Tuttototò, la sua ultima parte fu quella del capellone

Totò Franca

1967 04 30 Radiocorriere intro

Da questa settimana va in onda alla televisione il programma a puntate che Totò aveva appena finito di registrare: un’antologia del suo umorismo. I registi di «Tutto Totò» ricordano in queste pagine l’attore col quale hanno lavorato nell’ultimo spettacolo d’una vita tutta dedicata al pubblico


Roma, aprile

«Vorrei tanto fare del teatro, del buon teatro. Ho in mente una commedia, manca solo il terzo atto. Il finale è sempre il più difficile. Ma tu credi che sia possibile fare del teatro?»

«Certo, Totò. Tu devi solo scegliere un grande testo, trovare la complicità di un grande autore degno della tua fantasia. Molière, ecco. Perché non provi con Molière? C'è un curioso personaggio, Monsieur Jourdain, nel Borghese gentiluomo. Credo che nessuno l’abbia mai fatto bene. Tu puoi reinventarlo. Ti piacerebbe?»

«Certo, Molière... Ma io avrei in mente una commedia mia... ».

«Perché non la scrivi, allora?»

«Sono vecchio, ho perso molto tempo. Molière, tu dici? Eh, già... ». Se ne andò con il suo impermeabile chiaro e corto, di taglio inglese e con un sorriso grigio e melanconico. Anzi, sull'uscio ci regalò un suo lazzo imprevedibile che volle subito ricacciarsi in gola, come vergognandosene. Aveva ancora una lieve traccia di cerone sul viso, perché voleva tornare presto a casa, si sentiva un po’ stanco, aveva lavorato con noi per circa sei ore al Teatro delle Vittorie, intorno a uno sketch che doveva completare il programma televisivo Tutto Totò. Rimanemmo io, Lanfranchi, Gianni Agus, che gli aveva fatto da « spalla » per tutto il pomeriggio assieme a Mario Castellani, e qualche operaio.

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Lunedì 10 aprile

Vi fu chi si ricordò subito di spegnere le luci cosicché lo studio fece ancora a tempo ad assumere l’aria un poco livida e spettrale delle case appena abbandonate.
«Allora, siamo alla fine », mormorò Mario Lanfranchi che aveva prodotto insieme a me il programma.
«Già, abbiamo dato "l’ultimo colpo di manovella". Dopo quasi un anno ».
«Ti è parso stanco Totò?» «Averne, di comici della sua tempra. Ma lo hai visto. Per quattro ore ha inventato " gag ", lazzi, battute... che forza».

Totò era arrivato in studio alle 14,30 di lunedì 10 aprile, e si era subito chiuso con noi in un camerino per ripassare la parte, per «farsela dire». Il regista della trasmissione Daniele D’Anza era impegnato a Napoli e non poteva «girare» quest'ultima scenetta; d’altra parte era indispensabile registrarla perché — diceva sempre Totò — altrimenti non si fa più in tempo.

«I giorni passano, uno dopo l'altro, e non si fa più in tempo, chiaro, ragazzi?». Allora Lanfranchi ed io eravamo lì, per dare una mano al nostro grande amico, per godercelo finalmente da soli. Alle 16 Totò ci apparve truccato da «capellone»: era bellissimo, riusciva ad avere una sua grandiosità anche con la zazzera. Era il re dei « capelloni », non aveva nulla di ridicolo, di goffo, di trasandato: riusciva a mantenere una dignità quasi assurda. Nessuno rise, nel vederlo. Poi, di colpo, Totò si avvicinò al tavolo del commissario di P.S., inventando lì per lì una camminata legnosa, incredibile. Pietrificò di colpo la macchietta in un simbolo: e tutti ridemmo come pazzi, con Totò che continuava a camminare in un modo sempre diverso, e sempre più in fretta. Poi si fermò, come se il giocattolo si fosse scaricato, si sedette, e ci chiese di poter fumare una sigaretta. Con la giacca gialla, i pantaloni rossi, la parrucca a boccoli, non era Totò: era un signore di passaggio, che non ci apparteneva più, venuto tra noi per caso. E fu senza sorpresa che vedemmo gli operai che si appartavano per lasciarlo solo, al centro di un finto commissariato di pubblica sicurezza, e nessuno parlò più sino a che Totò non buttò via la sigaretta.

