Le belle famiglie
(Episodio: Amare è un po' morire)
Filiberto Comanducci
Inizio riprese: agosto 1964 , Studi Cinecittà, Roma
Autorizzazione censura e distribuzione: 16 dicembre 1964 - Incasso lire 217.596.000 - Spettatori 986.115
Titolo originale Le belle famiglie - Episodio: Amare è un po' morire
Paese Italia Francia - Anno 1964 - Durata 106 min circa - Colore B/N - Audio sonoro - Genere commedia - Regia Ugo Gregoretti - Soggetto Ugo Gregoretti - Sceneggiatura Ugo Gregoretti, Steno nell' episodio con Totò Amare è un po' morire - Produttore Giuseppe Colizzi - Fotografia Aiace Parolin - Montaggio Mario Serandrei - Musiche Jimmy Fontana, Franco Migliacci, Armando Trovajoli
Totò: Filiberto Comanducci - Sandra Milo: sua moglie Esmeralda - Adolfo Celi: Professor Della Porta - Jean Rochefort: Marchese Osvaldo
Soggetto
Episodi
Il principe azzurro
Maria è una povera contadina siciliana, figlia di una famiglia di cafoni che la maltrattano e vogliono farle sposare Francesco, un rozzo basso e manesco. La ragazza trova confidenza solo nella scrittrice Donna Lucrezia, a cui manda numerose lettere chiedendole di aiutarla. La donna risponde dicendo a Maria di crearsi un'immaginazione completamente diversa della sua famiglia e di Francesco, ma ciò servirà solo a peggiorare le cose e per di più ad alimentare la credenza che Maria sia impazzita, così il padre, dato che lei non vuole sposare Francesco, dichiara di mandarla dalle monache. Maria il giorno dopo lo insegue per sottomettersi al suo volere sposando Francesco, ma poi ci ripensa...
Il bastardo della regina
Una coppia aristocratica del Nord Italia sta passando brutti momenti: una sera Carla si accorge che il marito Uberto non l'ama più e così ingaggia, sotto consiglio di un'amica e collega di disegno, di assumere un cameriere che le faccia la corte per rendere Uberto geloso. Contro ogni sua aspettativa, l'uomo proverà approvazione e piacere per l'uomo e addirittura piacere...
La cernia
Il donnaiolo romano Luigi viene scaricato dalla sua ragazza Camilla e così torna a casa di notte passeggiando per la spiaggia. Qui trova una tenda con due persone che dormono: è una coppia tedesca e Luigi ne approfitta per pomiciare con la donna che subito si innamora di lui. Luigi il giorno dopo torna dai suoi amici per rivelare il suo incontro con Trude e promette loro di fargliela vedere mentre si spoglia e una sera, insieme a Trude e al marito va a ballare in un ristorante sulla costa. Per allontanarsi con la sua "cernia", Luigi fa conoscere il marito a Camilla e subito scappa nella spiaggia, nel frattempo, raggiunta anche dai suoi amici. Mentre Trude si sta spogliando, Luigi chiama i suoi amici, ma questi non trovano nulla di eccitante in lei e se ne vanno scontenti. Luigi si offende e fa per andarsene , ma Trude lo trascina in acqua ricordandogli la promessa che avrebbero fatto un bagno nel mare. Il poveretto cede e quando torna nella spiaggia e adocchia una tenda con due persone lo aspetterà un'amara sorpresa...
Amare è un po' morire
Totò interpreta il ruolo di Filiberto Comanducci, il presidente di una fabbrica che è al letto ammalato ed assistito dalla amorevole moglie Esmeralda. Il dottore (Adolfo Celi) gli consiglia di fare molta attività fisica e così Filiberto si ritrova a pedalare sulla ciclette, mentre Esmeralda corre via ad assistere un altro malato: il marchese Osvaldo.
Nessun uomo sospetta dell'altro, ma quando entrambi guariscono, Esmeralda troverà una terza persona da curare.
Critica e curiosità
📼 Premessa. O della famiglia italiana come clinica psichiatrica temporaneamente autorizzata.
Siamo nel pieno degli anni ’60, l’Italia sta abbracciando con foga il boom economico e, insieme a frigoriferi e lavatrici, si diffondono anche nevrosi, complessi, frigidità affettive e isterie a conduzione domestica. In questo clima di benessere ansioso, Ugo Gregoretti — regista lucido, satirico e affilato come un bisturi — decide di fare l’autopsia alla famiglia italiana servendosi di una forma perfetta per l’esperimento: il film a episodi. Ne esce fuori Le belle famiglie, raccolta di radiografie tragicomiche su nuclei familiari marcescenti sotto la patina della borghese rispettabilità.
Tra questi episodi — e non poteva essere altrimenti — spunta Totò, non più guitto scalmanato e saltellante, ma un clown senile e tragico, un monumento al grottesco, qui nei panni dell’anziano e decotto Filiberto Comanducci.
🧠 Filiberto Comanducci: ovvero, l’arte sublime della decomposizione industriale.
Totò, al secolo Antonio de Curtis, veste i panni di un capitano d’industria prossimo alla decomposizione, un uomo che vive chiuso in un bozzolo fatto di arteriosclerosi, cuscini ricamati e allucinazioni occasionali. Ma sotto la parrucca, le occhiaie, la mascella tremante e le movenze catatoniche, cova un cuore malinconico, spiazzato dal fatto che la realtà — quella vera — si ostina a fargli visita sotto forma di camion, amanti equestri e mogli crocerossine.
Filiberto non è solo un “tipo” comico, è un archetipo satirico: rappresenta il patriarca decaduto, l’ex potente in pigiama, il monumento della borghesia industriale ridotto a confondere la tachicardia con l’amore e il marasma senile con la visione profetica. Come Antonio La Trippa de Gli onorevoli o Antonio Cavalli ne Il comandante, è una figura grottesca ma tragicamente reale, un “padrone” che ormai è prigioniero del suo stesso dominio (domestico e fisico).
💉 La moglie crocerossina e l’amante equino: una ménage à trois da manuale psichiatrico.
A fare da spalla — o meglio, da delirio parallelo — troviamo Esmeralda, interpretata da una Sandra Milo in stato di grazia nevrotica. Esmeralda soffre di una patologia insospettabilmente moderna: ama solo uomini malati. Non per sadismo, ma per spirito missionario: più l’uomo è arteriosclerotico, febbricitante o pieno di flebo, più lei si sente donna completa.
Con la dedizione di un’infermiera della Croce Bianca e l’entusiasmo di una stalker ospedaliera, misura temperature basali, analizza urina a vista, esplora anfratti diagnostici con zelo medico-legale. Una regina del termometro che si accoppia metaforicamente (ma neanche troppo) con il marchese Osvaldo, amante di cavalli, di sé stesso e del “coccolato” emotivo da parte di Esmeralda.
Il triangolo è chiuso dal professor La Porta (Adolfo Celi), medico curante con piglio da psichiatra rassegnato e l’aria di chi sa perfettamente che tutti, in questa commedia, sono malati terminali: di ipocrisia, decadenza e nostalgia.
📺 Totò: il clown che ride mentre il mondo crolla.
Qui Totò non fa ridere nel senso classico del termine. È una maschera scorticata, una maschera che ride nonostante tutto, con quella sua voce rotta, i gesti trattenuti, la comicità sublimata in mimica e sguardi. La “recitazione consumata” si fa preziosa: è come vedere un funambolo che cammina sulla fune della demenza senile con l’eleganza di un mimo di Marcel Marceau.
Esilarante e patetico, Filiberto vive un’odissea casalinga fatta di:
- Camion immaginari che irrompono in camera da letto come se fossero cavalli dell’Apocalisse (o dell’Iveco);
- Telefonate insensate che paiono fatte dal sottosuolo;
- Visioni che si rivelano realtà, rendendolo il più lucido tra i presenti in scena, ma solo per sbaglio.
🎭 Una farsa, sì. Ma col veleno dentro.
Gregoretti — in quello che è probabilmente il suo film più ambizioso e frainteso — non vuole far ridere. Vuole dissezionare. E il bisturi con cui lavora è affilato: la famiglia, la borghesia, il mito della virilità, la donna angelicata e salvifica (salvifica de che?), il potere malato... tutto viene ridotto a neurochirurgia satirica.
“Amare è un po’ morire” non è solo il titolo di un episodio, è il necrologio della famiglia tradizionale, quella che amava “per dovere”, che proteggeva con l’inganno e curava con lo strozzamento affettivo. Filiberto e Esmeralda sono, in fondo, due facce della stessa alienazione, due relitti sentimentali alla deriva in una casa borghese decorata come un mausoleo.
🎬 Curiosità, retroscena e amarezze di fine corsa.
- La sceneggiatura fu firmata anche da Steno, maestro della commedia e vecchio complice di Totò. Ma la regia è tutta di Gregoretti, che qui mostra un rigore e una visione che spiazzano.
- Totò accettò il ruolo solo dopo aver scoperto che il regista era sposato con una duchessa napoletana: un dettaglio surreale che sembra uscito da un episodio del film stesso.
- Il film andò male al botteghino. Malissimo, in realtà. L’Italia del tempo non voleva vedersi allo specchio, e il film era tutto uno specchio rotto.
- La censura non fu clemente: per alcune sequenze giudicate troppo spinte (in altri episodi), il film venne vietato ai minori di 18 anni, una scelta che stroncò la carriera cinematografica di Gregoretti prima ancora che potesse decollare davvero.
📚 Epilogo: “Amare è un po’ morire”... ma ridere è resuscitare un poco.
Alla fine dei conti, questo piccolo episodio racchiude una straordinaria miniatura d'autore, un ritratto del declino mascherato da sketch, una parabola fra Beckett e Petrolini, dove il comico e il tragico si baciano con la lingua, mentre Totò si lascia alle spalle la maschera per rivelare il volto nudo dell'uomo. Non il principe della risata, ma il clown stanco del dolore umano, che ride solo per non piangere.
E in quel riso — leggero come una piuma ma pesante come una bara — c’è tutta la grandezza dell’attore Totò, che proprio quando non vuol far ridere ci commuove fino alla vertigine.
Le scene più memorabili dell’episodio Amare è un po’ morire tratto dal film Le belle famiglie (1964), con protagonista Totò nei panni dell’industriale decadente Filiberto Comanducci. L’episodio, diretto da Ugo Gregoretti, è un piccolo gioiello di satira borghese, comicità amarognola e demenza da camera da letto.
