Perchè in Italia «questo» cinema comico?

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A questa PRIMA PARTE hanno collaborato: gli sceneggiatori: Age (Agemone Incrocci), Leo Benvenuti, Alessandro Continenza, Piero De Bernardis, Mario Scarpelli; i registi: Marino Girolami, Dino Risi, Steno (Stefano Vanzina), Lina Wertmuller; gli attori: Memmo Carotenuto, Walter Chiari, Peppino De Filippo, Aldo Fabrizi, Ugo Tognazzi, Totò, Franca Valeri, Raimondo Vianello.

Di solito, all’inizio di ogni conversazione, capita o di avere molte idee per la testa, oppure di mettersi in una posizione di attesa, pronti ad inserirsi in modo più o meno coerente nel discorso che sta per essere svolto. Per chi conduce un’inchiesta, valgono entrambe le considerazioni. Ma qui, in quanto a dire qualcosa sull’oggetto del nostro discorso, dovranno essere gli intervistati a collaborare con noi. Procederemo per genere e differenza specifica al fine di fornire, per quanto possibile, ai nostri lettori un’idea di quel che è il cinema comico italiano. Dobbiamo subito aggiungere, a chiarificazione del termine usato, che per comico non intendiamo limitare l’oggetto della discussione a quanto etimologicamente questo termine comprende: si tradirebbe così l’essenza che i vari filosofi hanno creduto di scorgere in questa parola. Ed ora non staremo pedantemente a ricordare le definizioni date da Platone o da Aristotele, da Kant, da Richter, da Kierkeegaard, da Croce e da altri. Il genere comico non esiste in assoluto, essi dicono, ma sono i vari accidenti a comporlo: il brillante, il comico-brillante, rumoristico, il satirico, ecc. Tutte queste componenti hanno come unità di misura il riso che è, come ci ricorda Bergson, un «lieve castigo morale, inflitto indiscriminatamente allorché la rigidezza e la meccanicità prevalgono, nell’uomo, su quella che dovrebbe essere la varia duttilità della vita». Noi useremo, dunque, la parola comico includendo nel suo significato i vari generi ora enunciati.

Prima di concludere questa breve introduzione, sarà opportuno chiarire che la presente inchiesta è frutto di una serie di interviste concesseci separatamente da attori, registi, sceneggiatori. Allo scopo di consentire un più agevole raffronto tra le varie opinioni espresse, abbiamo effettuato un montaggio degli interventi, in modo da dare l’impressione di una vera e propria ”tavola rotonda” sull’argomento.

Angelo L. Lucano


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— SIETE SODDISFATTI DELLA VOSTRA PROFESSIONE?

Totò: No. Io serbo rancore verso i produttori perché mi hanno fatto fare film da poco!

— Nel caso specifico penso di rendermi interprete del generale rincrescimento per non aver visto le sue qualità sufficiente-mente valorizzate. Lei Carotenuto, è soddisfatto della sua carriera?

Memmo Carotenuto: Direi di no. Dopo il «Bigamo», ho fatto «Padri e figli», «I soliti ignoti», è per quest'ultimo la critica internazionale è stata favorevole nei miei confronti, il che vuol dire che delle buone risorse ce l'ho anch'io. Ho un poco di acredine verso i produttori che non hanno voluto mettere in risalto le qualità che ho dimostrato di possedere.

Raimondo Vianello: Io devo premettere che non sono diventato attore per vocazione. Mi sono trovato dentro per una combinazione strana. Non mi lamento però. E poiché mi manca l'ambizione, la molla, non ho da rimproverare nessuno se non sono stato impiegato sempre bene. Mi adagio un poco su quanto è stato creato per me. Certo, mi piacerebbe essere impiegato meglio...

Aldo Fabrizi: Non per sembrare immodesto, ma credo di non essere stato sfruttato bene dal cinema. Debbo però dire che neppure io ho tentato di dare il meglio di me.

Franca Valeri: Io non ho ricevuto grandi soddisfazioni dal cinema, perché ho sempre dovuto fare dei personaggi molto costretti da certe esigenze, personaggi di un tipo di platealità che non mi soddisfa per niente. Il cinema è estremamente legato ad un fatto visivo, perciò è probabile che io — come sostengono registi e sceneggiatori — non possa fare determinate parti, diversamente consentitemi in teatro, ove più di tutto conta la «parola». Avrei voluto dare al cinema qualcosa di più, ma non mi è stato consentito.

— E per tale motivo ha qualche risentimento?

Valeri: Non ne ho, perché il film ha le sue esigenze. Io ho fatto quel che ha potuto servire a chi mi ha scritturata.

— E lei, Tognazzi?