«Ma farò ridere?»

Si riprese a lavorare e mi scoprii a guardarlo con soggezione: mi ridevo addosso, ma quel «mento deragliato», quella faccia pallida ed aristocratica, quelle mani lunghe e trasparenti, mi davano timore. Ogni tanto Totò si fermava dubbioso, guardava me e Lanfranchi e diceva: «Ma farò ridere?». Poi, senza aspettare risposta, riprendeva a provare, buttando via gli effetti logori e consunti per inventarne di freschi e guizzanti.

«Ma farò ridere?». Fu la prima cosa che ci disse quando lo invitammo a presentare in TV una grande antologia del suo repertorio. «Voi pensate che farò ridere», sussurrava rifiutando lo «champagne» che avevamo messo in ghiaccio per lui, per fargli festa, come si fa a Capodanno. «A me la televisione fa paura. Io la vedo sempre e rido poco. Voi pensate che la gente si divertirà con me?».
Noi lo guardavamo stupiti, con le coppe di «champagne» in mano che erano quasi bollenti. «Ma come, Totò. Basta che ti vedano... Ma ti rendi conto che sei Totò!». «Sarà», e scuoteva la testa, incredulo.

Ricordo benissimo il giorno, era un sabato e Totò entrò, accompagnato dal fedele Edoardo Clemente, suo segretario, e da Mario Castellani, la sua «spalla». Guardò i nostri uffici con tenero sospetto, lodò i mobili e disse subito: «Queste sono le case che amo. Vecchie: muri solidi, soffitti alti, bella carta alle pareti». E si avvicinò ai muri per toccarli, per annusarli: ci batté sopra le nocche e ascoltò con estasi l’eco fonda e un poco sorda.
Combinammo abbastanza rapidamente, perché Totò aveva voglia di far TV, pur covando uno strano rancore per il piccolo schermo («Ci si brucia, mio caro, ci si brucia. E’ un rogo: e poi, che si fa, eh? »).

Gli ultimi nove minuti

Prima della firma del contratto, Lanfranchi ed io, gli chiedemmo di farci lì, su due piedi, il famoso sketch del «wagon-lit». Non si fece pregare: c’era Castellani e, come ripescando in cose remote, lo tirò fuori dalla memoria, si alzò, ce lo fece tutto, così com'era vestito con un elegante doppiopetto scuro, una bella camicia di seta, e l’aria disattenta di chi fa un gioco per gli amici.

«Scusatemi, ma senza bombetta... ». Rimase con noi sei mesi, girò quasi nove ore di spettacolo e gli ultimi nove minuti, lunedì 10 aprile, al Teatro delle Vittorie, alle ore 19,15. Vestito da «beatnik».

«Ma tu pensi che lo farà davvero Molière?»
«Me lo auguro. Sai cos’è sempre stato il suo sogno? Fare Don Chisciotte»
«Quanti anni ha?»
«Giovane: è sotto i settanta. Ha ancora cinque anni buoni per lavorare sodo».
«Tu lo hai visto Petrolini?»
«No».
«Non ti è parso un poco affaticato?»
«No»
«Certo che oggi...».

Ci avviammo all’uscita con la speranza di incontrare Totò per la strada. Volevamo dirgli di andare a cena insieme.

«No. Non ci sarebbe venuto. Mangia così poco... E poi sta a casa volentieri».
«A che ora ci vediamo domani? Dobbiamo preparare gli ultimi “ titoli di testa ”».
«Alle nove, va bene?».
«Ah, senti. Perché non fissiamo tra qualche giorno una “ visione ’’ per Totò del materiale girato. Pensa che non ha ancora voluto vedere niente...».
«Non c’è fretta. Ne riparliamo».
«Buona notte!».
«Buona notte».

Sandro Bolchi, «Radiocorriere TV», anno XLIV, n.18, 30 aprile - 6 maggio 1967


Il Piccolo
Sandro Bolchi, «Radiocorriere TV», anno XLIV, n.18, 30 aprile - 6 maggio 1967