Macario Erminio

Noto semplicemente come Macario (Torino, 27 maggio 1902 – Torino, 26 marzo 1980) è stato un popolare attore e comico italiano di teatro, cinema e televisione.

Considerato dai critici come l'inventore del cinema comico italiano[2][3][4], nella sua lunga carriera ha lavorato a oltre cinquanta spettacoli teatrali tra teatro di varietà, riviste, commedie musicali e spettacoli di prosa. Raggiunse presto il successo e lanciò numerose soubrette. Prestò la sua maschera oltre che al cinema anche alla televisione, adottando spesso il piemontese per i suoi personaggi e le sue macchiette.

Macario è ricordato, oltre che per la propria indiscussa bravura, anche per il caratteristico ciuffetto di capelli svolazzante, adottato dopo che un altro grande del teatro di rivista - Ettore Petrolini - gli sconsigliò di ricorrere, come fino ad allora faceva, a parrucche e nasi finti con l'intento di far ridere. Macario prese in parola il maestro: smise gli orpelli e, forte di un volto naturalmente regolare ed ovale, aggiunse il tocco che lo avrebbe reso indimenticabile.

Biografia

L'esordio

Macario ebbe in comune con i grandi comici suoi contemporanei tre caratteristiche: la precocità, l'indigenza familiare e la vocazione.

Nato da una famiglia molto povera, il piccolo Erminio inizia a recitare fin da bambino nella filodrammatica della scuola, presto interrotta per lavorare ed aiutare la famiglia. Fra un mestiere e l'altro, a 18 anni, nel 1920, entra in una compagnia di "scavalcamontagne", termine con cui erano definite nel piemontese le formazioni di paese che rappresentavano drammi e farse nei giorni di fiera ed affronta il suo primo vero pubblico, esordendo su un palco di paese, presso Belgioioso in provincia di Pavia.

Nel 1921 il debutto ufficiale nel teatro di prosa. Nel 1924 passa a quello di varietà, con una scritturazione nella compagnia di "balli e pantomime" di Giovanni Molasso.[5] Il suo debutto con il ruolo di "secondo comico" fu al Teatro Romano di Torino con le riviste Sei solo stasera e Senza complimenti. Dal settembre 1924, fu poi a Milano con Il pupo giallo e Vengo con questa mia di Piero Mazzuccato, seguite nel 1925 da Tam-Tam di Carlo Rota e Arcobaleno di Mazzuccato e Carlo Veneziani. Per Macario, oltre che un salto di professionalità, è stata l'occasione per apprendere e sviluppare la sua naturale inclinazione all'arte mimica. Il suo fisico esile e la naturale scioltezza nei movimenti contribuiscono a far pensare che l'anno con Molasso abbia consegnato alla scena italiana un potenziale mimo, che potrebbe dirsi di scuola francese.

Gli anni venti

Macario, prima che un mimo tuttavia, intendeva essere un comico. Il primo, grande salto in tal senso lo fa nel 1925, quando la famosissima soubrette Isa Bluette lo nota e lo scrittura nella sua compagnia come "comico grottesco". Il giovane comico piemontese entra dunque nel "giro buono" del teatro italiano, esordendo nella sua Torino con Valigia delle Indie, di Ripp e Bel-Ami (pseudonimi di Luigi Miaglia e Anacleto Francini).[6]

Gradatamente Macario costruisce una comicità personale, fatta di una maschera clownesca le cui caratteristiche più appariscenti erano un ciuffo di capelli sulla fronte, gli occhi arrotondati e la camminata ciondolante. Ma intuisce anche che il successo di uno spettacolo dipendeva soprattutto nella presenza sulla scena di donne avvenenti e soprattutto dalle gambe lunghe. Il comico era ben consapevole dell'efficacia del contrasto tra il candore e la semplicità della propria maschera e il sottinteso erotico delle belle soubrettes che lo affiancavano sulla ribalta, sfilando vestite in maniera "minimale", in una nuvola di cipria e di felicità per la gioia degli sguardi del pubblico.

Macario rimane con Isa Bluette per quattro anni, acquistando via via sempre maggior notorietà e guadagnandosi prima il titolo di "comico" e finalmente il nome "in ditta" (1929). Sempre nel 1929 firma la sua prima rivista come autore, Paese che vai, in collaborazione con Enrico M. Chiappo.

Il "Re della rivista"

Nel 1930 si sente pronto per un altro importante passo: la fondazione di una sua compagnia teatrale, con la quale girerà l'Italia dal 1930 al 1965. Tranne qualche escursione nell'avanspettacolo, la compagnia di Macario rimarrà una delle compagnie di rivista più longeve del teatro italiano, con i suoi trenta anni di attività. Nel 1936 lo troviamo insieme ad Hilda Springher ed Enzo Turco in una serie di riviste di Bel-Ami e va in scena anche al Teatro Reinach di Parma. Nel 1937 scrittura Wanda Osiris, con cui costituisce la coppia più famosa degli spettacoli di genere. Sarà proprio la coppia Macario-Osiris a mettere in scena una delle prime commedie musicali italiane, Piroscafo giallo, di Macario, Ripp e Bel-Ami.[7]

A partire dal 1937 Macario ogni anno presenta una nuova rivista con sempre nuove fanciulle, tra cui attrici bellissime e brillanti (che scrittura in sostituzione delle ballerine, nel tentativo di innovare il genere). Tra le tante attrici lanciate da Macario si ricordano Tina De Mola, Olga Villi, Isa Barzizza, le sorelle Nava (Pinuccia, Diana, Lisetta e Tonini), Elena Giusti, Lily Granado, Marisa Maresca, Lauretta Masiero, Dorian Gray, Flora Lillo, Marisa Del Frate, Lucy D'Albert, Valeria Fabrizi, Sandra Mondaini e Lea Padovani, apprezzate in seguito come attrici cinematografiche.[8]

Nel 1938 nasce il grande amore per la bellissima sedicenne Giulia Dardanelli, che ben presto diventa la sua seconda moglie (il comico era già sposato da tempo con la coreografa Maria Giuliano, ma fece di tutto per ottenere il divorzio). Nel 1951, a Parigi, Macario e la Dardanelli si sposano in occasione della rappresentazione della rivista Votate per Venere. Intanto, dalla loro unione erano già nati due bambini, Alberto (1943) pittore, artista visivo, attore e scrittore, e Mauro (1947) che diverrà regista, poeta, scrittore (nonché biografo del padre).

Grazie alle sue rilevanti doti sceniche e mimiche, ad una comicità giocata sul clownesco e sul nonsense, e alla presenza di un sempre sostenuto numero di procaci e sfavillanti soubrettes, in breve tempo Macario diventa il protagonista più famoso della rivista italiana, tanto da essere consacrato come il "Re della rivista".[9] I suoi spettacoli, a parte la sua comicità, restano esemplari per la ricchezza delle scene, i costumi sfarzosi, le musiche brillanti e soprattutto per il numero di gambe femminili (sempre raddoppiato) che costituivano il suo corpo di ballo. Ciò che colpiva lo spettatore in misura maggiore era senz'altro quella sorta di miscela di sensualità e comicità farsesca, dai contorni spesso astratti e surreali, di cui sono sempre stati intrisi i suoi spettacoli.


Macario: un nome, un programma

Rare volte un cognome si è tanto bene adattato all’uomo. Se Macario avesse dovuto scegliersi un nome d’arte, molto probabilmente si sarebbe fatto chiamare Macario. Non lo sentite? È un nome involontariamente buffo, sempliciotto e borghese impacciato e provinciale. Figura così bene fra i nomi dei protagonisti di storie per bambini (Pampurio, Petronilla, Arcibaldo...) che un bel giorno Manca ideò per le tavole illustrate del Corriere dei Piccoli le avventure di Macario. Ecco, sì: è un nome da pupazzetto. E, d’altronde, a guardarlo attentamente, Macario è un po’ un pupazzo. Il suo ricciolino laccato, i suoi occhi porcellanati, le sue guance disperatamente vermiglie, il suo sorriso a taglio di melograno, i suoi cappellucci instabili, le sue brache fluttuanti, i suoi piedoni squinternati, sono quelli d’un pupo: e c’è qualcosa d’infantile nelle attonite incertezze della sua dizione, persino nelle sconcertanti perplessità delle sue pause.