🛏️ Il risveglio arteriosclerotico
L’episodio si apre con una sequenza magistrale di introduzione al personaggio di Filiberto. È mattina, o forse è sera: per lui non fa differenza. Sdraiato nel letto come un faraone mummificato, circondato da cuscini, suppellettili e uno scenario da malato terminale con gusto déco, Totò/Filiberto blatera frasi sconnesse e ha lo sguardo fisso nel vuoto.
La moglie, Esmeralda (Sandra Milo), entra con passo felpato, armata di termometro e caraffa di urina. Lui borbotta, sospira, tossisce in modo tanto comico quanto verosimile, dimostrando un controllo assoluto del corpo scenico. Questa prima scena, apparentemente lenta, serve da trampolino per farci capire quanto il mondo esterno si sia ristretto alla superficie del suo piumone.
🚛 Il camion nella stanza: surrealtà in pigiama
Una delle scene più surreali e famose dell’intero episodio è l’apparizione del camion. Filiberto, già in preda a un delirio senile misto a paranoia lucidissima, è convinto di avere allucinazioni. Ma, sorpresa: un vero camion entra (idealmente) nella stanza, attraversa le pareti della realtà narrativa, portando con sé un cortocircuito perfetto tra realtà e sogno, malattia e verità.
È una gag felliniana in chiave domestica: un pachiderma meccanico che irrompe nella finta tranquillità borghese della casa, simbolo di un mondo esterno che non si riesce più a controllare. Filiberto, peraltro, non si spaventa più di tanto, ma si limita a dire qualcosa come “Ma allora è vero?”, lasciando lo spettatore a godere del suo sguardo disincantato e dolcemente rassegnato.
📞 Le telefonate del nonsense
Altro momento memorabile è quello delle telefonate deliranti. Filiberto, lasciato solo in casa (o almeno crede di esserlo), chiama qualcuno al telefono con la voce tremante, intervallando frasi scollegate, insulti colti e amnesie temporali. A ogni squillo risponde il nulla o un interlocutore invisibile che sembra provenire da un altro universo.
La comicità qui è costruita su un ritmo lentissimo e su una mimica che sfiora il teatro dell’assurdo. Totò sembra trasformarsi in un personaggio beckettiano, un Vladimiro che telefona a Godot, senza sapere perché. Il telefono è l’oggetto simbolo di un mondo che comunica troppo e male, specchio di un isolamento borghese che non ha più parole vere da spendere.
🧴 Le cure di Esmeralda: amore clinico, amore patologico
Sandra Milo, nel ruolo della moglie-nutrice, dà il meglio di sé in una scena quasi da manuale di psichiatria domestica. Si avvicina al marito con passo cerimoniale, apre una borsetta da infermiera, ne estrae flaconi, garze, termometri, aghi, e comincia a somministrare una cura d’amore che ha più di rituale erotico che di prassi medica.
In questa scena, le battute sono secondarie: è la coreografia del gesto che domina. Il modo in cui Esmeralda misura la pressione, sonda il battito, e quasi accarezza l’arteriosclerosi del marito è un’apoteosi del grottesco, dove l’amore si manifesta attraverso l’accudimento compulsivo. Filiberto si lascia fare con una rassegnazione da ostaggio, in un dialogo tra malato immaginario e salvatrice isterica.
🐎 L’amante marchese e il cavallo fantasma
Altro momento iconico e destabilizzante è quello in cui entra in scena il marchese Osvaldo, amante della moglie, interpretato dal meravigliosamente stralunato Jean Rochefort. Osvaldo, più innamorato dei cavalli che delle donne, appare come un’anomalia nella già anomala situazione.
Filiberto lo guarda senza capire se è reale o frutto del suo delirio, creando una tensione comica perfetta: è davvero lì, oppure è l’ennesima visione?. La risposta resta sospesa, come la recitazione di Rochefort: evanescente, lenta, surreale. L’apice della scena è la conversazione tra i due uomini, dove Osvaldo parla di fantini e ippodromi, mentre Filiberto cerca disperatamente di ricordarsi chi è e perché si trovi in salotto con uno spettro in cravatta.
👨⚕️ La diagnosi del professor La Porta
Entra infine in scena Adolfo Celi, nel ruolo del medico curante La Porta: un personaggio-cariatide, burbero e insieme lucido, che rappresenta la voce della scienza… o della farsa clinica. La scena in cui visita sia Filiberto che Esmeralda è un piccolo capolavoro di comicità surreale.
Il medico prende nota, tocca polsi, guarda la lingua, ma soprattutto guarda il pubblico, come per dire: “Siete davvero sicuri che il malato sia lui?”. Il vero malato è l’ambiente, il contesto, l’istituzione famiglia, ormai ridotta a clinica privata con vista sul crollo nervoso.
L’autoscoperta: Totò e il realismo della follia
Una delle scene più sottilmente toccanti è quella in cui Filiberto ha un momento di auto-riflessione davanti allo specchio. Parla con sé stesso, forse con il suo doppio, forse con lo spettatore. È qui che Totò abbandona per un attimo la caricatura, lasciando emergere una malinconia autentica, quasi insostenibile nella sua sincerità.
Questa scena è importante perché mostra come il comico riesca a diventare tragico senza mai cambiare registro, solo spostando di poco il peso del corpo, lo sguardo, la pausa tra due respiri. È un tocco da maestro, uno di quei momenti che restano incisi nella memoria di chi guarda.
🧠 Conclusione: tra satira e psicoanalisi, la famiglia è un teatro dell’assurdo
Tutte queste scene memorabili concorrono a costruire una tragicommedia domestica in cui Totò non è il solito mattatore, ma un interprete sublime del decadimento umano. Le gag non sono mai fini a sé stesse, ma riflettono un disagio profondo, una critica ferocemente elegante alla borghesia italiana del dopoguerra.
Gregoretti, con pochi mezzi e molto cervello, mette in scena una clinica mentale chiamata casa, dove ogni stanza è una cella, ogni personaggio una diagnosi, e Totò è il paziente più lucido di tutti, proprio perché finge di essere pazzo.
Così la stampa dell'epoca
Come fu accolto Le belle famiglie (con particolare riferimento all’episodio Amare è un po’ morire con Totò), analizzando critica, pubblico e censura dell’epoca, il tutto con lo stile ironico che merita un’opera tanto irriverente quanto sfortunata.
🎬 Accoglienza della critica: tra entusiasmo timido e schiaffoni educati
La critica dell’epoca, come spesso accadeva con i film che osavano mettere il dito nelle piaghe sociali, reagì in maniera tiepida, per non dire freddina con venature glaciali. I giornalisti più progressisti e cinefili (vedi quelli gravitanti attorno a Cinema Nuovo) colsero le ambizioni intellettuali di Gregoretti, il tentativo di ritrarre con sarcasmo la crisi della famiglia borghese e i suoi tic patologici. Ma la maggior parte della critica, abituata a una commedia più rassicurante (e a Totò che faceva le pernacchie, non i monologhi senili), rimase perplessa.
Nelle recensioni dell’epoca si leggono commenti come:
- “Gregoretti ha più talento come teorico che come narratore”
- “Totò sprecato in una cornice poco brillante”
- “Episodi diseguali, scrittura troppo cerebrale”
In sostanza: il film venne considerato un esperimento interessante ma mal riuscito, una specie di satira borghese che voleva essere alta ma inciampava nel parquet del salotto bene.
Tuttavia, qualche voce fuori dal coro lodò:
- La misura interpretativa di Totò, per la prima volta usato con trattenuta dolcezza e malinconia
- L’approccio intellettuale di Gregoretti, più vicino al teatro di Ionesco che alla commedia all’italiana
Il problema? Il film non faceva ridere come ci si aspettava, ma nemmeno riusciva a essere completamente tragico. Un ibrido, dunque, che lasciò molti interdetti e in silenzioso imbarazzo.
🎟️ Accoglienza del pubblico: quando la sala ride... d’imbarazzo
Se la critica fu fredda, il pubblico fu proprio gelido, come se l’aria condizionata fosse stata offerta dalla produzione. Il film ebbe un incasso modesto, quasi invisibile in un periodo in cui dominavano le grandi commedie di Risi, Monicelli, Salce e Loy, con attori come Sordi, Tognazzi e lo stesso Totò… ma in altre vesti.
Il pubblico degli anni ’60 si aspettava da Totò risate fragorose, smorfie e pugni alla cieca, e non certo un industriale arteriosclerotico in crisi di coscienza e identità. La lentezza del ritmo, la sofisticazione dei dialoghi, l’atmosfera da clinica borghese invece che da barzelletta da caserma, resero l’episodio (e il film intero) un prodotto elitario, troppo elusivo per i palati di massa.
Molti spettatori uscirono dalle sale perplessi, e probabilmente si rifugiarono a vedere Sedotta e abbandonata o I mostri, dove almeno si rideva (amaramente, ma si rideva).
Va detto però che una piccola fascia di pubblico intellettuale — insegnanti, universitari, critici militanti — apprezzò lo sforzo di Gregoretti, anche se l’entusiasmo fu più teorico che contagioso.
🚫 Il giudizio della censura: il moralismo a colpi di forbici
Ed eccoci alla censura, sempre pronta a calare come un sipario su qualunque contenuto fosse anche solo vagamente ambiguo.
Pur non essendo un film esplicitamente erotico o blasfemo, Le belle famiglie incappò nella scure moralista proprio a causa dell’audacia psicologica e comportamentale di alcuni episodi (più che per quello con Totò). In particolare:
- Le allusioni sessuali e ambiguità relazionali
- Le dinamiche coniugali non convenzionali
- L’inversione dei ruoli (mogli dominanti, uomini deboli)
- Il ritratto di una famiglia nevrotica e potenzialmente amorale
Questi elementi furono percepiti come potenzialmente corrosivi per la morale pubblica. Il risultato? Il film fu vietato ai minori di 18 anni. Un colpo durissimo.
Questo tipo di censura non solo stroncò le possibilità commerciali, ma condannò Gregoretti all’ostracismo cinematografico. I produttori, fiutando lo scandalo o anche solo il disinteresse, si guardarono bene dal finanziare nuovi progetti del regista per il cinema. Gregoretti, di lì a poco, tornò al documentario, alla televisione e al teatro, settori meno soggetti ai diktat della distribuzione e più aperti alle sue inquietudini espressive.
