L'antenato che Totò non poté comprare

Totò antenati

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Il famoso comico nel 1961 si rivolse al Comune di Cava de' Tirreni per ottenere il dipinto di Camillo de Curtis che figura nel grande salone del palazzo municipale. La risposta fu negativa: Cava non volle vendere e così il quadro di Camillo de Curtis è rimasto lì dov’era da più di quattrocento anni

Può capitare a tutti, anche ad un prìncipe della risata che di per se stessa fa buon sangue, di sobbalzare dinanzi alla propria immagine ritratta quattrocento anni prima. Tale dovette essere la sensazione provata da Antonio De Curtis, molto più noto col nome d'arte di Totò, nell’osservare la foto del dipinto di Camillo De Curtis che domina tuttora i banchi dell'aula consiliare di Cava de’ Tirreni.

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Nella foto in alto: il famoso quadro di Camillo da Curtis che domina nella sala consiliare dal Comune di Cava de' Tirreni. Nel 1961 il principe attore Totò de Curtis, tramite l'Istituto storico araldico genealogico internazionale con sede in Roma, chiese di acquistarlo, ma il Consiglio comunale gli oppose un cortese rifiuto per non sguarnire il patrimonio culturale della cittadina.

Ed è davvero straordinaria, perfino nel segno della mascella attutita dalla barba, la somiglianza dell'attore con questo suo presunto antenato cavese designato alla fine del '500 da Filippo II a presiedere la Somma Regia Camera. Altrettanto illustre era il titolo paterno di vice Protonotario e consigliere aulico del viceré don Pedro Alvarez de Toledo, rievocato da Pietro Giannone nella sua «Istoria civile del Regno di Napoli» con questo avventuroso episodio: «Nei tumulti accaduti nel 1547 poco mancò che Giovan Andrea de Curtis fosse tagliato a pezzi insieme con i suoi. Poiché vide la città in rivolta deliberò uscirne con la famiglia. Il che saputosi dai popolari, i quali lo conoscevano partigiano del Viceré di Toledo, gli corsero furiosamente dietro e benché si fosse ricoverato in un convento di frati, ruppero le porte e fecero violenza ai monaci affinché lo consegnassero. Ma essi costantemente negando e affermando essersi già salvato, i popolani dopo aver spiato tutti i nascondigli del convento rabbiosamente corsero fino a Torre del Greco, e la famiglia sarebbe stata trucidata se gli abitanti del luogo, con le armi, non avessero represso il loro furore».

Anche senza titoli nobiliari, rivendicati peraltro altrove con il trono di Bisanzio e il Principato di Costantinopoli, questi precedenti storici bastavano da soli a sollecitare l’ambizione araldica di Totò. Tanto più che avrebbe potuto esporre in cornice non il solito diploma aristocratico, ma addirittura l'effigie di una discendenza vicereale, più che mai verosimile perfino nei tratti somatici.

Una mania inguaribile, come la descrive argutamente Vittorio Paliotti nel suo bel libro «Totò principe del sorriso» (editrice Fiorentino): «Le vecchie pergamene, colme di grafia svolazzante, di ceralacca, di timbri e di annotazioni, giacevano là, nella cassaforte accanto al letto a baldacchino, ma Totò era lietissimo di esibirle a chiunque andasse a fargli visita; come pure cercava a tutti i costi di mettere in evidenza pur senza darsene le arie, l’anello d'oro massiccio che gli ornava il dito mignolo e sul quale un artigiano di buona scuola aveva inciso il suo stemma di famiglia: un'araba fenice che guarda il sole nascente sotto le colonne d'Ercole, la mezzaluna e tre stelle, simboli di una nobiltà che risaliva al 362 avanti Cristo. In realtà Totò fin dall'adolescenza, forte di un titolo che competeva a suo padre Giuseppe De Curtis, aveva testardamente vantato l’origine nobile della sua famiglia, e questo accanimento va spiegato col fatto che lui, solo dopo che ebbe raggiunto la maggiore età, venne regolarmente legittimato».

Fu cosi che nel 1961, all'auge della carriera artistica e nobiliare, e sei anni prima della sua morte, il principe Totò de Curtis si rivolse al Comune di Cava per ottenere il dipinto dell'omonimo Camillo. Lo fece attraverso una richiesta intestata dall’Istituto storico araldico genealogico internazionale con sede a Roma e indirizzata al segretario comunale dell’epoca. «Gentilissimo signor Russolillo — era il testo della missiva in data 8 gennaio 1961 e firmata da L. Pelliccioni di Poli — cosi come siamo rimasti d'accordo l’ultima volta che sono passato per Cava, la prego di voler far mettere in discussione al Consiglio comunale la proposta del Principe de Curtis per l’acquisto del quadro del suo avo esistente nel salone del Comune». Ma il Consiglio comunale presieduto dal sindaco Eugenio Abbro ritenne di non aderire alla richiesta, e ciò unicamente per salvaguardare il patrimonio culturale della città.