1939 Macario 00 L

In verità, Erminio Macario adora i bambini. Non parliamo dei suoi, pei quali riesce addirittura a trovare accenti di tenerissimo lirismo; ma tutti i bambini lo attraggono e lo incantano. E tuttavia non si effonde a prodigar loro carezze e moine: no. Resta lì, davanti a loro, immobile, affascinato, con l’ombra di un sorriso estatico sulle labbra mute e una luce di ebbrezza quasi mistica negli occhi inumiditi: come se si trovasse di fronte a un miracolo. Non sapremmo dire se egli, l’infanzia, l’ha studiata, certo — in forza, evidentemente, di quella sua sconfinata adorazione — qualcosa dell’infanzia è entrata in lui. Così, la sua personalissima comicità si direbbe foderata di puerilità. Anche quando dice cose enormi — e Dio sa se ne dice — esse gli escono di bocca con lo svagato candore dell’infanzia. Forse è questo l’inimitabile segreto della sua arte, anche se non è quella l’arte di cui Macario ha tanto sognato e ancora sogna. Kean, ovveros-sia Genio e Sregolatezza, Cyrano de Bergerac, la Morte civile, Amleto, Il romanzo di un giovane povero... Ecco il repertorio che « Maca », in gioventù, avrebbe bramato d’interpretare e che, forse, nonostante la raggiunta celebrità, nonostante gli ori e gli allori del travolgente successo, oggi rimpiange.

Scappò di casa che non aveva dieci anni per seguire una Compagnia di burattinai girovaghi (volete vedere che in Macario c’è, per dirla alla Freud, un complesso di Gianduia?); poi, non osando rientrare in famiglia nel timore di rappresaglie, si acconciò a recitare coi « guitti » più « guitti » che battessero le borgate piemontesi (a proposito, Macario è torinese puro sangue; ma c’era proprio bisogno di dirvelo?); dormì nei granai e nei carri bestiame abbandonati sui binal i morti, facendosi parrucche e barbe finte con la stoppa gentilmente concessa dai tappezzieri e attaccandosele con la col la prelevata dai falegnami: in un dramma medioevale, li-maglie da paggio essendogli state dilaniate dal botolo messo a guardia d’un frutteto, si presentò al pubblico d’una stalla adibita a teatro, col giustacuore di velluto cremisi e le gambe nude accuratamente verniciate di carminio (e, per mancanza di comodità ablutive, rimase per metà pellerossa tutto un mese). Dai, picchia e batti, alla fine venne scritturato da una Compagnia d’ordine. Ma i capocomici lo giudicarono troppo basso di statura e lo relegarono nei ruoli comici, lui che sognava endecasillabi alfieriani e spade sguainate.

Una sera, però, ebbe — come si suol dire — la rivelazione. Nel suo contratto c’era l’obbligo di far da comparsa, e in un terribilissimo drammone intitolato II mistero dei Borgia gli toccò di impersonare addirittura un cadavere che, ritto stecchito dentro la bara, doveva apparire nel momento più tragico per atterrire definitivamente la misera vittima dei perfidi Borgia. Ora pare che Macario — il quale era già allegramente noto al pubblico per certe sue macchiette nelle farse che seguivano a quei drammacci imbottiti di morti — fosse fisica-mente proprio il più piccolo di tutti i componenti la Compagnia. Così avvenne che quando il fondale si aprì e agli occhi degli spettatori apparve quella minuscola salmetta, platea e loggione subito riconobbero in quel defuntino il piccolo Macario e, memori dei suoi comici lazzi, sbottarono in una risata, a tutto scapito della tragicità della scena. Il capocomico prese un cappello d’inferno. Ma Macario si disse — non a torto — che se riusciva a far ridere il pubblico anche come cadavere, voleva proprio dire che il suo destino artistico era la comicità. Allora abbandonò la Prosa e accettò una scrittura con colui che era un po’ il patriarca della Rivista dell’epoca, Carlo Rota. E di lì, a poco a poco — come si usava in quegli aurei tempi — dette la scalata alle vette della celebrità. Ma quando parla della Prosa gli luccica ancora lo sguardo. Se ne avesse il coraggio, pianterebbe passerella, ballerine, canzoni e... « Lasciate almeno alle nostre donne la libertà di morire di dolore! » (Romanticismo, atto primo). « Creatura orgogliosa che non ti vuoi piegare, ti adoro ma ti spezzerò! » (Il padrone delle ferriere, atto secondo). «Va’, va’ a farti monaca!» (Amleto, atto terzo)... Ma come si fa? Si ha un bell’amarla: la Prosa è l’amante che l’ha tradito, la Rivista è la moglie che lo idolatra. E « Maca » rimane in Rivista a insegnare magistralmente come si riesce a far ridere.

In quanto a noi, se dovessimo dire in che cosa la sua arte comica eccelle, accenneremmo alle sue pause, all’immobilità di certe sue pause. Far ridere senza parlare e senza muoversi: quest’assurdo non riesce che a lui.

Dino Falconi e Angelo Frattini


Dalla rivista alla commedia musicale

Per tutti gli anni quaranta Macario prosegue la sua attività in teatro, sfornando un successo dietro l'altro.[10] Memorabili restano le riviste Amleto, che ne dici? (1944), Febbre azzurra (1944-1945), Follie d'Amleto (1946), Le educande di San Babila (1948), Ocklabama (1949) e La bisbetica sognata (1950). Nel 1951, una tournée trionfale in Francia con la sontuosa rivista femminile Votate per Venere (interpretata da Nory Morgan) è suggellata dalla presenza fra il pubblico parigino delle più note personalità d'Oltralpe. Si narra che il Presidente francese Charles De Gaulle avesse imposto che l'attore fosse scortato da corazzieri in alta uniforme.[11]

Dalla metà degli anni cinquanta, tuttavia, le riviste cedono il posto alle nuove commedie musicali, mentre si affermano nuovi gusti e tendenze. Dopo il record di incassi raggiunto con Made in Italy (1953, che segna anche il suo ritorno in coppia con la "divina" Wanda Osiris)[12] e Tutte donne meno io (1955, in cui Macario era l'unico uomo circondato da ben quaranta "donnine"), il comico piemontese si dedica alla commedia musicale.

Accanto a grandissime primedonne quali Sandra Mondaini e Marisa Del Frate, realizza indimenticabili spettacoli come L'uomo si conquista la domenica (1955), Non sparate alla cicogna (1957) di Ruggero Maccari e Mario Amendola, E tu, biondina (1957) e Chiamate Arturo 777 (1958) di Bruno Corbucci e Giovanni Grimaldi.


Macario e l'idiozia intelligente

Macario è malato di umorismo. E, quel che è peggio, non di umorismo inglese, né russo, né di spirito francese. Bensì, di umorismo italiano. Quest’umorismo italiano, che non ha che pochissimi anni di vita, che è cresciuto a poco a poco, si è sviluppato sui giornali umoristici settimanali e bisettimanali e ne ha fatto, in un certo qual modo, la fortuna, ha creato una nuova maniera di parlare, ha dilagato in tutta la penisola propagandato dagli studenti che lo sentivano più di tutti, è entrato nel teatro, nella letteratura e nella radio, e finalmente, con Imputato, alzatevi! e Lo vedi come sei?! ha fatto il suo trionfale ingresso anche nel cinema. Quest’umorismo italiano che fa imbestialire i vecchi signori che non lo comprendono, che fa urlare di rabbia i critici che non riescono a definirlo e fa campare abbastanza bene quelli che lo hanno inventato.

Macario è appunto la personificazione teatrale di questo umorismo, che alcuni definiscono “intelligente”, che altri definiscono “idiota” e che forse non è altro che un’idiozia intelligente.