Ugo Tognazzi: Io non ho nessun rancore o risentimento verso nessuno. I produttori mi hanno sempre soddisfatto. Debbo essere loro grato per avermi dato una certa fiducia nelle mie possibilità. Che certi aspetti della mia comicità non siano stati sufficientemente sfruttati, questo è un altro discorso. Piuttosto tengo a dire che sono stato io ad impormi una lenta trasformazione: i film che interpretavo erano all’inizio principalmente farseschi e io ho cercato di mettere a profitto l’esperienza dei miei vent’anni di rivista. Naturalmente fin da principio la mia aspirazione era quella di creare un «personaggio». Quando sono riuscito però ad avere una sceneggiatura meno leggera delle altre, ho approfittato, cercando di realizzare certe mie aspirazioni, certi miei sogni. Andata bene la prima volta, ho continuato su quella strada. E ho rifiutato più di un’occasione, che mi proponeva di passare da un ruolo comico ad un altro assolutamente serio. Ciò perché credo che non sia ancora venuto il momento di deludere il pubblico. Esso, di solito, ama un attore che lo diverte e quando questi riesce a dare anche una nota sentimentale alle parti sostenute, dà al pubblico quel che esso aspetta di ricevere.

Peppino De Filippo: Io, invece, non sono soddisfatto per niente. Come dicevo a lei, Lucano, in un’altra intervista, io sono uno di quei pochi attori italiani che hanno abbandonato il cinema perché stomacati. Se dovesse capitare un buon regista, però, per un buon film, credo che sarei capace di farlo anche gratis.

— Lei, Risi, è soddisfatto della sua carriera di regista?

Dino Risi: Credo di essermi fatto portare dalla corrente, anche dal successo che hanno ottenuto i miei film, successo che ha determinato la qualità dei film diretti. Vorrei essere adesso un pochino più cauto e più severo nella scelta dei prossimi soggetti.

E’ per il motivo ora detto, cioè quello di essersi fatto portare dalla corrente, che ì suoi film mancano di una tematica costante?

Risi: Sinceramente, c'è in me una disponibilità ai temi del nostro tempo che non riesce a coagularsi in un motivo unico.

— Allora, devo concludere, se me lo consente, che lei è in perfetta coerenza con la incoerenza del tempo.

Risi: Sì. assolutamente. Cerco di essere un buon orecchio della società in cui vivo. La incoerenza cui allude, spero che sparisca in avvenire, per ora preferisco lasciarmi stimolare dalle cose che mi divertono di più.

— Lei Steno, ha qualcosa da dirmi in proposito?

Steno: Sarebbe facile dire: non ho avuto l’occasione di fare il grande film comico, non me l’hanno fatto fare! Io seguo una routine di film commerciali e seguo bene il mio lavoro.

— Gli attori, dunque, non sono contenti. E se le sceneggiature venissero scritte in funzione loro?

Totò: Penso che sarebbe meglio, perché la comicità è in noi. Le espressioni! Gli stupori! E tutto il resto fanno l'attore comico che si rivela nella buona sceneggiatura.

Valeri: Certo: il carattere «comico» è legato a qualcosa di imponderabile che se non scaturisce da una personalità, è difficile che sussista.

— E così?

Valeri: Ribadisco che per fare un film comico non è necessaria la presenza dell’attore comico. Allora però non ci dovrebbe essere neppure la presenza del fatterello di costume, ed esserci, invece, una sceneggiatura di estrema intelligenza che curi molto la situazione, sia pure in modo eccessivo, come stato per «Questo pazzo pazzo pazzo pazzo mondo»...

— Ma l’esempio è di un genere di film che trasborda da tutte le parti!

Valeri: Sì, però quando c’è come nel caso specifico una coralità umoristica, allora il film riesce interessante. Altrimenti ci vuole l'attore comico come fatto geniale.

— A me pare che non sia facile però realizzare una delle due caratteristiche ora dette.

Valeri: Infatti, io raramente vado al cinema. Rido quando c'è la presenza di qualcosa di ponderabile e che quasi sempre è legato ad una personalità.

— Allora ripeto la domanda se la sceneggiatura debba o no essere scritta in funzione dell’attore.

Valeri: Quando questi c'è, sì.

— E se c’è, ha diritto di apportare delle modifiche alla sceneggiatura?

Valeri: Penso che in Italia tali problemi non si pongano per un comico perché le sceneggiature sono piuttosto grossolane. Quando c’è una personalità come quel la di Totò o di Sordi, si tende a lasciarli andare a ruota libera facendo rifare loro gli schemi di successo.

Risi: A me pare che in questi ultimi anni, invece, si sia cercato di scrivere sceneggiature in funzione dell’attore. Questo anche per merito degli attori stessi che hanno cercato di uscire fuori dagli schemi plateali e dalle improvvisazioni. C'è stata pure la volontà da parte degli sceneggiatori e dei registi di portare l’attore verso un tipo di comicità vera. Su questa strada si sono messi Sordi, Tognazzi, Manfredi e per molti versi anche Gassman col desiderio di far cambiare indirizzo al cinema comico italiano in collaborazione coi registi e con gli sceneggiatori. I risultati non sono però stati sempre felici e non per colpa loro e nostra.

— Se ho capito bene, è l’attore, secondo lei, che determina il cambiamento di indirizzo nel genere comico. Non dovrebbe essere il regista a fare una cosa del genere, e, in ordine di successione, l’attore?