📉 L’eredità postuma: rivalutazione lenta ma inevitabile
Oggi, a distanza di decenni, l’episodio Amare è un po’ morire viene riscoperto con attenzione e rispetto da storici del cinema, critici raffinati e cultori di Totò in chiave malinconica. Si sottolineano:
- La lucida decostruzione della famiglia borghese
- La recitazione trattenuta, struggente e quasi cechoviana di Totò
- La scrittura intelligente e spiazzante
- L’estetica povera ma densa di significato simbolico
Insomma, ciò che fu considerato un fallimento negli anni ’60, oggi è letto come un esperimento coraggioso e anticipatore, che ha osato toccare temi che sarebbero esplosi solo negli anni ’70, con il cinema d’autore più esplicito e destrutturato.
🧾 In sintesi: una ricezione in tre tempi
Aspetto | Reazione Anni '60 | Esito Oggi |
---|---|---|
Critica | Tiepidamente incuriosita, ma fredda | Rivalutazione da parte dei cinefili |
Pubblico | Disorientato, poco coinvolto | Interesse di nicchia, cult underground |
Censura | Vietato ai minori di 18 anni | Caso di studio su moralismo borghese |
Per fortuna dell'episodio (e del film) Totò ingrana un paio di suoi numeri [...].
Ugo Casiraghi, 1964
Il cortometraggio più originale e ambizioso viene girato nel '64 da un giovane autore sperimentale, Ugo Gregoretti. Amare è un po' morire è l'episodio più corposo del film a episodi Le belle famiglie, grottesca ricognizione in quattro capitoli nell'universo della famiglia. L'idea di prendere Totò è del produttore Giuseppe Colizzi, che diventerà famoso firmando i western all'italiana I quattro dell'Ave Maria e Dio perdona, io no. «Sinceramente», ricorda Gregoretti, «a me Totò non sembrava il protagonista giusto perché avevo in mente qualcosa di un po' più sofisticato, comunque era chiaro che se Totò avesse accettato i soldi per fare il film si sarebbero trovati».
Alberto Anile
Gregoretti tiene d'occhio la «cassetta»
Sta girando «Le belle famiglie». Dopo l'esperienza negativa del suo ultimo film il regista ha paura che si dica che egli fa perdere soldi ai produttori ed ora si è imposto il proposito di fare della sua nuova opera un «campione di incassi» - Le complesse ragioni per le quali il cinema italiano produce film a costi altissimi
Il regista Ugo Gregoretti sta girando «Le belle famiglie», un film in cinque episodi il cui soggetto è stato scritto dallo stesso Gregoretti e la cui sceneggiatura egli ha steso in collaborazione con Steno. Dopo l'esperimento di «Omicron», che lo stesso autore giudica piuttosto sfortunato. Gregoretti tenterà, con questa nuova opera, di gettare un ponte che lo ricolleghi al suo primo film, «I nuovi angeli», pur tenendo conto di esperienze che nel frattempo hanno avuto notevole successo. Ci riferiamo a film come «I mostri». «Parliamo di donne», «Alta infedeltà». ecc. tutti appartenenti al cosiddetto filone satirico. La satira di costume sta indubbiamente attraversando un periodo di favore presso il pubblico e Gregoretti (il Gregoretti non dimenticato del televisivo «(Controfagotto»), nella satira, come suoi dirsi, ci inzuppa il pane.
«La satira — dice Gregoretti — sente ad accelerare la distruzione dei vecchi miti e a contenere l'esplosione delle nuove usanze. In momenti come questo, momenti di transizione, che la società contemporanea attraversa, la satira è salutare e la gente dello spettacolo se ne serve perché e molto raro che faccia arrabbiare qualcuno mentre è certo che, quando è centrata, fa divertire tutti».
I cinque episodi di «Le grandi famiglie» narrano altrettanti casi-limite. Vi si racconterà, tra l'altro, li caso di una signora che si divide amorevolmente tra il marito e l'amante soltanto per-
ché ambedue, malati, le danno la possibilità di appagare il suo morboso bisogno di essere servizievole. ts elusi vista, protettrice degli afflitti; il caso di una famiglia siciliana in cui il padre, in virtù di un malinteso senso dell’onore, vorrebbe obbligare la figlia ad un matrimonio che non le va; il caso di una bambina nata da due coniugi modernissimi, fedeli seguaci del mito tecnologico. Che viene quasi seviziata dai genitori desiderosi di fissare sulla pellicola il «primo capriccetto» della piccola che, poverina, di capricci, non intende proprio farne.
— Con il suo nuovo film, Gregoretti, si propone obbiettivi precisi?
— Si. Mi propongo soprattutto di rimontare la mia situazione personale dopo la negativa esperienza di «Omicron». il mio film tartassato, trattato male a Venezia. distribuito male, lanciato male «Le belle famiglie» è, in un certo senso, un film di recupero, per cui, pur rimanendo fedele ai temi dei miei esordii, mi distacco parzialmente da essi per aderire principalmente ad una più accentuata esigenza narrativa. Io, tutto sommato, sono un esordiente. Mi preoccupo di non perdere battute. Non so fare altro che questo mesnon posso permettermi di uscire dalla scena così in fretta...
— Mi sembra che lei esageri. «Omicron» non è stato proprio un fiasco.
— Ha incassato poco. E io non voglio che si dica che faccio perdere quattrini ai produttori. Inoltre c’è la crisi io mi ritengo già fortunato, nella mia situazione, d'essere stato scritturato per dirigere un nuovo film. Ora tutti i miei sforzi sono tesi a fare di questo film un «campione di incassi».
— «Le belle famiglie» non sarà dunque un film «impegnato?».
— Non in senso assoluto. Il mio solo obbiettivo, è quello di far guadagnare chi ha impiegato i soldi, anche se ciò rappresenta per me un passo indietro.
— Io sono venuto sul «set», sere fa, per assistere ad una ripresa. Vi sono rimasto due ore e un quarto e in questo tempo ho veduto girale una sola inquadratura. Badi: non rivolgo un appunto a lei; so bene che avviene sempre cosi. Ma le chiedo se questo sia un buon sistema per Incoraggiare chi investe soldi sul cinema. In altri termini: non crede che si dovrebbe trovare un modo migliore per risparmiare tempo e danaro? Non crede che i costi altissimi dei film italiani derivino proprio da una cattiva organizzazione?
— Le colpe sono un po’ di tutti: dei sindacati, che non sono riusciti a formulare dei contratti seri e dei regolamenti ferrei come in Francia e in America, dell’organizzazione, che ha un assetto decisamente artigianale, dell’indisciplina di alcuni attori, delle pretese di alcuni registi. Ma forse proprio per questi difetti strutturali il cinema italiano ha ottenuto i risultati artistici che tutti conosciamo. All’estero è possibile raggiungere i medesimi risultati perché la gente del cinema è il prodotto di una società diversa. Sono le strutture sociali che formano la mentalità e la coscienza dei lavoratori, a tutti i livelli.
Il film «Le belle famiglie» è prodotto da Giuseppe Colizzi per la Crono Film - Archimede Film Roma in coproduzione con la Number One di Parigi. E’ interpretato da Totò, Sandra Milo, Annie Girardot, Sonhie Daumier, Jean Rochefort, Tony Antony, Susanne Clemm, Susy Andersen, Guy Bedos. La sorpresa del «cast» è costituita dalla presenza di Nanni Loy che ha lasciato temporaneamente i panni.di regista per trasferirsi in quelli di attore.
Luciano Chitarrini, «Il Messaggero», 14 settembre 1964
La bella Sandra Milo ha sposato Totò
Matrimonio sul set del film di Gregoretti "Le belle famiglie"
Per la prima volta nella loro carriera Sandra Milo e Totò, vale a dire il Principe Antonio De Curtis Comneno Focas di Bisanzio, si incontrano «set» e per di più nella intima libertà di un rapporto matrimoniale. Si tratta del nuovo film di Gregoretti «Le belle famiglie» diviso in cinque episodi che vuol essere un rapido panorama di vari aspetti della vita familiare nel nostro paese. Naturalmente l’occhio scanzonato e ironico del regista coglie gli aspetti più singolari delle situazioni che, pure, sono all'ordine del giorno. Ne risulta che il film si compone di cinque casi-limite, cinque paradossi che tuttavia sono una satira molto chiara e pertinente del costume del nostro Paese. Ecco qui Sandra e Totò: lui un industriale non del tutto sano di mente, lei, la bella, giovane moglie che adora l'anziano marito perchè può dare sfogo a una insana mania di protezione che si sfoga in iniezioni, massaggi, cataplasmi e pillole prodigate al malato fino a quando il poveretto, malgrado tutto questo, guarisce e la moglie di colpo lo abbandona per dedicarsi appassionatamente a un altro uomo bisognoso di cure.
Totò da un po’ di tempo manca dai «set», si è preso un periodo di meritato riposo e ora ricompare, dinamico e vivace come sempre, ristorato, abbronzato e pieno di verve nella nuova caratterizzazione dello «svitato» che il copione scritto dallo stesso Gregorettì, gli offre. Con un po’ di fatica si arrampica su una «Cyclette» azzurra e nella sua mente complicata immagina di trovarsi su una autostrada e di rischiare a ogni piè sospinto un incidente mortale mentre la bella moglie gli segnala i pericoli della strada e lo aiuta a superarli. Sandra Milo, in audace «desabillé», risplende di tutta la sua simpatica, attraente bellezza. Lo enorme successo personale conquistato con il geniale personaggio del film di Fellini «Otto e mezzo» ha giovato all’attrice, che si è compieta-mente liberata di un vago complesso di inferiorità che le veniva dal fatto di sentirsi soltanto una «maggiorata» e le ha consentito ima nuova libertà d’espressione e di pensiero, una autorità e una coscienza di sè che fanno valere la sua personalità veramente sorprendente e piena di una umanità affascinante.