Si è detto che Macario è un clown, come si è detto che Macario è una maschera. Si sono scomodate le grandi ombre di Petrolini e di Ferravilla, si è parlato di “fenomeno Macario”, si è portato questo comico alle stelle, lo si è voluto demolire, centinaia di critici hanno tentato di definire la sua arte o la sua mancanza d’arte. Ora, io penso che Macario non si possa definire; si può, tutt’al più, discuterne. Macario, per alcuni è un Gianduia, foderato di Charlot e imbottito di fratelli Marx. Ora, se è difficile definire Gianduia, che ha secoli e secoli di teatro dell’arte dietro le spalle, se su Charlot sono stati scritti ponderosissimi volumi, se i fratelli Marx sono difficilissimi a comprendere, figuriamoci questi tre diversi esempi di cqmicità fusi insieme.

Macario 01 1966 L

Per me, per esempio, ma solo in alcuni casi, Macario è un pupazzetto. Un pupazzetto di vignetta. È infatti l’unico comico che possa dire sulla scena le stesse cose che sono scritte in due righe sotto i disegni dei giornali umoristici.

L’associazione d’idee è la sua arma più formidabile. Dire, cioè, una cosa lontanissima come significato da quella che veramente vorrebbe dire. Per esempio: Macario, disperato, vuol andare a gettarsi nel fiume; ma siccome ha paura, lo dice a un suo amico, sperando che lo trattenga dal compiere l’insano proposito. Ma l’amico, l’immancabile Rizzo, non lo trattiene. Macario si avvia verso il fiume, ma, ad un certo punto, si volta.

“Non mi trattieni?”

“No...”

“Proprio per niente? Proprio per niente?”

“Ma no, ti dico!” risponde Rizzo, il cui compito principale consiste appunto nel dire, durante tutta la sera, “Ma no!”, “Ma, come?”, “Ma che dici!”, “Ma che ti salta in testa?”, per dar agio a Macario di dire la battuta. Una bella fatica! “Proprio no?”

“Ti dico di no...”

Macario fa un passetto, poi si volta. “Manica, manica?”

“Ma che dici?” ruggisce Rizzo.

”Si, non mi trattieni nemmeno per la manica?”

Macario 1953 1 L

Nessuno pensa che Macario, dicendo “Manica, manica”, possa voler significare: “Sì, non mi trattieni nemmeno per la manica?” Può pensare, tutt’al più, allo stretto che divide la Francia dall’Inghilterra e nel quale oggigiorno non è consigliabile navigare. Oppure, non sa dove voglia andare a parare. Non si tratta di una battuta. Si tratta di una sorpresa. Sorpresa che agisce come un solletico mentale e fa ridere il pubblico, magari suo malgrado. Ed è questo che molta gente, come quelli a cui è stato fatto il solletico, dopo aver riso di ciò che dice Macario, per tutta una sera, esce dal teatro arrabbiatissima e magari indignata contro se stessa per aver riso. (...) È facile comprendere perché il pubblico rida quando Macario deforma le parole introducendovi delle enne dove non vanno, cioè dicendo “rimpetinzione”, invece di “ripetizione” e “anfonrisma”, invece di “aforisma”. Ride per la stessa ragione per cui si ride al balbettio dei bambini o alle impuntature dei balbuzienti. Come, quando, invece di “sempre scapolo, sempre scapolo?”, dice “sempre scampolo, sempre scampolo?”, la ragione dell'ilarità va ricercata nel fatto che la sostituzione meccanica di una parola di un dato significato con un’altra parola dello stesso suono ma di significato diverso è stata sempre ragione di riso. Pulcinella, invece di dire “Me ne entro quatto quatto, carponi, carponi”, dice: “Me ne entro quattro quattro, scarponi scarponi”, e tutti si contorcono sulle loro poltrone. Più difficile riuscire a comprendere perché il vezzo che ha Macario di ripetere due volte la stessa parola scateni l’allegria. Se lo stesso Pulcinella dicesse “Lume, lume”, non farebbe ridere nessuno. Se si scrivesse “lume, lume”, sotto una vignetta, ciò non desterebbe il buon umore nemmeno dell’uomo più ben disposto di questo mondo. Se Achille Campanile scrivesse “lume, lume” in uno dei suoi libri, i suoi lettori esclamerebbero: “Achille Campanile è finito!” Uno dei canoni dell’umorismo è che la ripetizione faccia ridere: questa forma di umorismo ha anzi un nome tecnico — si chiama “tormentone” — ma si tratta della ripetizione di un’intera frase che si riferisce ad un personaggio, come ad esempio: “Inutilmente, o astuto barone, eccetera, eccetera”, fatta a distanza e non di seguito. Se voi incontrate un amico e gli dite: “Bisogna che ti cambi il cappello”, lui la prima volta non riderà, se glielo ripeterete in occasione di un secondo incontro, lui, se non è un tipo permaloso, non dirà nulla; la terza volta, sapendo che state per dirglielo, rimarrà in attesa di quella vostra frase e, quando vi sarete deciso a pronunciarla, riderà prima ancora che l’abbiate finita per la soddisfazione di aver indovinato che gliel’avreste detta. Ma perché si ride quando Macario dice “lume, lume?”, o “Stai male, stai male?”. Può darsi che rida per la ragione suesposta, cioè perché se l’aspettava. Ma, allora, la prima volta, perché ha riso? Inquantoché la prima volta deve aver riso, altrimenti Macario non l’avrebbe ripetuta. Indubbiamente anche questo fa parte di quel solletico mentale di cui abbiamo parlato in precedenza, altrimenti sarebbe inesplicabile.

A voler essere sinceri, anche la faccenda del pupazzetto da giornale umoristico e il solletico mentale, i miei riferimenti a Pulcinella e alla commedia dell’arte sono tutte balle. E che Macario dica “lume, lume?” o “rimpentinzione”, a me non me ne importa proprio un fico secco.

Insomma, l’importante è che Macario continui a tener allegra la gente e a far pieni i teatri. Come ci riesca, sono affari suoi.

Vittorio Metz


I primi successi cinematografici


Mi dicono che io facevo Ionesco quando Ionesco quasi non era nato, e d'altronde io lo so... sono sempre stato un po' lunare[13]


Parallelamente al teatro, nei primi anni trenta Macario inizia a recitare anche per il cinema. Dopo un breve ruolo nel film muto Sole di Blasetti[14] [15] esordisce come protagonista nel 1933 con il film Aria di paese (di cui firma anche la sceneggiatura), che si rivelerà una esperienza poco fortunata.

Il secondo tentativo, Imputato, alzatevi! (1939, regia di Mario Mattoli e soggetto di Vittorio Metz e Marcello Marchesi)[16], invece avrà molto più successo. Forse proprio con questo film, per la prima volta nella storia del cinema italiano, si può parlare di comicità surreale.

Seguirono poi, in una ideale trilogia dei tempi del fascismo, i film Lo vedi come sei... lo vedi come sei? (1939), Il pirata sono io! (1940) e Non me lo dire! (1940). In questi ultimi quattro film Federico Fellini collaborò come gagman alle sceneggiature.[17]

Al cinema Macario arriva con tutte le caratteristiche fisiche ed espressive già largamente sperimentate a teatro, costruendo un personaggio semplice e ingenuo, talvolta malinconico ma sempre ottimista e fiducioso. Si impone con il suo viso infantile, gli occhi rotondi spalancati e mobilissimi e il suo immancabile ricciolo a virgola, a cui si aggiunge la dizione incerta e marcatamente influenzata dalla lingua piemontese.

Il successo sul grande schermo continua ad arridergli fino all'inizio degli anni cinquanta, prima con il campione di incassi Come persi la guerra (1947) e poi con L'eroe della strada (1948) e Come scopersi l'America (1949), tutti diretti da Carlo Borghesio e prodotti da Luigi Rovere.[18] La sua formula spettacolare, tuttavia, restava sempre più adatta al teatro di rivista e alla commedia musicale, che esaltavano la sua candida e innocente maschera attraverso le "prepotenze" sulla sua fedele spalla Carlo Rizzo e soprattutto attraverso il sottinteso erotico delle sue "donnine".