Risi: Qui parliamo dell’Italia e qui dunque l'attore è l'elemento fondamentale dello spettacolo. Sordi, ad esempio, si è costruito a poco a poco e ha voluto uscire da un certo tipo di film per tentare dei personaggi anche più grandi di lui. In questa ricerca nessuno è più capace di decidere dell'attore stesso che conosce le proprie possibilità anche se non conosce i propri limiti. In generale ho visto che sono stati gli attori con gli sceneggiatori e i registi a voler uscire da certi schemi di comicità stereotipata.

— COSICCHÉ E’ L’ATTORE A FILTRARE NELLA CRITICA IL FATTO CHE DEVE ESSERE INTERPRETATO?

Tognazzi: Dico di sì, in quanto il comico è il numero uno, in assoluto dello spettacolo.

Age: Per carità! Se si parla di un lavoro serio e l’attore si illude di fare meglio degli sceneggiatori, allora noi diciamo alto e forte, come si dice, che è assoluta-mente sbagliato. Uno sceneggiatore con un minimo di esperienza sa perfettamente che cosa può fare e non può fare un determinato attore a sua volta con esperienza. E l'attore non deve mai prevaricare, non deve mai pensare di piegare la fantasia degli autori e di far meglio di quanto possano fare questi. Se non si fida degli sceneggiatori, li cambi o faccia piut tosto tutto da solo. Questo lo diciamo spesso a certi attori i quali sentenziano che il successo di alcuni film è dovuto a loro Si decidano a fare da soli, ma veramente non che si senta in giro «sì, quello l'ho fatto io attore, anche se porta la firma di altri».

— Infatti, pare che ci sia qualche attore che abbia detto di voler fare un film come autore, attore e regista, alla Chaplin insomma.

Scarpelli: A questo proposito bisogna dire che quando un attore dice così ha già conosciuto le gioie del successo e ne è inebriato e non connette più. Non esiste esempio positivo, fatta eccezione per quello citato da lei, in cui l'attore arrivato ad un certo livello e messosi in testa di essere la cosa più importante che esiste nel film, pretenda sceneggiature su misura o la partecipazione alla regìa: non c'è esempio in cui questo attore non abbia fatto un passo indietro rispetto a quel che era prima.

Age: Il produttore, il regista, lo sceneggiatore di un film hanno sempre una visione del film che è globale. L'attore, invece, vede sempre con gli occhi da attore, estremamente personali. Anche quando parla degli altri, parla in funzione del proprio personaggio, della propria parte, di quel che lui fa nel film. E questo per forza di cose non può essere mai positivo nei riguardi del film stesso.

Totò: E’ giusto. Secondo me chi fa l'attore che faccia l'attore. Se vuol fare il regista, o è più bravo come regista o tome attore. Meno quei casi in cui si è come Chaplin: questi è il Leonardo della macchina da presa!

— Se non è consentito agli attori dirigere un loro film, agli sceneggiatori, sì?

Leo Benvenuti: Sempre l'abbiamo desiderato!

De Bernardis: Vede, le modifiche che avvengono al nostro lavoro sono molto strane. Quando è stato finito, dobbiamo ricominciare perché molte volte c’è il taglio del regista, dell'attore; vogliamo dire, insomma, che gli effetti da noi voluti non vengono raggiunti. Pensi che quando andiamo a vedere un film scritto da noi, lo riconosciamo a metà, e questo è un po' fastidioso.

Continenza: A me piacerebbe assumere delle responsabilità. Sono sedici anni che faccio lo sceneggiatore: non so se sono bravo o no perché non è stata mai realizzata una sceneggiatura come volevo io.

— Poniamo ora un’altra domanda: affinché un film riesca, deve sfruttare le risorse di un attore comico o bastano le situazioni comiche, senza peraltro richiedere la presenza dell'attore stesso? Prima di sentire le risposte, riporto il parere fattomi pervenire dallo sceneggiatore Ennio Flaiano: «Chaplin ha detto: è il personaggio che fa il racconto. Non mi sembra che vi sia altro da aggiungere. Il film comico nasce dal personaggio (quindi dall’attore) che suggerisce le situazioni».

Steno: Io sono del parere che per il film comico la base assoluta deve essere la sceneggiatura. Non dimentichiamo però che qui in Italia, durante la fase di lavorazione di un film, noi teniamo conto della sceneggiatura solo per il 5096. Una sceneggiatura «di ferro» lascerebbe ai comici scarsa possibilità di esprimersi liberamente.

— Fino a che punto però gli è consentito di esprimersi?

Totò: E già, fino a che punto? In Italia soldi se ne spendono pochi e allora tutta la comicità è basata sull’attore. Tutto viene risolto con le parole, i lazzi le gag che finiscono con l'essere ripetute meccanicamente fino alla nausea.

— Il «difetto» consiste allora nelle sceneggiature?

Vianello: Purtroppo sì. E allora l'attore deve risolvere da solo delle situazioni e per fare ciò è costretto a ricorrere a mezzucci: potrà risolvere una, due, tre volte, poi non più.

— Cosicché sarebbe bene che l’attore venisse disciplinato di più dal regista e dalla sceneggiatura?