Estrosi e originali ciascuno per il suo verso i due attori si trovano benissimo insieme, le «gags» di Totò sono valorizzate dagli sguardi coloriti di Sandra mentre gli occhi impertinenti del grande comico aiutano l’operatore a valorizzare le grazie non meno illustri della bella partner. Ugo Gregoretti dà rapidamente qualche istruzione, la sarta rialza una spallina del «negligé» di Sandra che si ostina a cadere con grande soddisfazione di tutta la troupe e si gira «Un’iniezioncina?» — propone Sandra col tono caramelloso di chi dice a un bambino «un cioccolatino?». «Basta co’ le iniezioni!» risponde sepolcrale Totò. «Una pillo-letta?» «Basta co’ le pillolette!». «Un impiastrino?». «Basta co’ gli impiastri!», urla Totò scaraventando il cuscino in faccia al medico che entra in quel momento e che prende la frase per un insulto personale.
Rapidi e precisi i due attori se la sbrigano subito e in due «ciak» la scena è terminata e si cambia. Il regista Ugo Gregoretti, che ha ideato questo film e ne ha scritto insieme a Steno la sceneggiatura, si vuole riallacciare al fortunato filone inaugurato da lui stesso con «I nuovi angeli» e continuato da «I mostri», «Parliamo di donne», «Alta infedeltà» ecc. La satira di costume sta attraversando un momento di enorme favore presso il pubblico che ha decretato al film di questo tipo un successo generale e incontrastato. Quale potrebbe essere la ragione di questa preferenza?
«Probabilmente — dice Gregoretti — dipende dal fatto che la vita sociale nel nostro paese è in un momento di transizione. Cioè: la struttura base della società è ancora di tipo ottocentesco, ma su questa e a distruzione di questa in quasi tutti i settori si sono sovrapposti e si vanno sempre più sovrapponendo le nuove strutture spesso compieta-mente antitetiche. La vita familiare è forse l’espressione della società più colpita da questo divario e s’incontrano tutti i giorni, si vedono, si leggono sui giornali, fatti legati a una morale da medioevo, come delitti d’onore, sfregi per gelosia, rapimenti, sequestri di persona, e fatti possibili solo nella vita d’oggi, con la morale d’oggi e la velocità d’oggi: frenesie vandaliche di giovanissimi per cantanti e attori, relazioni amorose disinvoltissime ampiamente reclamizzate dal giornali, gente che si proietta da una parte all'altra in poche ore e gente che addirittura se ne va sulla Luna o quasi. La satira, in momenti come questi, è fondamentale; serve ad accelerare la distruzione dei vecchi miti e a contenere la esplosione delle nuove usanze che al loro apparire tendono sempre ad essere eccessive. D’altra parte è proprio in queste situazioni di transizione che la satira, sempre divertente e spettacolare, diventa uno strumento di tutto riposo per la gente dello spettacolo, perchè è molto raro che faccia arrabbiare qualcuno mentre fa certamente ridere tutti. Non esiste quasi, infatti, la persona che appartiene completamente al vecchio e al nuovo mondo, come non esiste il cattivo nero, nero e il buono bianco, bianco. Ciascuno ha in sè cose nuove e vecchie tanto mescolate, tanto personali che non somigliano neppure ai caso-limite, schematici ed esemplari che la satira è sempre costretta a scegliere per esprimersi con efficacia».
«Dunque lei nel suo film racconta dei casi-limite?». «Naturalmente! E, dando un colpo al cerchio e uno alla botte, nel film troviamo la famiglia siciliana in cui il padre ordina alla figlia un matrimonio che non le va e le prime ore di vita di una bambina nata da genitori modernissimi amanti dei mezzi tecnici, per cui la povera neonata, nemmeno, si può dire, ancora nata del tutto, viene scotolata e strapazzata perchè il padre possa riprendere con la sua 16 mm. la scena del suo primo capriccio».
«Insomma lei che conclusione si propone di trarre dalle storie che racconta?», «Guardi, io non mi propongo proprio niente. Questi contrasti della nostra vita sociale mi divertono e so benissimo che divertono il pubblico. La satira, quando è fatta acutamente ha in sè una funzione educativa e le conclusioni si traggono da sole. Io al massimo, mi propongo di fare un film acuto e divertente' che sia apprezzato dal pubblico».
«Le belle famiglie» è prodotto da Giuseppe Golizzi per la Crono Fìlm-Archimede Film Roma in cooproduzione con la Number One Parigi. E’ interpretato da Totò, Sandra Milo, Annie Girardot, Sophie Daumìer, Jean Rochefort, Tony Antony, Guy Bedos, Susy Anderson e in una parte di rilievo il regista Nanni Loy.
«Piccolo Sera», 19 settembre 1964
Se mai ce ne fosse stato bisogno, Le belle famiglie conferma il formato televisivo di Ugo Gregoretti. I nuovi angeli (appunto per la sua frammentarietà, la brevità degli sviluppi narrativi, certa osservazione diretta), resta la sua prova più riuscita. Omicron ( soprattutto per chi aveva avuto la possibilità di confrontare la prima con la seconda edizione) denunciava la incapacità di Gregoretti a organizzare un racconto, a fissare un equilibrio della materia. La polemica sociale, la vena ironica, restavano in superficie; la lezione morale si frantumava in «scheccettoni», barzellette, parolacce; e gesti sconci, anche. Tutto sommato, lo stesso arsenale al quale attingono sceneggiatori e registi di mediocre forza, ma esposto con sussiego ed ambizione, con velleità e pretese di anticonformismo e di denuncia.
Le belle famiglie è un film ad episodi; quattro per l’esattezza. Gregoretti li ha ideati, sceneggiati e diretti: nessuna attenuante, quindi. Sono, tutti insieme, inferiori anche al modesto episodio incluso nell’antologia di Rogopag. [...] Amare è un po’ morire. Impreciso anche il titolo. Se mai: è un po’ far morire. Sandra Milo ricalca, tale e quale, il personaggio di un altro episodio di Mauro Bolognini, ne La donna è una cosa meravigliosa: quello, appunto, della donna infermiera, patologicamente scavata dal complesso materno, impegnata a soccorrere marito ed amante, con eguale sadico egoismo. La presenza di Totò e della Milo avrebbe potuto rendere sopportabile questo ultimo episodio: se non intervenissero le intemperanze, le cadute, le smagliature, proprie del temperamento del regista.
a.s. (Alberico Sala), «Corriere dell'Informazione», 31 dicembre 1964
Il disco di Ugo Gregoretti, soggettista, sceneggiatore e regista satirica sociale, continua a girare su se stesso senza decollare. Appena si stacca dal terreno dello sketch e dalla farsa comincia a tossire e a gracidare; ha un guizzo, una impennata estrosa, e subito ricade di sbieco. Se preferite, il cinema di Gregoretti è un aquilone che potrebbe spiccare brevi voli se all'altro capo del filo ci fossero il cuore e la fantasia d'un artista, e non, come qui, una manina livida e grassoccia che lo artiglia al suolo d'una polemica senza costrutto. Dopo Omicron, che doveva sardonicamente denunciare la penosa condizione degli operai sfruttati dal capitale. ecco Le belle famiglie, al quale sarebbe affidato il compito di smitizzare la sostanza degli affetti domestici nell'Italia di oggi. Orbene: seguitando di questo passo, Gregoretti rischia di invecchiare anzitempo, e di corrodere nell'acido di uno zitellaggio intellettuale ormai privo persino d'amarezza quel piccolo ma sonante gruzzolo di civile umorismo che ci fece apprezzare I nuovi angeli, la sua prima prova.
La ragione per cui Gregorettl è un autore cinematografico che non fa sensibili progressi, anzi per voluttà di provocazione si invischia in un sarcasmo da saputello, sta nella sua scarsa capacità di elaborare un racconto (qui confermata non soltanto dalla spezzatura del discorso in episodi, ma dalla loro sconnessione narrativa: lampante nel terzo) e dalla iattanza con cui presenta come nuove delle idee fatte, raccolte in un magazzino di luoghi comuni già saccheggiato dai collezionisti di battute, situazioni e umori che non appartengono tanto alla critica di costume, come forse crede Gregoretti, quanto a un repertorio di spiritosaggini grossolane e talvolta al polverume del più Inelegante avanspettacolo. Che Gregoretti non sia un bravo narratore non è poi un grandissimo guaio; nel cinema c'è posto per tutti, e dobbiamo sempre preferirlo a molti registi dozzinali anche nel modo di esprimersi (perchè Gregoretti è quasi sempre formalmente corretto); ma che non voglia rinfrescarsi il gusto e la mente, e preferisca continuare a sparare a panettoni di neve contro bersagli che oltretutto sono già da un bel pezzo feriti al cuore, e insomma che insista, anziché prestare occhi e mani alle idee altrui, nel rovesciare i suoi brodini di arsenico allungato col limone sulla barbarie della Sicilia, sulla depravazione della borghesia settentrionale, sul gallismo del bulletti romani. sul rincretinimento dell'alta società, a noi sembra che sia. questo si, una sorta di masochismo. Perciò dedichiamo al suo ultimo film più attenzione di quanto sembra meritare: per tentare di lanciargli umilmente una ciambella di salvataggio.
Cosa abbiamo infatti di nuovo nelle Belle famiglie (titolo d’un'ironia crudele, se è vero che gli affetti familiari sono l'unica dolcezza rimastaci)? [...] L’ultimo episodio. «Amare è un po' morire», sbeffeggia industriali e patriziato nelle persone di due mentecatti, l'uno — il sempre esilarante Totò — presidente d'una fabbrica di frigoriferi (e talmente riconoscibili che se non ci scappa una querela c’è da chiedersi a quali forme d’autodenigrazione arriveranno le aziende che continuano a servirsi della pubblicità cinematografica), l'altro — Jean Rochefort — campione di equitazione, ambedue coccolati dalla rispettiva moglie e amante: una Esmeralda (Sandra Milo) premurosamente spinta dall'istinto protettivo a cullarli, curarli e scarrozzarli come una mamma-infermiera-bambinaia, e a sentirsi tradita, fino a uscir di senno, quando i suoi due uomini guariscono. Ma il medico di casa, che la donna aveva sino ad allora respinto perchè non soffriva d’alcun malanno. esce menomato da un incidente. Avendo di nuovo qualcuno da vezzeggiare, eccola tornata felice. (Un signorile particolare: con questo episodio entra nella storia del cinema italiano un «pappagallo» e il riflesso d’un filamentoso liquido organico).