Gli anni cinquanta e sessanta

Tornato a Roma, Macario tenta di estendere le sue attività teatrali alla produzione cinematografica, realizzando il film Io, Amleto (1952). Il film si rivelerà essere un disastro, ma nonostante le forti perdite l'artista non si dà per vinto e con le sue riviste successive continua a riscuotere un grande successo di pubblico e di botteghino. Successivamente Macario prende parte a molti altri film, senza esserne più però il protagonista assoluto, tranne in rari e sporadici tentativi che non sortiscono il seguito sperato.

Nel 1957, il regista e scrittore Mario Soldati lo vuole per il suo Italia piccola per un ruolo drammatico.[19] Seppure inconsueto, Macario offre una prova eccellente e dimostra ancora una volta notevole versatilità. Dal 1959 al 1963 recita ben sei film con il suo grande amico Totò: La cambiale (1959), Totò di notte n. 1 (1962), Lo smemorato di Collegno (1962), Totò contro i quattro (1963), Il monaco di Monza (1963) e Totò sexy (1963).

In questi film, Macario svolge un ruolo di spalla per Totò, ponendosi al suo servizio sul set. Fu proprio l'attore napoletano, che già cominciava a soffrire i primi problemi alla vista, ad esprimere il desiderio di avere al suo fianco Macario, amico fidato con cui stabilire in tranquillità i tempi delle battute e delle gag. Il risultato ottenuto è una serie di duetti, con un Totò ancora più irruente di fronte al tipico balbettìo di Macario.

Gli anni settanta

Abbandonata la rivista, Macario si dedica soprattutto al teatro di prosa, distinguendosi anche in ruoli drammatici e facendo qualche incursione nel teatro in lingua piemontese. Anche qui ottiene un grande successo con una rivisitazione del famoso testo piemontese Le miserie 'd Monsù Travet, messo in scena allo Stabile di Torino nel 1970.[20]

Gli anni settanta, in cui Macario si dedica alla trasposizione televisiva di alcune sue commedie di successo, sono ricchi di impegno nel campo della prosa e della commedia musicale. Fra i numerosi lavori di quel periodo, sono da ricordare Achille Ciabotto medico condotto (1971-1972), Carlin Ceruti sarto per tutti (1974), il film Il piatto piange (1974) di Paolo Nuzzi e Due sul pianerottolo (1975-1976), grandissimo successo a teatro accanto a Rita Pavone (da cui nel 1976 fu ricavato l'omonimo film di Mario Amendola, prodotto sempre da Luigi Rovere, il produttore che lo lanciò al successo alla fine degli anni quaranta; il quarantesimo ed ultimo interpretato da Macario).

Negli ultimi anni, l'attore torinese si impegna nella realizzazione di un proprio teatro, La Bomboniera (Torino), che inaugura nel 1977, in via Santa Teresa, 10, con la commedia tratta da Molière Sganarello medicosifaperdire, scritta da suo figlio Mauro e Carlo Maria Pensa. La scelta del titolo non fu del tutto casuale: Macario aveva infatti da tempo espresso il desiderio di poter recitare Molière in un teatro tutto suo[21], tanto che fu spesso chiamato anche "Teatro Macario". Negli anni novanta il teatro fu poi diretto dall'attore Pier Giorgio Gili[22] e alla sua morte fu convertito in una discoteca col nome di "Theatrò".

In televisione fu tra i protagonisti di Carosello, fino al suo congedo che avviene nel 1978. Nel 1974 fu protagonista della puntata di Milleluci, con Mina e Raffaella Carrà, dedicata al genere del varietà. Nel 1975 è protagonista di un varietà in televisione, Macario uno e due. Nel 1978 la Rai gli tributa un altro varietà, Macario più, sei puntate tra prosa e rivista in cui l'attore ripercorre le tappe della sua lunga carriera all'insegna di un umorismo gentile, immediato e popolare.

Nel 1979 è il protagonista per un mese dello spettacolo televisivo (Raidue) Buonasera con... Erminio Macario, per la regia del figlio Mauro.

La fine

Durante l'ultima replica della sua ultima fatica teatrale, Oplà, giochiamo insieme, Macario accusa un malessere che si scoprirà essere un sintomo di un tumore. Il 26 marzo 1980, Erminio Macario muore in una clinica torinese all'età di 77 anni, assistito fino all'ultimo dall'amata moglie, sposata in seconde nozze, Giulia Dardanelli.[23]


La nascita di un attore

Ho cominciato a recitare al teatrino dei salesiani di Torino: da ragazzo, all’età di dieci anni, mi presero per fare delle particine da bambino, poi più avanti ho fatto i più grandicelli. Più tardi ho deciso di formare io stesso una compagnia filodrammatica con attività “fissa e regolare”, al circolo San Donato. Vi lavorai per circa due anni, facendo il regista, il direttore; recitavamo tutto quello che c’era da recitare. Io facevo l’attore drammatico in lavori drammatici; facevo anche la farsa, ma non le davo importanza: avevo in mente Ruggero Ruggeri, i grandi attori... In seguito trovai una piccola compagnia in un paese, Beigioioso, in provincia di Pavia: dormivamo tutti in un camerone e lavoravamo alla cooperativa dei socialisti. Di li son passato ad altre compagnie e ho fatto per cinque anni l'attore di prosa, diventando anche “primo attore assoluto”. Poi feci l'ultima visita militare (ero già stato fatto rivedibile due volte) e mi riformarono perché avevo sessantaquattro centimetri di torace. Mentre ero a Torino, a casa a riposarmi, seppi che si apriva una compagnia di rivista e balli, Moasso, al teatro Romano. Mi assunsero e feci due o tre macchiette nella prima rivista, che si chiamava Sei sola stasera? In quella successiva passarono me a fare il comico. Fu un successone, tanto che Isa Bluette, che allora era la regina delle soubrettes, mi offri un contratto nella sua compagnia: sessanta lire al giorno e sei mesi a Torino. Lo spettacolo si chiamava La valigia delle Indie: in una sera sette macchiette ed altrettanti successi.

Macario 03 L

Gli spettacoli a quell’epoca erano sempre in tre atti (solo dopo la guerra è venuta l’abitudine di fare lo spettacolo in due tempi, perché la gente corre più in fretta, ha più da fare e due intervalli sono troppi). All’epoca dei tre tempi facevo due o tre macchiette nel primo tempo, altrettante nel secondo, e una o due nel terzo. La rivista era fondamentalmente uno spettacolo satirico, ma con il fascismo non si poteva più fare della satira; non potevo più fare Rosina Turati, o Don Sturzo, o Giolitti e allora facevo delle macchiette non politiche. Le macchiette mi sono servite molto, perché facevo tutti i personaggi, dalla donna al prete, al vecchio, all’effeminato, all'esattore, alla suffragetta, al maestro di musica, allo sportivo (ho fatto persino Girardengo). Tutto questo mestiere, questo bagaglio (avrò fatto una cinquantina di macchiette), mi è servito a creare la maschera di Macario. Ho unito tutte queste cose insieme e ho creato la mia maschera.

Ma ad un certo punto passai dalle macchiette al personaggio unico. La cosa cominciò quando feci I tre emisferi al Teatro Balbo di Torino. C'erano due fidanzati i cui genitori non volevano lasciarli sposare. I due scappavano e veniva mandato ad inseguirli un precettore, che ero io: quella è la prima volta che ho fatto un personaggio unico. Dopo ho sempre voluto fare soltanto un personaggio. Mi ricordo il grosso successo di Madama Follia, fatto nel '27. Anche c’era un personaggio unico. C’era un tale che faceva l’asino in un circo equestre (l’asino finto: si metteva sotto una pelle d’asino, con una testa d’asino) ma aveva una faccia che assomigliava a tante persone e lo scambiavano sempre per quello o per quell'altro: e lui si comportava come la persona che gli altri credevano che fosse.