Chiari: Certamente. Il tragico in Italia per noi attori è quando giriamo a vuoto perché nessuno sa cosa farci fare. Pensi che già un fatto di cronaca può farci divertire abbastanza, intanto però gli sceneggiatori ci danno lavori mediocri!

Continenza: Qui la questione è un’altra. La comicità italiana è per lo più dialettale e per questo gli attori si trovano a loro agio. In Italia c’è una piaga nella produzione di film comici: non si fanno se mancano Manfredi, Sordi, Tognazzi (se si vuole ricorrere ad un livello di cassetta si prendono Franchi e Ingrassia). Invece, bisognerebbe fare dei tentativi per creare degli attori brillanti, di cui manchiamo. C’è stato qualche esperimento, ma è stato piuttosto sporadico.

— Argomento interessante, sul quale torneremo più tardi. Torniamo però nell’ambito della mia domanda.

Tognazzi: Io penso questo, che una buona sceneggiatura può far diventare anche comico un attore seriamente preparato che non sia comico. Purtroppo non è facile trovare una buona sceneggiatura!Di conseguenza, un buon attore comico si trova nella necessità di dover risolvere certi problemi di una sceneggiatura mediocre.

— Stando alla situazione di fatto, dobbiamo allora concludere che è diventato quasi un obbligo per l’attore sopperire alle manchevolezze della sceneggiatura?

Wertmuller: Questo può succedere. In teatro senz'altro un comico può risolvere dei momenti di tristi soggetti. Al cinema è molto difficile in quanto i momenti comici sono affidati all’attore in poche parti, altre parti sono affidate al regista, al montatore, al «taglio» dei film: quindi una buona sceneggiatura è molto importante. L’attore può risolvere dei «momenti» del film, ma non il film. Può strappare una risata al pubblico, ma non l’approvazione generale.

— Lei cosa ne pensa, commendatore?

De Filippo: lo credo che per un buon film comico serva innanzitutto l’attore. Poi quest’attore deve avere una buona sceneggiatura. La sceneggiatura un buon regista: ed ecco allora un buon film comico.

— Infallibile ricetta! Considerata allora la produzione passata piuttosto scadente (salvo qualche rara eccezione), dobbiamo dedurre che qualcuno degli elementi da lei enunciati sia mancato, ovviamente!

De Filippo: Penso che sia soprattutto una questione di «produzione». Ad un certo momento i produttori hanno guardato solamente al nome dell’attore dal lato commerciale. E così intorno a quest’attore hanno messo ruoli di secondo piano, sceneggiatori scadenti, registi più scadenti degli sceneggiatori, e allora sono venuti fuori quei film comici che tutti conosciamo.

Chiari: Dobbiamo aggiungere anche questo: sì, è vero che mancano buoni sceneggiatori per film comici, ma manca pure a quegli autori che ci sono il tempo per scrivere una sceneggiatura. Una cosa del genere va scritta in tre o sei mesi.

Continenza: Aggiungo che ci vuole maggiore fiducia in noi. Non deve succedere, come succede, che il produttore telefonando ad Age e Scarpelli e non trovandoli in casa si rivolge a Continenza e se questi pure non c'è, si rivolge a qualsiasi altro. Quando ci si rivolge ad uno scrittore è perché si ha fiducia in lui. Ciò non avviene con lo sceneggiatore. Se l’attore, ad esempio, vuole cambiare qualche battuta scritta da noi, può farlo liberamente perché al produttore interessa più assecondare il desiderio dell’attore (gli porta i soldi) che quello dell’autore.

Fabrizi: Per forza! Se la sceneggiatura fosse scritta in funzione dell'attore, ciò si eviterebbe.

Vianello: Se avviene ciò che dice Continenza, è perché la massa del pubblico esige la presenza dell’attore, comunque sia, e non si accontenta della sceneggiatura che può dare buoni risultati.

Steno: Io infatti ho il sistema di se guire l’estro dell'attore. Ritengo non vero che l’attore debba essere a servizio della sceneggiatura, e neppure il contrario, però.

Continenza: Bisogna ricordare che se degli attori hanno «sfondato», lo debbono alla sceneggiatura!

— Qui torna nuovamente la domanda posta prima.

Steno: Beh, se la sceneggiatura non coincide con certe disponibilità proprie dell'attore, allora è bene non impuntarsi.

Girolami: Certo. Attore e sceneggiatura sono due cose che si contemperano a vicenda. E’ bene però che la sceneggiatura non ignori le possibilità dell'attore.

Chiari: Il quale se vede delle battute cretine, come spesso capita, ha il diritto di cambiarle. Del resto, i primi «prevaricatori» sui copioni sono i produttori. Se l’attore è «piccolo» non si azzarda a dire una «a» sul testo se no Io sbattono fuori; se è «grande» si affida ad una produzione che previene eventuali incidenti con l’attore stesso.

— Ma tra «grande» e «piccolo» esiste l’attore «medio».

Chiari: Ed è quello che si prende qualche libertà.

Continenza: Questo si eviterebbe se ci fosse, ripeto, maggiore fiducia nei nostri confronti.