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In questo fotomontaggio, Augusto Mastrolilli ha accordato di quattro secoli la distanza... fisionomica di Totò de Curtis e il suo presunto avo Camillo de Curtis. grazie anche al trucco della barba. La straordinaria rassomiglianza fra il principe-attore e il notabile cavese, presidente dell Somma Regìa Camera del vicereame di Napoli, appare incredibilmente vera nella penultima immagine di Totò che precede l'austero ritratto fine-cinquecentesco di Camillo.

La tentazione araldica di Totò si rivolse allora, tramite i buoni uffici del medesimo intermediario, alla stele marmorea del Magnifico Leonetto De Curtis, morto da guerriero nel 1480 e sepolto nella chiesa di S. Arcangelo. L’omonima frazione di Cava confina con quella altrettanto illustre e forse più antica de «Li Curti», che prese nome dal rustico palazzo fortificato dai De Curtis e la cui origine ricorre in un primo documento normanno del 1121.

Con un’ipotesi genealogica molto discutibile per le contraddizioni storiche delle date, si ritiene che la famiglia cavese provenisse da Baldovino li de Courtenay venuto al seguito di Carlo d'Angiò, ma sembra più attendibile il riferimento antecedente, addirittura di epoca longobarda, dei nomi di Atenolfo, Landolfo e Romualdo «qui dicitur De Curti».

Più che plausibile era dunque l’interessamento di Totò per il bassorilievo di Leonetto de Curtis, discendente diretto dai capostipiti longobardi del casale «Li Curti», che è dominato tuttora da quel palazzotto in rovina a forma di castello, il cui portale medioevale sopravvive fra i polli di un’eredità dispersa.

Al canonico Raffaele Di Mauro, parroco della chiesa di S. Arcangelo, nella primavera del 1961 l'intermediario araldico del Principe de Curtis offrì un lascito di vari milioni e la donazione del pavimento nuovo della chiesa con la riproduzione fedele dello stemma dell’antico casato: tre stelle con la mezzaluna sulle tre bande inferiori dello scudo.

Lo stesso emblema spicca tuttora sul portale settecentesco del palazzo edificato sui portici nel centro di Cava e sulla lapide funeraria nella chiesa di S. Maria dell'OImo al Borgo di Cava con questa bella iscrizione latina: «Quelli che sono vissuti nella stessa casa e che la morte ha separato, rivivranno insieme nella pace del Signore». Più che la tentazione beneficiale per la sua chiesa di campagna, forse fu proprio il senso nobile e ammonitore di questa epigrafe a suggerire il gran rifiuto del canonico Di Mauro.

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La stele marmorea di Leonetto de Curtis, morto da guerriero nel 1480, e sepolto nella chiesa di S. Arcangelo, in una delle frazioni di Cava de' Tirreni che sorge ai piedi dei palazzotto a forma di castello detto «Li Curti». Era questo il primitivo feudo della famiglia de Curtis dalla quale discendeva il presidente della Somma Regia Camera, Camillo de Curtis, la cui effige aveva attirato l'attenzione di Totò. Dopo il diniego del consiglio comunale di Cava, il principe-attore si era rivolto al canonico della chiesa di S. Arcangelo per ottenere la stele marmorea del guerriero Leonetto de Curtis in cambio di un congruo lascito. Ma anche in quell'occasione Totò ricevette un cortese rifiuto. E cosi il riposo del guerriero, suo presente antenato, non venne turbato nella pace dell'antica chiesa, mentre il vecchio castello è andato sempre più in rovina e oggi sopravvive soltanto il pregevole portale d'epoca.
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Era il supremo sgarbo al Principe della risata, oltre che di Bisanzio, Di Costantinopoli, di Cilida, di Tessaglia, di Ponto, di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso e cosi via. Nemmeno con la carità cristiana di moderno feudatario, Totò era riuscito a fregiarsi delle uniche insegne decorative che attestassero visibilmente una discendenza diretta con il proprio passato. Un’eredità magari senza lustri nobiliari, ma riverita con solenni encomi regali. In entrambi i casi l’orgoglio civico di Cava vi si oppose.

E oggi, a vent'anni di distanza, il principe Antonio De Curtis, detto anche familiarmente Totò, riposa in pace a S. Maria del Pianto con i suoi titoli nobiliari acquisiti, mentre le effigi di Leonetto e Camillo de Curtis vegliano ancora sulle rispettabili spoglie dell’antico casato. E lo stemma scavato nella pietra di marmo adorna tuttora il maestoso portale di palazzo Della Corte, che si affaccia da meno di due secoli sul filare dei portici immutabili di Cava.

F.S.,«Il Mattino Illustrato», anno IV, n.15, 12 aprile 1980


Il Piccolo
F.S.,«Il Mattino Illustrato», anno IV, n.15, 12 aprile 1980