di tiranno. Agli attori del varietà che arrivavano in ritardo poteva pur capitare quello che era successo a Gustavo de Marco; rimproveri severi con accompagnamento di sganassoni. 

Jovinelli indovinò per primo, a Roma, la «maschera» di Totò. E in quel teatro fu decretato il riconoscimento da parte di un pubblico greve ed esoso al quale, per farlo ridere, secondo una frase di Petrolini, «bisognava dare delle selciate in testa». Eppure Totò, mingherlino, denutrito, uomo di gomma, nel suo abituccio esoso, scatenò il successo, un’ira di Dio di applausi e di risatacce. 

Una sera che il Teatro Jovinelli doveva ospitare un incontro di boxe, il robusto impresario volle che Totò stabilisse in allegria il preludio della serata sportiva che si annunciava alquanto movimentata. E Totò obbedì all’impresario, improvvisandosi boxeur, in una pantomima con un autentico campione di pesi medi che si chiamava Antonio Ferretti. Tra smorfie, salti, giravolte, capriole, Totò, un po’ scherzando e un po’ facendo sul serio, riempì il viso del vero boxeur di ben assestati pugni. Alla fine dell’incontro scherzoso Antonio Ferretti andò in bestia, e mentre il pubblico scoppiava in una cagnara d’inferno ridendo a tutto fiato, cominciò a correre appresso a Totò che, come in volo, raggiunse a gambe levate la Direzione del teatro, inseguito da Ferretti inferocito. Qui don Peppe Jovinelli lo salvò dalle ire del vero boxeur mentre nella sala il pubblico invocava Totò. La realtà aveva suggerito la pantomima. Il boxeur vero era diventato finto, nella sintesi di una beffa scenica. 

Totò, come Pulcinella, obbedisce ad uno spirito di espressione fatto di timidezza e di innocenza fasulla. La stupidaggine tonta a difesa dall’ira dei beffati. Il contrasto della maschera comica sta tutto per lo più tra la piccolezza di chi lancia la beffa e la grandezza di chi la subisce. L’acrobatismo è scivolante, di una lucertola; o sincopato, meccanico, come quello che Totò userà più tardi in ima rivista ridicolizzando le movenze di un direttore d’orchestra, mani e piedi come bacchette che martellano il vuoto. 

Gli applausi raccolti al Teatro Jovinelli significavano un successo di periferia. Ma era un esame di laurea, a quei tempi, poiché la comicità si manteneva ancora ferma al dogma classico. Cioè a dire non era una comicità schiava di umorismo sbiadito, come quella che più tardi servirà i finti comici del tempo nostro; comicità di sostanza e non di sottintesi. 

Un piccolo e arguto barbiere che si chiamava Pasqualino e che apriva la sua bottega in via Frattina riuscì a far salire le tavole del palcoscenico della Sala Umberto a Totò. In quegli anni il teatrino di via della Mercede rappresentava il «varietà» numero uno di Roma, unitamente al Salone Margherita. Programmi selezionati. Nelle barcacce i soci dei circoli aristocratici della capitale e ufficiali di cavalleria. Applausi avari, perché quel pubblico aveva il gusto difficile, anche quando sulla scena apparivano Ettore Petrolini, Pasquariello, Lidia Johnson, Raffaele Viviani, Odoardo Spadaro, Molinari, Edmond Guy, Anna Fougez. 

Come una scimmia 

La miseria di Totò stava dignitosamente nascosta sotto un cappotto. Pantaloni con i fondelli sfilacciati. I soldi del contratto con Jovinelli serviranno a comprare finalmente un abito nuovo, il quale somiglia all’abito della maschera: giacca nera bordata di raso, pantaloni a righe, bombetta e colletto altissimo. 