— PARE CHE COME CAPRO ESPIATORIO DELLA SITUAZIONE DEBBA CONSIDERARSI LO «SCENEGGIATORE»!

Continenza: Sarebbe un alibi un po' comodo sia per gli attori che per i registi, e pure per i produttori. Io domando allora: perché non riusciamo ad ottenere che una sola sceneggiatura venga realizzata così com’è stata scritta da noi? Il giudizio sul nostro lavoro è del produttore, del noleggiatore, dell'esercente (che poi si identificano l’uno con l'altro perché non si sa di chi sono i soldi), i quali giudicano secondo i loro interessi. Se un film comico riesce male non è solo colpa nostra, perché durante la realizzazione sono troppe le persone che intervengono sul lavoro preparato da noi.

— In definitiva, un «difetto» c'è. Lo «sceneggiatore» dice di non averne. Allora cerchiamo di individuarlo.

Chiari: Ho una mia opinione personale in proposito, coraggiosa, anche se compromettente, ma che posso scrivere a caratteri cubitali. Per me il comunismo ha rovinato un po' quel che è il film comico in Italia perché ha dato la «tetraggine» intellettualistica a tutti gli scrittori. Molti sceneggiatori sono di sinistra e come tutti quelli che credono in un sistema totalitario mancano di umorismo. I grossi umoristi non sono mai stati di sinistra. Vediamo in Jugoslavia, in Russia: non c’è umorismo. Esiste in Inghilterra perché c'è un clima di democrazia intellettuale. In Italia c'è la moda della «sinistra» a tutti i costi...

— E anche il film comico diventa «sinistro»!

Risi: lo sono regista e dovrei dire che il «difetto» sta negli sceneggiatori e nei produttori? Soprattutto nel produttore. Il film comico è fatto per essere venduto e quindi chi lo produce deve fare i conti con l’incasso. Credo che nessun regista farebbe un certo tipo di film se non ci fosse la presenza determinante del produttore.

— Lei, Girolami, è anche produttore dei suoi films, se non erro.

Girolami: Come produttore dovrei rimproverare un poco me stesso. Ma io rimprovero pure le condizioni generali del mercato italiano che non mi consente di fare film qualitativamente migliori. Il film comico italiano non si vende molto all’estero e quindi siamo obbligati a stare entro i limiti di una determinata cifra.

Wertmuller: Questo è l’eterno dramma del cinema italiano! L'Italia è il paese dove si inventano i soldi! E quindi se non ci stanno si crea il dramma!

— Ciò non giustifica, però, una produzione scadente, sia per il contenuto che per la forma, come ci vuol far intendere Girolami.

Girolami: E allora torniamo nuovamente con il discorso sulla sceneggiatura.

De Filippo: E allora io dico che buone sceneggiature ne abbiamo pure avute. Non abbiamo avuto buoni produttori. Per quanto riguarda me personalmente, i produttori mi hanno fatto fare sempre film alla men peggio e devo pure aggiungere che parte dei film li ho fatto senza sceneggiatura. Se a produrre quei film ci tosse stata gente seria...

Vianello: Sì, sì. C’è poca serietà di impegno sia nella preparazione del lavoro che nella realizzazione. All'estero, in America, per esempio, anche se i risultali non sono sempre eccezionali, come i film di Jerry Lewis, c’è però l'impegno di fare bene fin dove è possibile.

Totò: Senza peccare di immodestia, vedete, io sono stato piuttosto disgraziato perché ho incontrato sempre produttori che mi hanno fatto fare filmetti, spesso pure fìimacci, produttori che non andavano per il sottile, mentre avrebbero potuto sfruttarmi meglio.

Risi: Perché c’è stata, evidentemente, una domanda da parte del pubblico e il produttore ha risposto. E anche la comicità di quel determinato attore ha collaborato!

Continenza: Sì, perché tutto è stato concepito in funzione della «cassetta». Uno dei difetti del produttore nostrano è quello di credere che un attore possa risolvere il film comico, e perciò molto spesso viene preso il primo che capita: tanto basta la barzelletta per far ridere!

Scarpelli: No, no, per me il problema va inquadrato diversamente. La causa di una scadente produzione comica è la stessa che si riscontra negli altri campi dell’attività creativa: è la massa di opere, di lavoro, che va a scapito della qualità. Pretendere che su duecento film che si producono in Italia ogni anno, tutti siano notevoli è assurdo. Se consideriamo i film satirici, di costume, il discorso è limitato perché i film sono nati da idee fortunose...

— Parliamo del comico in generale, per favore.

Scarpelli: Per questo ci sono state idee per lo più fortunose. Qui si fa male, secondo me, a dare la colpa a tizio e a caio: la colpa non è di nessuno. Se prendiamo i film di Maciste, per esempio, vediamo che la colpa è della fortuna rapida che hanno avuto in quanto prodotto di massa.

— Notiamo però che su duecento film l'anno, i film comici dignitosi sono pochissimi, forse uno per anno.