Troppo spinto nella caricatura il primo, di gusto assai dubbio il secondo e il terzo, soltanto il quarto episodio, nonostante la goffaggine della parodia, avrebbe qualche merito di invenzione per la figura dolce dolce della protagonista, che colleziona, infiocchettate come lettere d'amore, le ricette dei suoi malatini, e poi, quando si sente abbandonata, le trasforma in palle di fuoco: ma in realtà è la variazione di un tema già largamente usato da Guerra e Salvioni nel film La donna è una cosa meravigliosa di Bolognini, proprio per la stessa Sandra Milo (che ormai deve guardarsi dal far bloccare le proprie risorse in un dado di zucchero). Perciò Le belle famiglie ha poche frecce autentiche: quanto non prende da I nuovi angeli o non raccoglie nel torbido fiume della volgarità contemporanea e della pesante ironie protestataria, resta al livello d'uno spirito a bassa gradazione: quanto basta per far ridere le platee, ma appena ravvivato, agli occhi di un pubblico non sguaiato, da quelle minute, e talvolta senza dubbio precise, lancinanti osservazioni grottesche, in cui si va ormai frantumando l’originaria ispirazione unitaria del moralista Gregoretti.
Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 31 dicembre 1964
Poiché a Ugo Gregoretti non manca certo l'ingegno, è da ritenete che questa volta gli abbia fatto difetto la pazienza o il tempo necessari per costruire, da quattro spunti iniziali non privi di una certa loro forza poIemica o comica, quattro racconti che, da quegli spunti, potessero trarre con sufficiente respiro una struttura narrativa meno occasionale e dispersa invece ognuno degli episodi procede a casaccio, chiedendo soccorso ad elementi spuri e spesso di lega scadente. Siamo, con il primo raccontino, in Sicilia (se per Sicilia possiamo intendere quella specie di astratta regione immersa in profondo sonno barbarico che il cinema italiano si ostina a presentarci). C’è una figlia maltrattata e bastonata da un padre e da tre fratelli. O sposerà chi vogliono loro o sarà rinchiusa in Convento. La ragazza sta per cedere, ma avendo visto come si svolge la vita in convento in serenità, pace e letizia, cambia idea: meglio il convento che una vita di miseria o umiliazione. Una traccia di racconto c'è, ma è soffocata nel manierismo più contrastante e nella convinzione, del tutto infondata che il sadismo costituisca efficace materia di divertimento. Nel secondo episodio, interpretato da Nanni Loy, popolare autore cinematografico e televisivo, si capovolge un tipo tradizionale di rapporto coniugale. Il marito non è geloso della moglie, ma di un bizzarro cameriere vietnamita. Nel terzo episodio è di scena un esponente del gollismo bullo-romanesco, alle prese con una disinvolta coppia di turisti tedeschi. Nel quarto episodio, il più costruito e, tutto considerato, il più divertente c'è Sandra Milo che divide il suo affetto fra due uomini il cui fascino è costituito dalle precarie condizioni di salute.
Il proposito dei film è abbastanza chiaro: sovvertire gli schemi tradizionali della commedia per offrirne una interpretazione bizzarra e inconsueta, ma i risultati sono mediocri, o addirittura discutibili: le enunciazioni moralistiche restano allo stadio di didascalia, non si risolvono mai nei racconto e gli spunti comici, che pure non mancano, derivano da singole situazioni o dall’apporto degli interpreti, fra i quali fa spicco l’intramontabile Totò, e non dal disegno degli autori, che sembrano più spesso affidarsi all’improvvisazione del momento. Il pubblico si divertirà? Può darsi, perché il film gli concede tutto il possibile, sul piano della farsa abbastanza volgare, ma questo, evidentemente non costituisce titolo di merito per il film.
P.V., «Il Popolo», 31 dicembre 1964
Sono quattro parodie, tutte più o meno all'insegna dalla vecchia battuta dal Marc’Aurelio tulle «belle famiglie italiane». La prima, Il principe azzurro, è, tanto per cambiare, la parodia di una famiglia siciliana così truce che la figlia, pur di sottrarvisi, corre a farsi monaca, confondendo, nella sua testa un po' bislacca (resa anche più bislacca dalla tv) la Religione con il Principe Azzurro di Biancaneve. La seconda (Il bastardo della Regina) è la parodia di una famiglia milanese in cui non si capisce bene se del domestico debba essere geloso il marito o non piuttosto la moglie. La terza (La cernia) è eccezionalmente la parodia di una famiglia tedesca, ma l'italiano c'è sempre: è un latin lover che, com’era prevedibile, dopo aver puntualmente recitato l'intero repertorio della sua categoria, se ne va via con le pive nel sacco. La quarta (Amare è un po' morire) è la parodia di un'altra parodia, quella già tentata da Mauro Bolognini nel secondo episodio della Donna è una cosa meravigliosa; e ancora una volta, cosi, ritroviamo di fronte a una donna che ama negli uomini solo la debolezza e le malattie, per poter eaaere non solo moglie e amante ma anche, e soprattutto, infermiera, istitutrice, madre.
Tutte e quattro le parodie sono state dirette da Ugo Gregoretti con gusto più che dubbio, nel clima, esasperato e sgradevole. di quelle caricature a mezza via tra il grottesco e la farsa con cui, da qualche tempo, si è reso tristamente famoso Marco Ferreri. Non c'è misura nel personaggi, non ri sono mai limiti allo scherzo, non c'è garbo nella satira; quel tanto di intellettuale, anzi, e di letterario che fa capolino qua e là tra le pieghe dai raccontini, è avviato sempre verso note stridenti, quasi più che al riso si tenda al fastidio a un fastidio scambiato per divertimento e gabellato quale frutto di un'analisi spregiudicata del costume italiano contemporaneo (mentre invece — ci dispiace per Gregoretti che l’ha firmata — è solo una ennesima variante, e non certo fra le migliori, del più diffusi e stantii luoghi comuni sulla Sicilia, gli snobs, gli amanti latini e il matriarcato)
Fra gli interpreti (costretti con eccessiva frequenza ad assumere gratuite pose pagliaccesche), Annie Girardot, nel panni di una siciliana che sembra doppiata da uno dei Franchingrassia, Susy Andersen e il regista Nanni Loy. l'Improbabile coppia milanese, Tony Anthony, un americano «tradotto» in romanesco e il duo Totò-Sandra Milo che, con troppa evidenza, ricalca il duo Sandra Milo Alberto Sordi nella Donna è una cosa meravigliosa.
Gian Luigi Rondi, «Il Tempo», 31 dicembre 1964
Dopo il felice «I nuovi angeli» e il meno felice «Omicron», Ugo Gregoretti ritrova occasione di esprimere il suo tipico gusto per la satira tanto agile quanto spietata in questo terzo film composto di quattro distinti episodi tenuti assieme dal tema indicato nel titolo: «Le belle famiglie». L’attributo «belle», naturalmente, è ironico. Le famiglie in questione sono scelte tra le piu terribili della nostra epoca, un episodio ha per esempio come protagonista una povera fanciulla sicula che genitori e fratelli tartassano al punto di farle trovare invidiabile la vita monacale.
Un altro, attraverso le disavventure di un bulletto romano, descrive l'amoralità di una a tedesca scesa in vacanza in Italia allo scopo di concedersi marito da una parte, moglie dall’altra, liberi svaghi erotici. Poi c'è la storia di una signora «bene» che per ingelosire il marito s’introduce in casa un raffinato cameriere vietnamita e finisce come i classici pifferi di montagna. E la pennellata finale al poco ortodosso quadro è data da un'altra signora capace di amare soltanto chi abbia bisogno di assidue cure mediche. Il tono della regia è alquanto disuguale: a trovate quasi geniali si alternano infatti momenti di caricatura eccessivamente meccanica. Ma nel complesso il film è divertente ed efficace, riuscendo appieno Gregoretti nei suoi agrodolci intenti sarcastici.
Generalmente buoni sono anche i molti interpreti, diversi da episodio a episodio. Ricordiamo Totò, spassosissimo nei panni del manto artcriosclerotico: Nanny Loy, non meno gustoso in quelli del marito vietnamizzato: e ancora Susv Andersen, Tony Anthony, Adolfo Celi, Jean Rochefort. Fino a due grandi attrici: Annie Girardot, la cui caratterizzazione siciliana comporta un'esilarante imitazione della Biancaneve di Walt Disney; e Sandra Milo, che nelle ansie della moglie patomane raggiunge effetti comici da superare ancora una volta sè stessa, con finissimo sense of humour. Giusta la musica. Bianco e nero.
bir. (Guglielmo Biraghi), «Il Messaggero», 31 dicembre 1964
Il gusto della satira, tipico del regista Gregoretti, lo si ritrova in questo suo film a episodi. Più che di «belle» famiglie si tratta qui di famiglie «terribili», paradossali nei componenti e nel fatti da costoro determinati. Una signora «bene», per esempio, che ingelosisce il marito servendosi d'un raffinato domestico vietnamita; poi una coppia tedesca in vacanza italiana allo scopo di concedersi, marito di qua e moglie di là, liberi svaghi erotici. In seguito ecco la storia della fanciulla siciliana che dalla malvagità di genitori e fratelli è così prostrata da rassegnarsi a prendere i voti in un chiostro. Infine conoscerete una signora, che ha i tratti svagati di Sandra Milo, incapace di amare gli uomini se essi non sono malati. Diretto con intenti sarcastici, il film, in bianco e nere, ha, oltre alla Milo, interpreti quali Totò, Annie Girardot, Tony Anthony, Susy Andersen
«La Stampa», 21 gennaio 1965
Chi ci libererà dal cinema a episodi? Non, per il momento, Ugo Gregoretti, che dopo un felice esordio («I nuovi angeli») è caduto con «Omicron» e non si risolleva coi quattro aneddoti di Le belle famiglie, dove certa satiretta alla società borghese, preannunciata dal titolo ironico, risulta confezionata per luoghi comuni. Nel primo, «Il principe azzurro», una ragazza siciliana (Annie Girardot), maltrattata dalla famiglia, dopo aver inutilmente cercato evasione nei caroselli televisivi, si sottrae a un odioso matrimonio rendendosi monaca di clausura; nel secondo, «Il bastardo della regina», una moglie (Susy Andersen) cerca d'ingelosire il glaciale marito facendosi corteggiare da un innocuo servo vietnamita, col risultato che il marito licenzia la consorte e si tiene l'effeminato domestico; nel terzo, «La cernia», interpretato da Tony Anthony, un bullo di spiaggia è punito con le sue stesse armi dal marito d'una turista tedesca da lui conquistata; nell'ultimo, «Amare è un po' morire», Sandra Milo, affetta dal complesso vagamente iettatorio della coccolatrice, divide le sue tenerezze fra il marito e l'amante finché questi sono malati, invelenisce poi quando entrambi risanano, salvo a ritrovare una ragione di vita, quando il medico di casa, che le aveva fatto inutilmente la corte, si rompe le ossa in un incidente d'auto.