Dopo il crollo di Wall Street anche in Italia ci fu la crisi e tutti finimmo a fare l’avanspettacolo; anch’io facevo l’avanspettacolo. Petrolini mi venne a vedere e mi disse: “Ma perché devi tenere quel parrucchino con quella frangetta? Hai una testa che vale un milione!” Io mi sono levato il parrucchino e mi sono tenuto la mia testa, ma ho fatto il ciuffetto (mi chiamavano “l'uomo del ricciolino”). Dopo cinque anni di avanspettacolo finalmente ho voluto ritentare con il teatro. Ero stato a Parigi, ero stato a Londra, dove presi l’idea della commedia musicale vedendola fare da loro.

E cosi feci scrivere la prima commedia musicale italiana, Il piroscafo giallo. Portai giù anche delle ballerine inglesi; altre le feci arrivare da Vienna (furoreggiava allora in Italia la rivista viennese dei fratelli Schwarz), ma prevalentemente scritturai ballerine inglesi, e qualche svedese, dopo la guerra. Ho creato la rivista femminile: era una rivista di quadri, di sketch, di lussi, di scenette, a volte anche abbastanza poetiche (mi è sempre piaciuto mettere nelle mie riviste un quadro, un momento di poesia): in genere non c’era una storia, ma a differenza delle riviste inglesi e francesi la mia rivista era uno spettacolo comico, non solo un fatto visivo. Comunque prima facevo i quadri per le “donnine” e in più mi mettevo io: non è che facevo lo spettacolo per me poi mettevo i balletti.

Poi nel '35 ho creato la maschera di Macario e ho fatto sempre Macario fino ad oggi, cambiando il linguaggio con il passare degli anni, andando avanti con i tempi, con il progresso, con il pubblico. Non mi sono mai fermato a quello che facevo dieci anni prima: guai se mantenevo il linguaggio di allora. Quando vedo qualche mio vecchio film non lo posso quasi sentire: mi sembra impossibile che recitassi in quel modo, eppure a quell’epoca era cosi. La maschera è rimasta sino a quando ho smesso con la rivista e mi sono messo in prosa, ma nel frattempo il personaggio da marionetta che era all’inizio, era diventato umano, tutt’un’altra cosa.

Macario 1942 1 L

Comunque, dicevo, ad un certo punto ho capito che quel genere di spettacolo non reggeva più: c’era la concorrenza della televisione che bruciava la rivista, anche se i suoi spettacoli facevano schifo; diventava difficile persino formare la compagnia. E poi i costi: non si poteva più pagare 18 persone per l’orchestra, 24 ballerine, 6 ballerini, 10 attori. Cosi nel 1965-66 ho chiuso con la rivista: mi sono ritirato in tempo (chi ha continuato ha perso un mucchio di soldi) e son tornato al mio primo amore, il teatro di prosa.

Ho continuato a lavorare fino ad adesso perché il lavoro è vita. Basta pensare a quei pensionati che sono disperati se non si trovano un lavoretto, che diventano matti se non hanno qualche cosa da fare. E per me il lavoro è il teatro. Ho anche fatto del cinema: nel '38 ho esordito con un film comico che si chiamava Imputato, alzatevi! e ne sono seguiti poi altri otto o dieci. Con i film non facevo certo grossi guadagni (il compenso più alto è stato per Come persi la guerra, nel ’47, quando mi diedero un milione e un panettone). Ma ne facevo soltanto uno o al massimo due all’anno, d’estate, perché d'inverno non ho mai lasciato il teatro, ho sempre fatto le mie riviste. Io sono un attore istintivo: quando vado in scena, delle volte, non so neanche che cosa mi viene fuori. Quello è un dono di natura: perché la comicità non si insegna, bisogna esserci nati. È una cosa che ti dà la natura, che ti dà tua madre, che ti dà Dio. La risata è una forza, un impulso che ti stimola i centri nervosi: suscitarla è un dono. Naturalmente poi viene il mestiere, il perfezionamento, le invenzioni. Ma la comicità è una radiazione che ha l’individuo, una magia che non sa spiegare neanche chi ce l’ha.

Erminio Macario


Di Macario ricordo soprattutto una caricatura di Onorato (Onorato era un signore garbatissimo, con la pipa, che stava sempre nelle prime file in teatro con un suo taccuino di carta fabriano, a fare disegni e a mormorare al vicino fulminanti battute). Era il perfetto Macario che abbiamo sempre visto, faccia d’uovo, occhioni sognanti, riccioletto incollato in fronte.

Lo vidi, Macario, al cinema, in Imputato, alzatevi! e mi parve assai spassoso. A teatro, in Febbre azzurra, la guerra era appena finita, vidi soprattutto le sue strabilianti ragazze, che lo circondavano statuarie, e sorridevano sempre, a me. Quando, due o tre anni dopo, a far Febbre azzurra c’era Tognazzi, ricordo che fu bravissimo, ma non aveva nulla dell’esotico candore di Macario, era più bel giovanotto, più corposo e forse più volgare.

Macario gh5

E ricordo anche che molto tardi, con sorpresa vera, seppi che di nome si chiamava Erminio. I comici non avevano un nome di battesimo o avevano solo quello, Totò, Fanfulla, Waldemaro, Cacini, chissà come diavolo si chiamavano in realtà. Macario non era un nome vero, era un personaggio. Imitato da Harry Langdon, ma lui diceva di non averlo mai visto, il comico americano, e ci credo. Macario era un comico torinese, un vero autentico Gianduia, un poveraccio di travet che sorrideva alla vita, un soldato semplice che fa la guardia a un ponte, una vittima dei doveri, un fraticello affamato, un professore di violino spiantato, uno svampito cui però va bene tutto, un vagabondo che si circonda di animali e li ama addirittura, mica come Charlot che, in realtà, li prende a calci.

Non c’è una morale, nel personaggio di Macario, egli era uno di quei comici che appare sempre debole di fronte alla sua “spalla”; come Rascel, era della razza dei bassi, degli inermi, dei cagnetti spauriti. La sua grande rivincita, il suo fastoso esplodere, era nelle grandi passerelle alla Wanda Osiris, quando riscattava di un colpo la bassa statura con l’esibizione della delirante femminilità delle sue ragazze. Era il momento in cui Monsù Travet metteva l’abito di lustrini, e cavalcava la luna in un impeto surreale. Ma benché la parola, e forse il concetto, del surrealismo gli piacesse, mi pare che in realtà ne fosse lontano.

Le sue battute non venivano dal Cabaret Voltaire, ma dai più domestici cabaret torinesi, dai teatri di posa frequentati, in quei tempi, dagli scrittori del “Marc'Aurelio”. E il suo regista più giusto era quel geniale mestierante che conosceva a puntino il gusto del pubblico: Mario Mattoli. Nessuno degli intellettuali del cinema si occupò di lui, forse nessuno adesso vorrà riscoprirlo.

Certo non era Totò, Macario, ma sere fa lo abbiamo visto accanto al principe de Curtis nel Monaco di Monza, e gli teneva testa con sicurissimo senso dei tempi, con una puntuale svanitaggine che voleva, però, avere sempre l’ultima battuta.