Scarpelli: Ma vede. non tutti sono dei Germi o dei Monicelli ! Se lei rivolge ad un produttore di filmetti la domanda «vuol fare un film con Germi?», quello farebbe i salti mortali per farlo, ma i soldi sono quelli che sono. Quindi la colpa non è del produttore, non del regista, il quale se non nasce «Germi» non può diventarlo. Non si può pretendere che siano tutti dei maestri.

— Affatto! Ma si può desiderare almeno un’«aurea mediocritas»!

Age: In questo ha ragione, perché da noi manca addirittura uno «standard» tecnico.

Scarpelli: C’è poi un’altra considerazione da fare. In Italia, appena vien fuori un film caposcuola, si dà il via ad un filone, fatto con la pretesa dell'imita-zione. L’imitazione non è mai cosa originale. Così anche tecnicamente la produzione si rende scadente. Ciò perché c’è una spinta speculativa che porta all'allargamento di questo fenomeno.

Valeri: Secondo me c'è una strana posizione qui in Italia, nei confronti del film comico, posizione in cui si trovano i registi e tutti gli altri: ed è quella della «malafede». Il cinema comico viene istintivamente considerato come prodotto scadente e quindi non degno di considerazione. Oltre alla malafede, esiste pure una certa incapacità che è superiore alle forze di chi concepisce un film comico. In Italia esso è stato sempre fatto con l’idea di imbrogliare qualcuno, soprattutto il pubblico. Dietro il paravento del «pubblico che chiede» c'è la incapacità a pensare e a volere buoni film.

Benvenuti: No, no. Il pubblico è il responsabile di tutto! Il produttore tastando il polso del pubblico immediatamente gli dà un prodotto che costa poco e che fa un certo successo.

De Filippo: Ma per carità! Che pubblico e pubblico! Una delle piaghe del nostro cinema comico è che ci sono registi senza humor, i quali credono che mettersi dietro una macchina da presa vuol dire essere persone intelligenti.

— Questa forse potrebbe considerarsi una situazione comica.

Chiari: Direi pietosa.

— Vuol continuare il suo discorso, Benvenuti?

Benvenuti: Sì, volevo dire che fino a qualche anno fa i direttori di distribuzione chiedevano film di Totò, ma li chiedevano fatti male.

Totò: Sono i produttori che mi hanno «creato» così. Dicevano: mettiamoci Totò e quel che va va. E per questo ho pure dei rancori.

— Già, ma quando le è stato affidato un ruolo di grande impegno, come quello de «Il Comandante», il pubblico non l'ha gradito.

Totò: E per forza! E' stato abituato al Totò degli sberleffi, dei lazzi e così via!

De Bernardis: Il produttore sfrutta il comico del momento. Come potrebbe sfruttare su di un piano impegnativo Franchi e Ingrassia se il pubblico li vuole di una comicità... così...

— Piuttosto facile?

De Bernardis: Ecco, di quel tipo? Al produttore non viene in mente un film comico importante con i due comici siciliani, perché ha interesse a sfruttare un certo filone che il pubblico accetta.

Vianello: Questo però si spiega più col fatto che qui in Italia manca un cinema industrializzato, per cui il produttore essendo «solo» ad agire, non ha alle spalle nessuno che lo difenda da un eventuale insuccesso commerciale e mancandogli questa tranquillità deve per forza di cose ricorrere a mezzi film comici che gli assicurino il rientro almeno di quanto ha speso.

Tognazzi: Noi italiani con pochi mezzi dobbiamo credere in una cosa che facciamo e sperare che gli altri si divertano. Il cinema comico americano mette a disposizione mezzi col proposito di fare film che divertano tutti. Non dimentichiamo però che i film che vediamo sono i più passabili tra quelli prodotti laggiù, c quindi anche gli americani, come noi, hanno la loro parte di films dozzinali.

— COSICCHÉ' E' BENE O NON E’ BENE INDUSTRIALIZZARE IL CINEMA?

Continenza: No. Però è bene che si abbia un poco più di rispetto e di fiducia in quelli che scrivono un film. Spesso il produttore nemmeno legge il nostro lavoro e sta così al giudizio che qualcuno della sua corte può fornirgli. Per una lettura del genere, occorre un tecnico e non un «cortigiano».

— Pare che anche Flaiano sia dello stesso parere di lasciare così com’è il nostro «sistema» cinematografico. Egli mi ha scritto infatti: «Industrializzare? No, i nostri successi sono piuttosto il frutto di sforzi individuali, spesso su un piano artigianale».

Wertmuller: Vede, noi agendo su un piano avventuroso, garibaldinesco, con i nostri pregi e i nostri difetti di improvvisazione, di magniloquenza, siamo portati ad avere una maniera tutta nostra di lavorare. Io non saprei lavorare fuori di questo ambiente. Però il cinema industrializzato sarebbe utile per il piazzamento del prodotto italiano all’estero.

— Senz'altro vero, questo. Però anche se la produzione comica fosse qualitativamente uguale a quella drammatica, il mercato internazionale si mostrerebbe disponibile come avviene per il secondo genere.