Più elaborato dei precedenti, che si esauriscono nello spunto iniziale di poi tirato a paradossali sviluppi non sempre assistiti dal buon gusto, l'ultimo episodio deve molto alla presenza di Totò (il marito) che ci restituisce il piacere di ridere in presa diretta, fuori delle combinazioni chimiche d'una satira ormai corrosiva soltanto per chi la fa; mentre la Milo, pur brava, risente dell'assuefazione a un personaggio ormai abusato.
l.p. (Leo Pestelli), «La Stampa», 22 gennaio 1965
Ugo Gregoretti si è divertito a trovare le storture e le mamagne che si nascondono dietro l'irreprensibile facciata delle cosiddette «belle famiglie»: quattro episodi, tutti un po' facili, non sempre castigatissimi di gusto, che tirano a conclusioni paradossali uno spunto spesso gustoso.
Si va dalla disgraziata radazza siciliana che trova la vera evasione non già negli espedienti suggeritile da un settimanale femminile, ma in un convento di sepolte vive, alla signora perbene che volendo ingelosire il marito mediante un efebico servo vietnamita è servita di barba e di parrucca; dalla giusta punizione d'un bullo di spiaggia che mena vanto delle sue conquiste femminili, al calamitoso penchant d'una giovane sposina ad amare marito e amante solo e flnattanto che essi sono malati e si lasciano coccolare. Quest'ultimo aneddoto, anche per la salutare presenza del sempre ameno Totò, e della «svampita» per eccellenza Sandra Milo, è il più divertente.
l.p. (Leo Pestelli), «Stampa Sera», 22-23 gennaio 1965
Origine: Italia - Gemere: commedia umoristica - Prod.: Crono film, Archimede film, Les films number one - Regìa: Ugo Grego-retti - Interpr.: Totò, Sandra Milo, Annie Girardot, Nanni Loy - Sogg. e scenegg.: Ugo Grego-retti e Steno - Fot.: Ajace Parolini - Mus.: Armando Trovajoli -Distr.: Indipendenti regionali — Giudizio del C.C.C.: Escluso.
Giovane realizzatore non sprovvisto di talento e dotato del raro pregio di concepire e realizzare le proprie storie senza bisogno di demiurghi, Ugo Gregoretti — occorre riconoscerlo — non ha
saputo, in qualche anno di attività cinematografica, superare di fatto il respiro e la misura del bozzetto televisivo. Alia televisione Gregoretti aveva inventato uno stile tutto suo, un giornalismo antigiornalistico per eccellenza, fatto di «pezzi» dettati da uno spirito aristocratico, forse un po’ maligno, ma preciso e aggressivo come pochi altri. Al cinema ha conservato questa sua misura, superando sin dalla prima prova l’equivoco del «giornalismo» e dimostrandosi narratore, anche se un narratore celato nel bozzetto, nascosto dietro l’espediente del «brano di vita».
Se con Omicron, soprattutto dopo la coscienziosa «revisione» operata dal regista dopo l’affrettata presentazione veneziana, Gregoretti sembrava sulla via di superare il bozzetto, di cimentarsi in una narrazione dal respiro più ampio e articolato, l’episodio di Le più belle truffe del mondo ed ora questo Le belle famiglie ci ripropongono un Gregoretti tornato alla sua «misura» abituale, tornato ad essere l’inventore, l’animatore e il regista di una serie di bozzetti che con la realtà conservano solo un legame parodistico e paradossale. Né d’altra parte si può farne una colpa a Gregoretti. In fondo, ad essere onesti, se ci deve essere un inventore in testa al «genere» del film comico a episodi che oggi, insieme ai macisti, ai film-sexy e ai western truccati, regge la bandiera della produzione cinematografica nazionale, questi non può essere che Gregoretti e il suo modo di far televisione (anche se non vanno dimenticati alcuni antenati illustri, come gli «zibaldoni» di Blasetti).
Dunque Gregoretti è tornato al bozzetto, all’episodio, e fin qui nulla di male: non è che la necessaria «marcia indietro» di un autore comico travolto da una moda che egli stesso ha contribuito a creare. Ma il peggio è che gli episodi dell’ultimo Gregoretti fanno il verso, in maniera stanca impacciata talora urtante, agli episodi del primo Gregoretti, di cui rappresentano una riproposta meno sentita e felice: si pensi alla Sicilia dell’epi sodio II principe azzurro, la stessa Sicilia odiata, sinonimo di depravazione e di bar barie, che spuntava dal western umoristico de I nuovi angeli, una Sicilia che non riesce neanche a giungere al grottesco ma che è una vera e propria raccolta di mostri, ritratti con uno spirito acre, con una cattiveria così spinta da rischiare il gratuito; si pensi all’episodio balneare-ama-torio di La cernia, riedizione scorretta dell’analogo episodio, di vago sapore felliniano, inserito in I nuovi angeli. E così via: la fabbrica, il salotto borghese, le infedeltà coniugali, ecc.
Che Gregoretti possa essere autore graffiarne, moderno, resta per noi un fatto appurato, che questo film sia per altro la prova più stanca e «inutile» da lui fornita è altrettanto evidente. Ridotta nei termini di un’aggressività che fa il verso a se stessa, di un umorismo a corto di spunti che è costretto a inseguire la «battuta», la rappresentazione di Gregoretti scricchiola in più parti, per cui anche le concessioni erotiche, la ricerca della situazione compiacente, lo sfruttamento dei «doppi sensi» da avanspettacolo, risultano del tutto gratuiti. E in definitiva i soli momenti di comicità che il film ci regala, ove si voglia rinunziare allo scherzo di dubbio gusto e alla battuta volgare, sono quelli di una comicità tradizionale; i momenti regalatici da Totò per esempio. Troppo poco, crediamo, per Gregoretti.
Leandro Castellani, «Rivista del cinematografo», 7 luglio 1965
La censura
La Commissione censura valuta il film vietato ai minori di 18 anni. Alleggerito di qualche scena, dopo 22 anni, in 2a edizione viene vietato ai minori di anni 14. Solo con la III Edizione, dopo aver subito ancora tagli, il film può essere visibile a tutti ed otterrà la revoca del divieto, ma viene alleggerito per un totale di metri 24,90 di pellicola.
Ministero del Turismo e dello Spettacolo - Direzione Generale dello Spettacolo
Domanda di revisione n. 442621 del 1 dicembre 1964
«La V Sezione della Commissione di revisione cinematografica revisionato il film il 9.12.1964 esprime parere favorevole per la concessione del nulla osta di proiezione in pubblico e per l'esportazione, a condizione che ne sia vietata la visione ai minori degli anni 18 (diciotto) in quanto il secondo episodio presenta volgarità di linguaggio e situazioni di spregiudicata morale sessuale atte a turbare la sensibilità dei minori».
Si fa riferimento alla domanda presentata da codesta Società in data 1 dicembre 1964, intesa ad ottenere - ai sensi delle legge 29.4.1962, n.161 - la revisione del film in oggetto da parte della Commissione di revisione cinematografica di 1° grado.
In merito si comunica che, in occasione del seguente parere espresso dalla Commissione, con decreto ministeriale del 16 dicembre 1964 è stato concesso al film "Le belle famiglie" il nulla osta di proiezione in pubblico col divieto di assistervi ai minori degli anni diciotto.
Roma, 16 dicembre 1964
CROMO Film srl - Roma
PROMEMORIA PER IL PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE DI CENSURA
Episodio "La cernia"
E' stata soppressa la battuta: come c... è un po' fiacchettino.
Episodio "Il bastardo della regina madre"
Conformemente alla richiesta della Commissione il finale dell'episodio è stato modificato nel montaggio e nel dialogo in modo da eliminare qualsiasi riferimento alla natura sessuale del personaggio maschile.
Nella versione modificata l'atteggiamento del servo, costretto a "posare" per lungo tempo nella scomoda imitazione del Bacco caravaggesco, diventa un ironico e paradossale castigo inflittogli dal sofisticato padrone, che in tal modo lo punisce per le eccessive confidenze che si è preso con Carla, alludendo nello stesso tempo, con il tipo di castigo, alla "situazione" che più lo ha indignato. (La classica legge dantesca del "contrapasso").
[...] Omissis
Roma, 22 dicembre 1964
Ministero del Turismo e dello Spettacolo - Direzione Generale dello Spettacolo
Alla Soc. CROMO Film - Roma
Si fa riferimento alla domanda presentata da codesta Società in data 22 dicembre 1964 intesa ad ottenere, avverso la decisione della Commissione di 1° grado - ai sensi della legge 21.4.1962, n.161 - il riesame del film in oggetto da parte della Commissione di revisione cinematografica di II istanza.
In merito si comunica che, in conformità del seguente parere espresso dalla predetta Commissione di II grado, con decreto ministeriale dell'8 gennaio 1965 è stato confermato al film "Le belle famiglie" il nulla osta di proiezione in pubblico col divieto di assistervi ai minori degli anni diciotto.
"La Commissione di Appello, dopo la revisione del film, ha ascoltato, in rappresentanza delle Società produttrici, l’Amministratore unico della Cromo Film Sig. Giuseppe Colizzi, il quale ha fatto presente che il divieto di visione per i minori degli anni diciotto importa un danno sensibile di carattere patrimoniale e che, pertanto, la Società produttrice è disposta ad accogliere eventuali suggerimenti per tagli da apportare alla pellicola.
La Commissione di Appello, a maggioranza, ritenuto che tutti gli episodi del film sono impostati sul tema di una esasperata volgarità sessuale nonché su motivi di violenza, pregiudizievoli per la sensibilità dell’età evolutiva, respinge il ricorso proposto avverso la decisione della Commissione di 1° grado e mantiene il divieto di visione per i minori degli anni diciotto.