Tommaso Chiaretti


Galleria fotografica e stampa dell'epoca

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Erminio Macario: il personaggio

Caratteristiche fisiche e psicologiche

Omino dal volto a uovo, occhi sgranati ora per malizia ora per stupore, pomelli rossi più da contadino che da clown, si arrotola con ingenua civetteria sulla fronte un ricciolo che resta appiattito sulla pelle un po’ per brillantina, un po’ per sudore. Il ricciolo è l’indice più esibito di una eleganza paesana alla quale si riconduce anche il suo abbigliamento: vestiti troppo larghi e cascanti, a righine o a quadretti, pantaloni con il cavallo basso, cravattino a pallini, cappelluccio insufficiente e instabile. Gilet o bretelle in cui infila i pollici. Camminata da papero accentuata da scarpe spesso troppo grosse. Candido fino all’angelismo, sprovveduto e sentimentale. Cerca di farsi compatire e di commuovere con un sorriso da salvadanaio (luna sorridente disegnata dai bambini). Assume spesso toni di umiltà mielosa e insistente. L’innocenza che sfoggia è talvolta finta: c’è sempre, più o meno nascosto, un fondo di malignità e di furbizia. Gianduiotti e donnine gli fanno venire l’acquolina in bocca.
Condizione sociale

Macario 00 1958 07 17 Oggi L

E’ un povero, anzi il Povero, ma non un proletario. Fa mestieri improbabili e fiabeschi: spazzacamino, suonatore ambulante con l’organetto di Barberia, lustrascarpe, vagabondo allegro, marmittone. Se si presenta con maggior plausibilità fa: il pretino di campagna, il cameriere, il bidello (di collegio femminile), mungitore, portapollastri. Vive in ambienti di povertà stilizzata, anche se il suo habitat è geograficamente ben preciso: la provincia piemontese e Torino, lo stesso di De Amicis. Dorme sui tetti e su panchine da Peynet, qualche volta sulla luna, in sacrestia o in qualche pagliaio, in camerette minuscole.

Cultura

I suoi luoghi di cultura sono: il teatro dei burattini, e l’oratorio. Legge: Il Vittorioso, La portatrice di pane, Il romanzo di un giovane povero, diffonde le lettere della catena di S. Antonio. In qualche locanda ha visto alla televisione il varietà del sabato e Giochi senza frontiere e Lo zecchino d’oro, ma si diverte di più alle giostre, o a Carnevale quando si veste da Pierrot o da donna.

Osservazioni

La singolarità del personaggio Macario sta nella sua preminente caratterizzazione “grafica". E’ come se la sua figuretta lineare non avesse un vero e proprio spessore: il primo Macario vive in due dimensioni, disegnato con pochi tratti essenziali (il più marcato di questi, il famoso ricciolo, gli fu suggerito dall’infallibile istinto di Petrolini). Non a caso ha ispirato un fumetto disegnato da Manca. Fedele a questo suo modulo bidimensionale, affina la sua tecnica espressiva con occhiate furtive, una parlata piena di pause e inceppature, giocando spesso sui silenzi, una stilizzazione dialettale, tic verbali di automatismo endemico (dilagò per qualche tempo la voga della “n” innestata: “Mancanrio”, “Tonrino”, “la rinvinsta”). Così la sua spalla (Carlo Rizzo), sanguigno e prepotente, caricava il proprio spessore per far notare a contrasto la stilizzazione del comico.

Ma questi suoi tratti non sembrano essere stati sviluppati fino in fondo in una dimensione autenticamente “assurda” e surreale, data anche la totale quasi chiusura della cultura del-l’Italietta crociana e gentiliana alle esperienze delle avanguardie europee. Per arricchire quest’immagine di partenza non può che ricorrere a variazioni zuccherose ottocentesche, sicché il personaggio da grafico si fa oleografico: uno dei segreti del suo successo sta proprio nel fatto che il pubblico lo identifica con i protagonisti dei raccontini edificanti pubblicati nei sussidiari delle elementari e dei quadretti venduti nelle fiere di paese. E’ il povero-da-amare che permette ai figli dei ricchi di compiere la loro buona azione quotidiana.

Nasce così un omino fra angelico e piagnucoloso, che "usa” il proprio candore con calcolato vittimismo. Inevitabile che emerga anche l’altro volto, tarfufesco, di malcelato egoismo della mentalità chiusa e bigotta di certa “provincia addormentata”. I suoi marchi di fabbrica sono da una parte il celeberrimo e piagnucoloso “Lo vedi come sei?” inserito in ogni contesto, anche nei più lunari, dall’altra il sadico “Si agonizza, si agonizza,” rivolto con tono da finto tonto ad un moribondo.
Questa ambiguità melensa e scivolosa del personaggio giustifica anche la sua presenza nella cornice “femminile” delle sue riviste: le sue “sudicerie” solo allusive e mai liberate, le sue battute salaci ma sempre ricacciate in gola, il suo strizzar l’occhio al pubblico, sono rivelatori di tutto un costume italiano di una generazione allevata tra oratorio e raduni di balilla. Più che la sua ultranota caratteristica di maschera quasi fuori dal tempo, è interessante notare questa sua componente legata ad un costume storico che fu rilevata nel 1945 da un anonimo recensore: “Quel suo lanciar la battuta e poi vergognarsene faceva le vendette della imperante sicumera... Quel suo dir la porcheriola con schiva esitazione corrispondeva prodigiosamente al reazionario desiderio di una castigatezza non sostanziale ma formale, in noi acceso dalla elevazione progressiva del me ne frego ad affermazione di potenza e a gemma del linguaggio nazionale.”

Lo vedi come sono?

Dopo le riviste con Isa Bluette (dove facevo scenette vestito da musmè o da “odalisco”, o dicevo strofette tipo "Le ragazze di Tampoco e di Tampico / quando vedono l'amico / lo salutano col chico”, prima che la Bluette attaccasse Creola,), dopo l'avanspettacolo, conseguenza della crisi della rivista d’allora, tornai in rivista, in proprio, dando largo spazio ai quadri coreografici, al balletto, alle soubrettes e soubrettine. Inventai la "rivista femminile". Per i balletti c’era il vivaio di Vienna: portavo via le ballerine a Schwarz. Andavo a Vienna, stavo là otto giorni, offrivo dieci lire di più di Schwarz (40 lire invece di 30). Poi ci fu il balletto inglese: il primo balletto inglese lo portai in Italia, nel 1932. Ma il balletto non bastava: mancava qualcosa alla femminilità della rivista. Sul balletto il pubblico non può fermarsi. Il balletto è qualcosa di staccato. La gente non può darsi di gomito e dire “carina quella lì". Occorreva qualcos’altro. Così presi intorno a me, nelle scenette, nelle canzoncine, otto ragazzette: reciticchiavano un poco, ballavano, cantavano, mi stavano vicino. Facevo lo spazzacamino, e loro facevano le "fanciulle timide". E si facevano vedere. Il pubblico diceva: “carina quella lì", a volte gridava (Marisa Maresca che iniziò con me a quindici anni era di quelle che facevano gridare), ammirato per tutte quelle grazie offerte agli occhi. Erano svestite... come oggi le ragazze per la strada.

Macario 02 L

Le chiamai “donnine". Fu nel 1940, mentre facevo un lavoro al teatro Valle, a Roma, che mi venne quella definizione. Da allora, più o meno giovani, più o meno belle, ho sempre tenuto le "donnine” nelle riviste. Il diminutivo non era nato per caso. Le “donnine” non dovevano avere qualità eccezionali e non dovevano essere alte, delle stangone. Né alte, né lunghe, e non solo perché sarebbe stato difficile trovarne otto, tutte zite, qui. Niente ballerine, e niente gambe altissime, come Marisa Maresca, che non era tipica. Il prototipo della donnina era Lilli Granado. Ebbe un enorme successo, faceva ammattire la gente: è stata la prima che mi fece venire l’idea della “donnina”. A partire dal 1939, tenni con me Lilli Granado per due o tre anni. Più tardi, Nino Taranto mi domandò: “Sto per fare una rivista. Ce l’hai ancora quella Lilli Granado?" Debuttò al Valle; io ero contemporaneamente al Sistina. Una sera lo trovai al ristorante, e mi disse: "Ma che ci fai tu con quella, sembra un baccalà, non sa far niente..." “Sei tu che hai sbagliato - gli risposi - bisogna saperle porgere queste donnine, bisogna saperle mettere. Tu la prendi e le fai fare la zingara, la fai scendere da una carovana, la fai uscire dal centro di un'orchidea... No, le donnine bisogna saperle usare, bisogna saperle porgere". Per la donna io ho sempre avuto un sentimento di golosità, ma senza nessuna forma di morbosità. Forse dico una stupidaggine, ma un comico come Dapporto, quando in scena voleva “giocare" con le donne, aveva un fare libidinoso, io invece ero solo goloso, è diverso. Non lanciavo battute pesanti, sporche.