Valeri: Eh! Il fatto è che se i produttori e i registi vogliono essere «impegnati» non pensano mai al film comico qui in Italia.

Steno: Non esattamente. Direi piuttosto che la maggior parte dei produttori pensa che il film comico sia un pasticcio da mettere su. ma lo pensano in buona fede. Però c'è anche una parte di essi che cerca di fare un film di una certa dignità, tipo «Divorzio all'italiana», «La grande guerra».

— A proposito, è proprio da dire che fino a qualche tempo fa, cioè fino all’uscita di «Divorzio all’italiana», il cinema comico italiano si sia mantenuto su un piano di mediocrità, salvo qualche caso sporadico come «Guardie e ladri», «Due soldi di speranza» e una buona parte del filone di Macario, dalla comicità quasi surreale.

Wertmuller: Non sono d’accordo con lei per quanto riguarda la produzione precedente a «Divorzio all’italiana». Nella produzione comica c’è stato piuttosto un lento, difficile cammino, ma c’è stato. La «mediocrità» a cui accenna lei, si è avuta perché il mercato internazionale richiedeva all'Italia film di un realismo crudo, richieste iniziate dopo «Roma città aperta», per cui al produttore non è venuto nemmeno in mente di fare film comici di portata internazionale.

Chiari: Questo è stato il guaio. Ci si poteva impegnare anche sul piano comico per conquistare i mercati. Si è finiti invece col fare su cento film all'anno, ottanta con «istanze sociali».

Continenza: Beh. penso che sia bene che qualcuno creda di poter insegnare qualcosa alla gente.

— Fino ad un certo punto, perché personalmente ritengo che il pubblico Italiano si ferma alla superficie delle cose e vede solo la critica di ogni cosa. Quando tale critica non è costruttiva, rimangono degli interrogativi da risolvere e il nostro pubblico non li risolve perché rifiuta i film complicati. Sono film che spiegano fino ad un certo punto e che si rivolgono ad un pubblico che li interpreti. Comunque, ritorniamo al nostro argomento.

Wertmuller: Sì. Vorrei dire che la comicità è estremamente legata al paese dove nasce. Non sono molti i film di qualità che esprimono certi difetti di un certo ordine che possono andare in esportazione.

— DOBBIAMO GIUSTIFICARE IL CARATTERE «REGIONALE» DELLA NOSTRA COMICITÀ?

Benvenuti: Senz’altro.

— Ma a me pare che tale carattere abbia finito coi diventare elemento negativo del nostro cinema comico.

De Bernardis: Sì, è vero, anche perché la nostra tradizione comica non è come quella della pochade francese.

Scarpelli: Qui bisogna intendersi: guardate che i nostri film comici che hanno ottenuto successo all’estero sono proprio dialettali. Uno dei più grossi successi in America è stato «Divorzio all’italiana», che linguisticamente si basa sul dialetto.

— Un momento. Con la parola «dialetto» intendevo la «parlata regionale» con quanto di peggiore un slmile termine comporta. Un «dialetto» porta con sé un ambiente, una regione etnicamente definita.

Scarpelli: In questo senso sì: la «parlata» è stata usata come ripiego per sfruttare determinati comici.

Chiari: Il fatto è che si «abusa» dei dialetti perché siamo degli inguaribili provinciali.

Valeri: Esatto. C'è un'eccezione, forse per il tipo di dialettalità plateale. I film di Totò collocandosi su un piano di comicità avanzata, surreale, si pongono al di sopra della regionalità. Adesso, invece, esiste un tipo di film molto detestabile, perché c’è in esso la volontà del personaggio grosso, che tenta di essere intelligente e che non lo è. E questa à la cosa peggiore.

— Allora lei non è del parere che la satira di costume sia una delle soluzioni felici del nostro cinema.

Valeri: Dico subito che la satira di costume non è necessariamente comica. E comunque è un fenomeno di umorismo che necessita di un’assoluta finezza. Mentre la voga di un costume a tutti i costi è veramente la morte della comicità, è portare il pubblico verso il compiacimento della propria intelligenza che è pur sempre limitata.

— In conclusione, allora ciò incide pure negativamente sulla educazione del gusto del pubblico.

Valeri: Certo. Tanto più che si pensa sempre ad un pubblico culturalmente inferiore. Proponiamo qualcosa di intelligente, ed esso lo capirà.

— Resta ancora da educare il gusto del pubblico?

Valeri: Ma senz'altro!

Risi: Notiamo il successo dei film di Franchi ed Ingrassia e capiremo subito quanto poco sia stato educato il pubblico al gusto del comico.

Chiari: Io direi di no, per un semplice motivo: all'estero il film comico viene fatto per il pubblico del cinema, in Italia è fatto per i «pubblici» del cinema, perché le differenze fra regioni e regioni sono tante. Perciò non si può parlare di gusto, semmai di gusti, e questo è molto difficile. Io direi piuttosto che prima di tutto in Italia bisogna educare la critica. E’ inutile che si inveisca contro Franchi e Ingrassia, perché questi fanno parte dell’A. B.C. del cinema. Non si può chiedere a tutto il pubblico di andare a vedere «Deserto rosso» perché ci sarà gente che non lo capirà. I due comici siciliani, contro i quali si dicono cose atroci, rappresentano il pasto per i palati meno raffinati che pure hanno diritto di vivere, cioè di vedere il loro buon film da quattro soldi. Se ci fosse solamente una produzione di classe, io inventerei quella tipo «leggera» perché come in letteratura succede che non tutti si rivolgono a Faulkner, e prendono Salgari, così al cinema il vero film di evasione è quello comico-commerciale.