Roma, 12 gennaio 1965
Ministero del Turismo e dello Spettacolo - Direzione Generale dello Spettacolo
Domanda di revisione 81963 (2a edizione) del 22 ottobre 1986
[...] In pratica con i tagli di seguito indicati abbiamo provveduto ad una parziale rielaborazione del montaggio, cosicché la nuova edizione risulta purgata da quelle scene non adatte ad una parte del pubblico televisivo.
Rullo 1° - da mt.90 a mt.94 = mt.4
Alleggerimento di una scena nella quale una ragazza viene ripetutamente colpita con calci e schiaffi dal padre e dai fratelli.
Rullo 3°: da mt. 422,5 a mt.427,5 = mt.5
Marito e moglie si baciano con passione e si lasciano cadere abbracciati sul letto.
Rullo 4° : da mt.397 a mt.398,5 =mt.1,5
da mt. 402 a mt. 410 = mt.8 da mt. 417 a mt. 420,5 = mt. 3,5
Alleggerimento di una scena durante la quale una ragazza tedesca si spoglia, di sera, in riva al mare. Dopo essersi sfilata il ve stito, la giovane si toglie anche il reggiseno e lo slip. Poco lontano, il suo amante italiano commenta il gradevole spettacolo con alcuni amici che rimangono nascosti.
«La Commissione, visionata la II edizione del film "Le belle famiglie" esprime parere favorevole alla concessione del nulla osta di priezione con il divieto ai minori degli anni 14 (quattordici)»
TOTALE TAGLI= MT 22
Roma, 13 maggio 1987
Ministero del Turismo e dello Spettacolo - Direzione Generale dello Spettacolo
Al legale rappresentante RAI -2a Rete Televisiva - Roma
Roma, 13 maggio 1987
Si fa riferimento alla domanda presentata da codesta Società 22/10/1986 intesa ad ottenere - ai sensi della legge 21/4/1962 n. 161 - la revisione del film in oggetto da parte della Commissione di revisione di 1° grado.
In merito si comunica che in esecuzione del parere espresso dalla predetta Commissione, parere che è vincolante per l’Amministrazione (art, 6, terzo comma, della citata legge n, 161), con decreto ministeriale del 13 maggio 1987 è stato concesso al film
"LE BELLE FAMIGLIE" 2a edizione TV
il nulla osta di proiezione in pubblico con il divieto di visione per i minori degli anni quattordici.
Si trascrive, qui di seguito, il citato parere:
«...La Commissione di revisione cinematografica, visionata la 2a edizione TV del film, esprime parere favorevole alla concessione del nulla osta di proiezione con divieto di visione per i minori degli anni quattordici».
Presidenza del Consiglio dei Ministri - Direzione Generale dello Spettacolo
Domanda di Revisione 90171 (3a edizione) del 24 aprile 1995
ELENCO DELLE MODIFICHE APPORTATE RISPETTO ALLA PRECEDENTE EDIZIONE:
IL PRINCIPE AZZURRO: - ulteriore alleggerimento delle inquadrature relative alle percosse inferte alla ragazza dai suoi familiari - mt 0,50
LA CERNIA: - ulteriore riduzione della sequenza in cui la ragazza straniera si spoglia in riva al mare, di notte, maitre il playboy di nascosto commenta lo spettacolo con i suoi amici; eliminazione da "Io una volta mi feci una negra" a "Guardalo, è un sole!" - mt 2,40
Lunghezza dei tagli MT 2,90 IN 16mm pari a metri 7,25 IN 35mm. Lunghezza del film dopo i tagli metri 1.117 in 16mm
I sopraindicati tagli sono in aggiunta a quelli effettuati nella 2° edizione che erano:
Alleggerimento di una scena nella quale una ragazza viene ripetutamente colpita con calci e schiaffi dal padre e dai fratelli - 1° rullo da mt 90 a 94 = mt 4
Marito e moglie si baciano con passione e si lasciano cadere abbracciati sul letto - 3° rullo da mt 422,5 a 427,5 = mt 5
Alleggerimento di una scena durante la quale una ragazza tedesca si spoglia, di sera, in riva al mare. Dopo essersi sfilata il vestito, la giovane si toglie anche il reggiseno e lo slip. Poco lontano, il suo amante italiano commenta il gradevole spettacolo con alcuni suoi amici che rimangono nascosti - 4° rullo da mt 397 a 398,5 = mt 1,5 da mt 402 a 410 = 8 da mt 417 a 420,5 = 3,5
Totale tagli mt. 22.
Roma, 29 febbraio 1996
I documenti
Le uscite del film Le belle famiglie (incluso l’episodio con Totò, “Amare è un po’ morire”) in formato home video: VHS, DVD e altri supporti, con anni di uscita, edizioni e contenuti speciali, nella misura in cui le informazioni sono disponibili.
🎥 VHS
Purtroppo, non risultano edizioni ufficiali su VHS riportate dalle fonti attuali. Non appare nelle principali catalogazioni di era analogica, né in bibliografie dedicate. Probabilmente il film non fu pubblicato in VHS da distributori ufficiali, o al massimo venne distribuito in modo limitato o presso emittenti private, senza lasciare traccia documentale riconosciuta.
→ VHS: nessuna edizione ufficiale rintracciata.
📀 DVD
Edizione principale identificata:
- Anno di uscita: 2012
- Distributore / casa editrice: Medusa Home Entertainment
- Formato: DVD standard con custodia amaray, widescreen, audio italiano mono Dolby Digital 1.0
- Durata: circa 100 minuti (coincidente con la versione italiana da 106' originale, ma truncata in distribuzione home video)
- Classificazione: vietato ai minori di 18 anni (come per il film in sala)
- Lingua audio: Italiano
- Sottotitoli: Italiano per non udenti
- Contenuti speciali:
- Non risultano extra (come making-of, interviste, trailer o commenti del regista/attori) indicati nella scheda dell’edizione.
Sono disponibili anche edizioni da edicola o di tipo “economico” (come quella venduta a basso costo su eBay come “Le belle famiglie – edizione da edicola, sigillato”). Si presume che si tratti della stessa masterizzazione del DVD Medusa, ma distribuita in formato economy, spesso priva di libretto interno o dettagli editoriali aggiuntivi.
→ DVD disponibili: almeno un’edizione Medusa 2012 + edicola low‑cost dello stesso master.
📦 Altri formati digitali (aggiornamento luglio 2025)
- Streaming / VOD: il film risulta catalogato su servizi come Amazon Prime Video in alcune regioni, sebbene non sempre accessibile via licenza (in Italia indicato come “non disponibile nel tuo Paese” o simile). Non sono citate edizioni Blu‑ray né versioni HD o restaurate da fonti ufficiali.
🧾 Riepilogo completo
Supporto | Casa editrice / Distributore | Anno di uscita | Formato e dettagli tecnici | Contenuti speciali |
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VHS | — | — | — | — |
DVD (Medusa) | Medusa Home Entertainment | 2012 | DVD standard, 100′, widescreen, mono audio | nessuna extra indicata |
DVD edicola / economy | edicola / distributori terzi | ca. 2012 | stesso master della Medusa | nessun contenuto aggiuntivo |
Streaming / VOD | Prime Video ecc. | vari | catalogazione digitale regionale | dipende da licenza (sottotitoli ecc.) |
ℹ️ Note aggiuntive
- Il master DVD è basato sicuramente sulla versione cinematografica, ma non è esplicitamente restaurato o rimasterizzato in alta definizione.
- Non si trovano tracce di un’edizione Blu‑ray, né tantomeno di versioni multiple con extra o booklet critici (al luglio del 2005).
- Non sono documentate versioni in laserdisc né riedizioni successive, neanche in cofanetti di Totò o saggi sul cinema degli anni ’60.
Seduttori si nasce e Totò modestamente... lo nacque, ma non tutte le donne subirono il suo fascino. Sandra Milo, per esempio, conoscendolo sul set del film Totò nella luna rimase profondamente delusa. “Gli andai incontro con entusiasmo, gridando il suo nome, ma lui mi gelò con un saluto formale che chiudeva la porta a ogni confidenza: ‘Buongiorno, signorina, lieto di conoscerla’, racconta. “Quasi non ci credevo, ma il comico straordinario che mi faceva ridere più di Charlot, era un gentiluomo distaccato, chiuso in una specie di torre d’avorio. Che peccato! Conoscevo la sua fama di sciupafemmene, ma non ne fui in alcun modo coinvolta perché io ero innamorata pazza di Totò, mentre ero indifferente al principe Antonio de Curtis.”
Totò e Sandra lavorarono insieme in altri due film, Le belle famiglie di Ugo Gregoretti e Premio Nobel, per la televisione, in cui la Milo aveva il ruolo della signora che si spoglia nello sketch del vagone letto. Nemmeno la vista della sua bellezza ammansì l’attore, il quale, ricorda Sandra, la criticò per un cappello, secondo lui, tanto grande da intralciare i movimenti suoi e dei compagni di lavoro. Insomma, il comportamento di Totò nei confronti della biondissima Milo testimonia ancora una volta la sua predilezione per le brune. Tra loro non ci fu alcun feeling, eppure a Sandra è rimasta impressa l’eleganza di Totò che indossava calze lunghe di seta nera di fabbricazione inglese, simili a quelle del duca di Windsor.
Durante la lavorazione di Premio Nobel l’attrice provò una stretta al cuore nell’accorgersi che Totò, ormai completamente cieco, lavorava con grande fatica. E un giorno, mentre giravano una scena in un boschetto, per evitare che inciampasse, insieme a un macchinista, gli spianò la via strappando le erbacce e togliendo i rami secchi dal suo percorso, irritata dall’indifferenza degli altri componenti della troupe. Per strano che possa sembrare, in quel momento avvertì un forte trasporto verso Totò. Perché, spiega, in quell’uomo anziano che viveva con tanta dignità il suo dramma, ritrovò il “suo” Totò, quello con la faccia da ladro onesto, tanto ammirato in Guardie e ladri. Se lui non fosse stato sempre così freddo, certo lo avrebbe abbracciato, confessa, ma gliene mancò il coraggio. Eppure, se il principe fosse stato al corrente del suo gesto gentile per evitargli uno scivolone, le sarebbe stato grato per sempre, ma questo Sandra non poteva saperlo.