Dicevo cose fortissime, certo, ma con una specie di gentilezza. Facevo ammiccamenti "golosi", iniziavo un raccontino piccante (“l’ho vista, lei mi ha visto, e poi..."), mi ammutolivo, facevo un gesto, lasciavo completare dal pubblico. Non finivo mai la battuta. Era come se avessi detto: ecco siete stati voi, io vi ho portato fino qui, poi sono andato via, siete stati voi ad andare più in là... Li facevo complici. Erano attimi, accenni, gesti, e le cose forti perdevano volgarità. Così quello che a un altro comico non sarebbe stato permesso dire, a me era permesso, perché c’era questa grazia, questa golosità semplice. Dicevo tutto e non dicevo niente. Una volta Raffaele Viviani disse: "Quel Macario è un comico alla francese. Ha un fuscello in mano, ti fa il solletico dietro l'orecchio e ti fa ridere". Non pensavo che ci fosse un richiamo erotico che solleticava gli istinti, come oggi in certo cinema e in certi spettacoli che non farei per nulla al mondo. Il mio era un erotismo familiare, diciamo. Non siamo mica animali: certi discorsi devono essere camuffati, musicalmente, non so. lo cercavo di metterla su un piano diverso, perché avevo anche le famiglie a teatro. E poi sono un uomo di fede, anche se ho fatto quel mestiere lì. Tutto questo era possibile, anche perché mi muovevo proprio in mezzo alle “donnine", che erano qualcosa di quotidiano. Era un frutto acerbo quello che presentavo al pubblico. Anche se, magari, non era affatto acerbo...

Macario (Intervista del maggio 1974)


Filmografia

Sole, regia di Alessandro Blasetti (1929)
Aria di paese, regia di Eugenio De Liguoro (1933)
Imputato, alzatevi!, regia di Mario Mattoli (1939)
Lo vedi come sei... lo vedi come sei?, regia di Mario Mattoli (1939)
Il pirata sono io!, regia di Mario Mattoli (1940)
Non me lo dire!, regia di Mario Mattoli (1940)
Il chiromante, regia di Oreste Biancoli (1941)
Il vagabondo, regia di Carlo Borghesio (1941)
Il fanciullo del West, regia di Giorgio Ferroni (1942)
La zia di Carlo, regia di Alfredo Guarini (1943)
Macario contro Zagomar, regia di Giorgio Ferroni (1944)
Il cinema delle meraviglie, regia di Pietro Francisci (1945)
L'innocente Casimiro, regia di Carlo Campogalliani (1945)
Come persi la guerra, regia di Carlo Borghesio (1947)
L'eroe della strada, regia di Carlo Borghesio (1948)
Come scopersi l'America, regia di Carlo Borghesio (1949)
Il monello della strada, regia di Carlo Borghesio (1950)
Adamo ed Eva, regia di Mario Mattoli (1950)
Io, Amleto, regia di Giorgio Simonelli (1952)
Agenzia matrimoniale, regia di Giorgio Pàstina (1952)
La famiglia Passaguai fa fortuna, regia di Aldo Fabrizi (1952)
Io, mia moglie e la vacca (Ma femme, ma vache et moi), regia di Jean-Devaivre (1952)
Carosello del varietà, regia di Aldo Quinti e Aldo Bonaldi (1955)
Italia piccola, regia di Mario Soldati (1957)
La cambiale, regia di Camillo Mastrocinque (1959)
I quattro monaci, regia di Carlo Ludovico Bragaglia (1962)
Totò di notte n. 1, regia di Mario Amendola (1962)
Uno strano tipo, regia di Lucio Fulci (1962)
Lo smemorato di Collegno, regia di Sergio Corbucci (1962)
I 4 tassisti, regia di Giorgio Bianchi (1963)
I quattro moschettieri, regia di Carlo Ludovico Bragaglia (1963)
Avventura al motel, regia di Renato Polselli (1963)
Il giorno più corto, regia di Sergio Corbucci (1963)
Totò sexy, regia di Mario Amendola (1963)
Totò contro i quattro, regia di Steno (1963)
Il monaco di Monza, regia di Sergio Corbucci (1963)
Lisa dagli occhi blu, regia di Bruno Corbucci (1969)
Nel giorno del Signore, regia di Bruno Corbucci (1970)
Il prode Anselmo e il suo scudiero, regia di Bruno Corbucci (1973)
Il piatto piange, regia di Paolo Nuzzi (1974)
Due sul pianerottolo, regia di Mario Amendola (1976)

Riviste e commedie musicali

La locandina della rivista Mondo allegro (1936)
Sei solo stasera, di Giovanni Molasso (1924).
Senza complimenti, di Giovanni Molasso (1924).
Il pupo giallo, di Piero Mazzuccato (1924).
Vengo con questa mia, di Piero Mazzuccato (1924).
Tam-Tam, di Carlo Rota (1925).
Arcobaleno, di Piero Mazzucato e Carlo Veneziani (1925).
Valigia delle indie, di Ripp e Bel-Ami (1925).
Paese che vai, di Erminio Macario ed Enrico M. Chiappo (1929).
Mondo allegro, di Bel-Ami (1936)
Il piroscafo giallo, di Erminio Macario, Ripp e Bel-Ami (1937).
Amleto, che ne dici?, di Erminio Macario e Mario Amendola (1944).
Febbre azzurra, di Mario Amendola (1944-'45).
Follie d'Amleto, di Mario Amendola (1946) con Lia Origoni.
Le educande di San Babila, di Mario Amendola (1948).
Ocklabama, di Ruggero Maccari e Mario Amendola (1949).
La bisbetica sognata, di Enrico Bassano (1950).
Votate per Venere, di Orio Vergani e Dino Falconi (1951).
Pericolo rosa, 1953
Tutte donne meno io, di Scarnicci e Tarabusi, 1954
Made in Italy di Giovannini e Garinei con Macario e Wanda Osiris, 1955
L'uomo si conquista la domenica, di Ruggero Maccari e Mario Amendola (1956).
Non sparate alla cicogna, di Ruggero Maccari e Mario Amendola (1957).
E tu, biondina, di Ruggero Maccari e Mario Amendola (1958).
Chiamate Arturo 777, di Bruno Corbucci e Giovanni Grimaldi (1959).
Una storia in blue-jeans di Bruno Corbucci e Giovanni Grimaldi, con Macario, Carlo Campanini, Valeria Fabrizi. (1960)
Undici sopra un ramo, di Ernesto Caballo,
Masaniello, commedia musicale con Macario, Nino Taranto, Miranda Martino ('62-'63)
Febbre azzurra di Mario Amendola (riedizione) 1965
Le 6 mogli di Erminio VIII, di Mario Amendola e Bruno Corbucci (1966).[24]
Pop a tempo di beat, di Raffaele Cile e Dino Mazzucco (1967)).
Miserie 'd Monsù Travet, di Vittorio Bersezio (1970).
Bastian contrari, di Vittorio Bersezio (1971).
Achille Ciabotto medico condotto, di Mario Amendola e Bruno Corbucci (1971-'72).
Carlin Cerutti sarto per tutti, di Mario Amendola e Bruno Corbucci (1974).
Due sul pianerottolo, di Mario Amendola e Bruno Corbucci (1975-'76).
Anche le figlie di Maria portano i jeans, di Mauro Macario (1978).
Oplà, giochiamo insieme, di Mauro Macario (1979)