Il pubblico snob della Sala Umberto dà ragione a Totò, come quello dello Jovinelli, e Totò ritornerà più tardi nella sua città natale sicuro di sé e della sua virtù. I comici napoletani lo aspettavano, diffidenti, alla prova. Se per far ridere i romani ci vogliono le selciate in testa, per far sorridere i napoletani occorre il fuoco del Vesuvio. Il figliol prodigo prende d’assalto il suo pubblico fino dalla prima sera arrampicandosi come una scimmia in cima al velario, Pulcinella acrobata, in volo come un gabbiano del golfo, sciogliendo le sue movenze in una scatenata girandola di lazzi, smorfie, fughe, contorsioni, rimbalzando sulla ribalta come un fantoccio di gomma, improvvisando motivi che non sono nel copione, battute, contrasti di parole sul filo di un realismo comico che obbediva al dogma classico della natura partenopea. In quegli anni Totò reciterà al fianco di Titina de Filippo in una commedia di Eduardo Scarpetta, O balcone e' Rusinella. Eduardo, asciuttissimo, moveva i primi passi della sua carriera. Una mattina Totò se lo vede venire incontro per una stradetta napoletana vestito da gran signore, con una pelliccia che gli arrivava ai piedi. Totò si avvicina ad Eduardo de Filippo e lo ammira. La pelliccia gli piace moltissimo. E’ stato sempre un suo sogno possedere un cappotto foderato di pelo. Ma Eduardo non è disposto a venderlo. L’ha comprato, «sulla fiducia», da una famiglia in lutto. Pagamento a rate. La pelliccia è la sola cosa che hanno ereditato in quella famiglia. A costo di qualunque sacrificio Eduardo pagherà la pelliccia del morto. Totò offre ad Eduardo cinquecento lire, pagamento a rate. Ma Eduardo rifiuta e si allontana con aria altera nella pelliccia del defunto che gli arrivava ai piedi. «Visto di spalle, Eduardo, quella mattina, pareva un armadio che camminasse», dice Totò rievocando l’incontro. Eugenio Aulicino, impresario del Teatro Nuovo a Napoli andava dicendo: «Chisto Totò farà ridere pure ’e nire» (Questo Totò farà ridere pure i negri!).

A guardarlo vivere da vicino nel segreto della sua vita domestica, Totò appare malinconico. Non si diverte con se stesso e con la sua istintiva filosofia napoletana. «Io so a memoria la miseria — mi diceva — e la miseria è il “copione” della vera comicità. Non si può far ridere se non si conoscono bene il dolore, la fame, il freddo, l’amore senza speranza, la disperazione della solitudine di certe squallide camerette mobiliate alla fine di una rappresentazione in un teatrucolo di provincia, la vergogna dei pantaloni sfondati, il desiderio di un caffè e latte, la prepotenza esosa degli impresari, la cattiveria del pubblico senza educazione, insomma non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita, saltando a piedi pari la staccionata dell’incomprensione e dell’invidia».

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1956 10 27 Settimana Incom Toto A prescindere f08La cravatta a pois ha bisogno di un ritocco.

Cane e pappagallo

Antonio de Curtis ritorna oggi al teatro come ad un appuntamento. «Vedi, è come se Totò, quello del Teatro Jovinelli e del Nuovo, si fosse stancato di aspettarmi. Sono passati sette anni dall'ultimo applauso vivo della ribalta e gli pare un secolo». 

Nella sua bella e luminosa casa di viale Bruno Buozzi Antonio de Curtis ha ripreso le vesti del suo personaggio teatrale. «Grazie a Dio, ritorno a lui che non sono più il poveraccio di una volta. Per farmi riconoscere e per farmi scusare dopo questi sette anni di abbandono è bastato che gli dicessi: "Senti, Totò, alla fine di novembre ritorniamo davanti al pubblico che si vede e che si sente respirare, da vicino"».

Alle segrete prove di Totò assistono Dick, il vecchio cane lupo, e Gennaro, il pappagallo. Qualche volta Gennaro fa il verso a Totò come uno spettatore dispettoso. La rivista che Remigio Paone metterà in scena alla fine di novembre a Roma porterà la firma di Nelli e Mangini. Totò va scrivendo alcune scene dello spettacolo. Da due mesi vive come in una febbre di entusiasmo. Scrivendo, provando, recitando da solo aspetta l’alba. «Mi sono messo in testa di trasferire nella comicità un personaggio tragico del teatro classico». E mi recita la scena, sollevandosi agilissimo, un gatto, e il personaggio della tragedia salta fuori massacrato dall’arguzia, battute e smorfie, pirolette e ritmo, voce che sembra accordarsi al testo nella trasposizione buffissima del significato e dello spirito.

L’impresario Remigio Paone che aveva giurato a se stesso di non ritornare alla sua fatica è stato vinto dal gran richiamo di Totò. E farà le cose in grande. Al fianco di Totò saranno Franca May, che ha già dato ottima prova di sé nella compagnia scarpettiana, ed Yvonne Menard delle Folies Bergère, Enzo Turco sarà il compagno «di spalla» di Totò. Coreografie di Gisa Geert e costumi di Folco.

Fabrizio Sarazani, «La Settimana Incom Illustrata», anno IX, n.43, 27 ottobre 1956


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Fabrizio Sarazani, «La Settimana Incom Illustrata», anno IX, n.43, 27 ottobre 1956