Liliana de Curtis
Si mise seduto sullo sgabello vicino al leggio con la cuffia, dando le spalle allo schermo: guardavamo le immagini sullo schermo e vedevamo che era perfettamente in sincrono. Ascoltava una volta la cosiddetta colonna-guida, riusciva a capire dove erano le pause e le accelerazioni. Non solo, aggiungeva delle cose. Evidentemente aveva percepito delle pause che poteva riempire. Con nostro grande sbalordimento e apprezzamento.
Ugo Gregoretti
Cosa ne pensa il pubblico...
I commenti degli utenti, dal sito www.davinotti.com
- Mediocre film a episodi (peraltro piuttosto sonnacchiosi), forse perché in definitiva (a parte la comparsata di Totò in "Amare è un po' morire") scarseggiano attori in grado di sostenere la scena; certo non tutto è da buttare e in definitiva il primo episodio ("Il principe azzurro") qualche sorriso lo strappa, soprattutto quando mostra la Girardot completamente allucinata dalla pubblicità che allora come oggi era martellante, ma complessivamente è un episodio inserito in un carnet di storielle di poco spessore.
I gusti di Markus (Commedia - Erotico - Giallo)
Se non fosse per l'episodio finale con Totò, Rochefort, Celi e Sandra Milo sarebbe un film da evitare assolutamente. I primi tre segmenti non sono altro che barzellette allungate, girate malissimo e con una sceneggiatura pessima. Nel finale almeno si intravede un'idea originale e la bravura degli interpreti strappa molti sorrisi. Anche qui la regia è penosa, ma almeno sembra dare un senso a un'operazione che forse era meglio se non avesse mai visto la luce. Mediocre.
I gusti di Rambo90 (Azione - Musicale - Western)
Quattro differenti episodi, non collegati tra loro, che ci mostrano alcuni vizietti e strane abitudini sessuali di alcune famiglie. Brava e divertente la Girardot che rispecchia la difficile situazione della donna siciliana di una volta, mentre il resto è tutto senza mordente. Nulla da eccepire sui messaggi che l’opera vuole lasciare, ma fondamentalmente ci si annoia, anche nell’episodio dove c’è Totò.
I gusti di Minitina80 (Comico - Fantastico - Thriller)
Dispiace davvero constatare come questo interessante film a episodi sia frainteso e sottovalutato da molti. "Il principe azzurro", al di là della cornice farsesca, rivela, fra le righe, il perché molte donne ignoranti si facciano suore: per esercitare "almeno un po' di potere sulle persone umili e credulone". "La cernia" è esemplare nel rivelare l'insicurezza di certi uomini, che invece di sviluppare dei gusti estetici personali, si lasciano squallidamente influenzare dagli amici. Veramente brutto l'episodio con Nanni Loy e discreto quello con Totò.
I gusti di R.f.e. (Avventura - Azione - Erotico)
Un splendente esempio di film penitenziale nel senso di irrogato come penitenza agli spettatori a sconto dei loro peccati. Ugo Gregoretti, un regista (!) che andava per la maggiore negli anni’60, dirige con la mano sinistra "una cosa" che rassomiglia a un film a episodi. Qua e là si nota la buona volontà di comporre delle azioni e di raccontare degli eventi ma Gregoretti della trama se ne frega, a lui interessa solamente il messaggio da comunicare, anche se non si riesce proprio a capire quale esso sia. Spocchia e noia si integrano alla perfezione. Male Nanni Loy, agghiacciante, mentre la Milo si salva per la bellezza.
• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Una primizia assoluta: Totò fa sbadigliare.
I gusti di Graf (Commedia - Poliziesco - Thriller)
Le incongruenze
- Episodio "Il principe azzurro". Quando il padre di Maria sta percorrendo assieme ai fratelli il corridoio suonando il campanaccio, il suo berretto di carta e' fatto con un giornale piegato in un modo che rende illeggibili le parole originariamente stampate: si vedono al contrario. Quando si ferma baciando le mani alla superiora, il cappello e' con tutta evidenza diverso: e' piegato mostrando perfettamente leggibili i grossi titoli della pagina di giornale che lo compone.
- Maria (Girardot) si riempe quasi completamente il piatto di minestrone ma, subito dopo che il fratello l'ha sgridata perchè gli aveva rovesciato sulla camicia una mestolata dello stesso, il livello di minestra nel piatto è diminuito (senza che lei ne abbia mangiato)
- Quando Sueni, il cameriere vietnamita, massaggia Carla (Andersen) lo fa cantando. Ma è visibilmente doppiato perchè si vede chiaramente che in molte scene non apre bocca (e, soprattutto, è impossibile cantare - ad alta voce, per giunta - e baciare contemporaneamente il corpo della donna!!!)
- Durante la cerimonia del varo del "milionesimo trentamillesimo primo" frigorifero l'attore che interpreta il direttore commerciale dell'azienda diretta da Filiberto Comanducci (Totò) indossa una evidentissima finta pelata (si vede dove finisce la calotta e dove inizia la vera fronte dell'attore), sulla quale era riportati i segni delle ferite subite durante il primo varo
www.bloopers.it
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Tutte le immagini e i testi presenti qui di seguito ci sono stati gentilmente concessi a titolo gratuito dal sito www.davinotti.com e sono presenti a questo indirizzo. | |
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Il castello nel quale Maria (Girardot) sogna di esser trasportata dal principe azzurro sorge “magicamente” come un vero ecomostro sulle rive delle celebri cascate di Monte Gelato di cui QUI TROVATE LO SPECIALE | |
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EPISODIO "AMARE E’ UN PO’ MORIRE" - La villa dove abitano l’industriale Filiberto Comanducci (Totò) e la moglie Esmeralda (Milo) è il Casal dei Pazzi, situato in Via Giovanni Zanardini a Roma.Inquadrata prevalentemente in interni, viene ripresa esternamente quando il professor Della Porta (Celi), medico curante di Filiberto, lascia infuriato l’abitazione, dopo che Esmeralda – pur ammettendo d’amarlo – aveva respinto le sue avances perché preferiva una persona bisognose di cure “mediche” mentre il dottore era sanissimo. |
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Accecato dall’ira, il professore esce sparato dal vialetto d’accesso della villa, scontrandosi con camion che transitava su Via Zanardini, involontariamente trasformandosi in quello che bramava Esmeralda, un paziente tutto da curare e coccolare.Il cancello visto dalla strada | |
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EPISODIO "LA CERNIA" - Il piazzale dove Luigi (Anthony) viene scaricato dalla sua ragazza Camilla è Piazzale del Faro a Fiumicino (Roma) |
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EPISODIO "AMARE E’ UN PO’ MORIRE" - L’azienda di elettrodomestici Ignis diretta da Filiberto Comanducci (Totò) era una delle palazzine degli stabilimenti discografici RCA e che oggi ospitano il Centro DECA, situato in Via di Sant’Alessandro 7 a Roma e visto anche ne Il nemico di mia moglie (1959). Il fotogramma è ripreso dal grande raccordo anulare, dal quale oggi lo stabile è visibile solo parzialmente in seguito alla costruzione degli altri edifici del complesso... |
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...ma grazie al 45° possiamo stabile con assoluta certezza che il posto è quello |
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EPISODIO "AMARE E’ UN PO’ MORIRE" - L’ippodromo dove il marchese Osvaldo (Rochefort), l’amante di Esmeralda (Milo), si impone in un concorso ippico è quello di Piazza di Siena, situato nel parco di Villa Borghese a Roma | |
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L’edificio evidenziato con A è la Casina di Raffaello | |
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EPISODIO "IL BASTARDO DELLA REGINA" - La palazzina nel nord Italia dove vivono Uberto (Loy) e la moglie Carla (Andersen) si trova in realtà a Roma, in un complesso residenziale situato in Via della Camilluccia. Grazie a Mauro per fotogrammi e descrizione. La piscina del complesso |
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La palazzina dove abitano Nanni Loy e gentile signora | |
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La palazzina gemella antistante vista dal balcone di casa Loy | |
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EPISODIO "AMARE E' UN PO' MORIRE" - Il parcheggio dove Esmeralda (Milo) si ferma a fare acquisti in una farmacia mentre il marito (Toto) attende in auto è in Largo di Vigna Stelluti a Roma. Notare una farmacia tuttora esistente (che però non è quella in cui entra la Milo) |
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Qui un controcampo che conferma la location | |
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La Milo nell'immagine qui sotto esce di campo sulla destra, lasciando intendere di provenire dal palazzo alle sue spalle, ma in realtà non la si vede entrare, per cui si s'immagina solo, che la farmacia sia questa... | |
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EPISODIO "IL PRINCIPE AZZURRO" - Il convento nel quale Maria (Girardot) prende i voti, pur di non sposare l’uomo impostole dal padre, nella finzione si trova in Sicilia ma, in realtà, è il castello di Campolattaro, situato in Via Palazzo a Campolattaro (Benevento) |
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Riferimenti e bibliografie:
- "Totalmente Totò, vita e opere di un comico assoluto" (Alberto Anile), Cineteca di Bologna, 2017
- Leandro Castellani, «Rivista del cinematografo», 7 luglio 1965
- "Totò: principe clown", Ennio Bìspuri - Guida Editori, 1997
- Ugo Gregoretti, intervista di Alberto Anile, "I film di Totò", cit., p. 337.
- "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998
- "Totò, femmene e malafemmene", Liliana de Curtis e Matilde Amorosi, RCS Libri, Milano, 2003
Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
- Luciano Chitarrini, «Il Messaggero»,14 settembre 1964
- «Piccolo Sera», 19 settembre 1964
- a.s. (Alberico Sala), «Corriere dell'Informazione», 31 dicembre 1964
- Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 31 dicembre 1964
- P.V., «Il Popolo», 31 dicembre 1964
- Gian Luigi Rondi, «Il Tempo», 31 dicembre 1964
- bir. (Guglielmo Biraghi), «Il Messaggero», 31 dicembre 1964
- l.p. (Leo Pestelli), «La Stampa», 22 gennaio 1965
- l.p. (Leo Pestelli), «Stampa Sera», 22-23 gennaio 1965
- Leandro Castellani, «Rivista del cinematografo», 7 luglio 1965