Edizioni home video

Erminio Macario [e altri], La rivista di Macario. Torino: La Stampa, 2005-2006. - Collezione di libri e DVD comprendente:
Macario sono io!, di Erminio Macario
Febbre azzurra, di Erminio Macario, Mario Amendola, Pasquale Frustaci
Oklabama, di Erminio Macario, Ruggero Maccari, Carlo Rizzo
E tu biondina, sceneggiatura di Erminio Macario da una commedia di Mario Amendola e Ruggero Maccari. Follie d'Amleto, commedia musicale di Erminio Macario [e altri].
Chiamate Arturo 777, sceneggiatura di Erminio Macario, Bruno Corbucci, Giovanni Grimaldi
Erminio Macario [e altri], Tutto Macario : il teatro. Roma: RAITrade, 2007. - Collezione di video in DVD, comprendente:
La felicità 'd Monsù Guma, regia di Massimo Scaglione; sceneggiatura di Federico Garelli; libera rielaborazione e adattamento televisivo di Belisario Randone. Il figlio di Gribuja, regia di Massimo Scaglione; sceneggiatura da un canovaccio popolare cuneese rielaborato da Massimo Scaglione;
Che quarantotto in casa Ciabotto di Mario Amendola, Bruno Corbucci ed Erminio Macario, regia di Vito Molinari . Le bastonate del servo, di Erminio Macario
Due sul pianerottolo di Mario Amendola, Bruno Corbucci ed Erminio Macario, regia di Vito Molinari;
Stazione di servizio di Mario Amendola, Bruno Corbucci ed Erminio Macario, regia di Vito Molinari;
Pautasso Antonio esperto di matrimonio, di Mario Amendola, Bruno Corbucci ed Erminio Macario;
Il gallo del cortile, commedia in un atto di Mario Amendola, Bruno Corbucci ed Erminio Macario;
Achille ciabotto medico condotto, commedia in due atti di Mario Amendola, Bruno Corbucci ed Erminio Macario;
Carlin Cerutti sarto per tutti, di Mario Amendola, Bruno Corbucci ed Erminio Macario, regia di Vito Molinari. Il cuoco e il segretario, sceneggiatura di Erminio Macario e Mario Amendola da una farsa di Eugène Scribe
Erminio Macario [e altri], Tutto Macario: la rivista. Milano: Fabbri; Roma: RAITrade, 2007 - Collezione di video in DVD, comprendente:
E tu biondina, regia di Vito Molinari; sceneggiatura di Erminio Macario da una commedia di Mario Amendola e Ruggero Maccari; musiche di Giovanni D'Anzi
Oklabama, regia di Vito Molinari; sceneggiatura di Erminio Macario, Ruggero Maccari, Carlo Rizzo; musiche di Castorina, Di Francesco, Trinca
Febbre azzurra, commedia musicale di Erminio Macario, Mario Amendola, Pasquale Frustaci, regia di Vito Molinari . Follie d'Amleto, commedia musicale di Erminio Macario [e altri], regia di Vito Molinari
Chiamate Arturo 777, sceneggiatura di Bruno Corbucci, Giovanni Grimaldi, musiche di Mario Bertolazzi, regia di Vito Molinari
La vedova allegra di Victor Léon e Leo Stein; adattamento televisivo di Mario Landi, Bruno Corbucci, Majolo; musiche di Franz Lehár; regia di Mario Landi

Varietà radiofonici RAI

Il mondo con me, rivista di Dino Falconi e Angelo Frattini, con Erminio Macario e la Compagnia di rivista di Milano, regia di Giulio Scarnicci, trasmessa il 22 ottobre 1953.

Prosa televisiva RAI

Carlo Alberto, farsa con Carlo Campanini, Tatiana Farnese, Tonino Micheluzzi, Gilberto Mazzi, Vivi Gioi, Erminio Macario, Linda Sini, regia di Macario e Lino Procacci, trasmessa il 13 agosto 1959.

Discografia parziale

33 giri

1971 – Le miserie 'd monssù Travet (Cetra, LPB 35039)
1971 – Finestre sul Po (Cetra, LPB 35040)
1973 – Le sei mogli di Erminio VIII (International Tv Record, 062)

78 giri

1937 – Vidi il Danubio... (Non era blu)/Cose che capitano... (La voce del padrone, HN 1258)
1940 – Camminando sotto la pioggia/Sempre Pierrot (Cetra, GO 20186)
1941 – La gagarella del Biffi Scala/Duar (fa no el bauscia) (La voce del padrone, HN 1984)
1941 – Il tamburo della banda D'Affori/La giava del tabacco) (La voce del padrone, HN 2020)

45 giri

1971 – Lady Laura/Uomo solo (Italdisc, IT 222)
1973 – Turin, Turin/La voce degli anni (Cetra, SP 1501)
1976 – Sanremo Sanremo/La recita è finita (RCA Italiana, TPBO 1201)
1979 – Ciao nonnino/Indovina, indovinello (Durium, Ld Al 8062)

Libri

Lo vedi come sei? - La parola a Macario, Milano, Sonzogno, 1941
Come nasce un comico, Torino, Tipografia teatrale torinese, [s.d.]
Macario story, Torino, Arti Grafiche Garino, 1971
Teatro di Macario, Torino, Tipografia teatrale torinese, 1980

Note

  1. ^ G. Scipione Rossi, Mussolini e il diplomatico. La vita e i diari di Serafino Mazzolini, un monarchico a Salò, Rubettino, 2005, pag. 337
  2. ^ Leoncarlo Settimelli, Macario contro il Duce, in L'Unità, nº 329, 2002, pp. 21.
  3. ^ Angelo Olivieri, L'imperatore in platea: i grandi del cinema italiano dal Marc' Aurelio allo schermo, Edizioni Dedalo, 1986, pp. 11, ISBN 9788822045218.
  4. ^ Giovanni Ziccardi, Il diritto al cinema: cent'anni di courtroom drama e melodrammi giudiziari, Giuffrè Editore, 2010, pp. 240, ISBN 9788814151347.
  5. ^ Erminio Macario, Come Erminio Macario ricorda Charlie Chaplin: "Ero lo Charlot di Porta Pila", in La Stampa, nº 298, 1977, pp. 11.
  6. ^ La Stampa, È morto a Torino Ripp pioniere della rivista e autore di "Creola", in La Stampa, nº 84, 1962, pp. 13.
  7. ^ Maurizio Ternavasio, Macario: Vita di un comico, Lindau, 1998, pp. 63, ISBN 9788871802411.
  8. ^ Macario, comico di tre generazioni, in La Stampa, nº 69, 1980, pp. 3.
  9. ^ Laura Fezia, Il giro di Torino in 501 luoghi, Newton Compton Editori, 2014, pp. 355, ISBN 9788854170605.
  10. ^ Gabriel Bertinetto, Il «travet» del varietà, in L'Unità, nº 72, 1980, pp. 11.
  11. ^ b.v., Macario ricordato con opere in DVD, in La Stampa, nº 294, 28 ottobre 2005, pp. 49.
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Riferimenti e bibliografie:

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  • Erminio Macario, su MYmovies.it, Mo-Net Srl
  • (EN) Erminio Macario, su Internet Movie Database, IMDb.com
  • (EN) Erminio Macario, su AllMovie, All Media Network
  • Sito dell'Associazione Culturale Erminio Macario, su macariocult.it
  • Il Fondo Macario alla Biblioteca Teatrale SIAE e Museo del Burcardo, su burcardo.org
  • Erminio Macario dall'archivio RAI, su teche.rai.it
  • "Guida alla rivista e all'operetta" (Dino Falconi - Angelo Frattini), Casa Editrice Accademia, 1953
  • "Sentimental, la rivista delle riviste", Rita Cirio e Pietro Favari, Bompiani, Milano, 1975
  • "Follie del Varietà" (Stefano De Matteis, Martina Lombardi, Marilea Somarè), Feltrinelli, Milano, 1980
  • Camillo Cederna, «L'Europeo», anno II, n.37, 15 settembre 1946
  • Dino Falconi, «Epoca», anno III, n.6, 19 gennaio 1952
  • Roberto De Monticelli, «Epoca», anno IV, n.127, 14 marzo 1953
  • Vice, «Epoca», anno IV, n.154, 13 settembre 1953
  • Luigi Barbara, «Corriere della Sera», 14 dicembre 1954