— Purché almeno dignitoso!

Chiari: E’ ovvio. E qui torna giusto quanto ha detto De Filippo, che molti credono d'essere intelligenti mettendosi dietro ima macchina da presa.

De Bernardis: Forse forse, direi che andremmo educati noi al cinema.

Chiari: Un'altra magagna è questa (quando parlo devo andare fino in fondo): è nel provincialismo veramente spaventoso dei nostri produttori che anche quando hanno fatto — sia lode a loro ! — la quinta elementare, si credono intellettualizzati al primo film di successo che fanno e non riconoscono al film comico una funzione dignitosa.

Risi: Non va dimenticato poi che noi abbiamo raccolto l'eredità di un certo cinema comico del ventennio che puntava solamente sulla maschera degli attori pur di far quattrini.

Age: Bisogna riconoscere inoltre che c’è stato effettivamente un periodo abbastanza lungo, durante il quale nel film era difficile far entrare qualche problema perché non era richiesto, non solo, ma sembrava che fosse un lato negativo al film comico. Perciò ci si è adagiati nella battuta facile, si è creata una certa rassegnazione a produrre film che sfociano in situazioni legate a ricette rivistaiole.

— E anche volgari.

Age: Anche a quello.

Scarpelli: Questo però non è da considerarsi un fatto negativo.

— Davvero?

Scarpelli: Io considero un fatto positivo lo sciorinamento della volgarità: ora il pubblico non desidera conoscere più nulla ormai.

— Ma ciò rimane pur sempre un fatto negativo rispetto all’etica!

Age: Può darsi. La censura ha fatto bene a permettere tutto o quasi al cinema. Il pubblico ha raggiunto una saturazione, e anche dal punto di vista culturale si tratta di una «acquisizione». C’è stata qualche intemperanza, ma ora seguirà una spinta contraria Non dico che ci saranno film castigatissimi, ma il pubblico non proverà più attrazione per le nudità.

— Quindi, secondo voi, questo sciorinamento rappresenta un dato positivo.

Age: Certamente.

Scarpelli: E’ l’abuso stesso che si fa di un genere che poi stanca!

De Filippo: Per carità, che dite! Io sono un vostro ammiratore, però non sono d’accordo su questo punto. Una volta toccato il fondo, si resta sul fondo.

— Lei preclude la possibilità di «riemersione»?

De Filippo: Può darsi che avvenga, ma per me si è sempre toccato il fondo. E’ come chi va in galera. Rimesso in libertà si può redimere. Sì, però per me è sempre uno che è stato carcerato. Io sto facendo il comico da cinquant’anni e non ho detto nessuna volgarità. Ritengo necessaria la volgarità per quegli sceneggiatori e produttori che amino la volgarità, come se fosse proprio la loro amante.

— Allora, come spiegare la sua presenza in film piuttosto volgarucci?

De Filippo: Già gliel’ho detto un'altra volta: io ho partecipato a tali film, ma non è che mi sono spogliato io, non ho detto io la parolaccia. Ho sempre tagliato le battute che prevedessero una cosa del genere.

Tognazzi: Non so fino a che punto un ragazzo italiano che apprende dal cinema una parolaccia o veda un pezzo di gamba in più possa rimanere danneggiato nel futuro. Mentre i fìlms americani «per tutti», nel modo come sono concepiti, fino a che punto sono più istruttivi di quelli italiani? Consideriamo, per esempio, come vengono presentate le bande dei gangsters! Anche lo svolgersi dei film western !

Carotenuto: Io non condivido. A me la volgarità urta moltissimo. Il film comico non dovrebbe dimenticare che è l’unico fatto per «distendere» lo spettatore. Invece, una famiglia che la sera si reca al cinema oltre che vedere, deve pure sentire delle cose sconce. Ne deriva così un disagio ! Condanno in pieno questa produzione nostrana. Sono del parere che si può far ridere anche senza far vedere due che stanno sul letto, o far dire necessariamente parolacce.

— Ennio Flaiano mi scrive così: «Penso che (le volgarità) esprimono uno stato d’animo molto diffuso della vita nazionale. Il film comico non inventa niente, copia».

De Filippo: Io non capisco più niente! C’è ima malafede veramente sfacciata nella produzione italiana di questo genere qua!

Risi: Anch’io dico che non è necessaria la volgarità, però purtroppo piace al pubblico italiano. C’è da fare poi anche quest’altra considerazione che coincide con l’affermazione di Flaiano: se prestiamo orecchio a una conversazione italiana, a tutti i livelli, notiamo che c’è molta volgarità nelle parole. La volgarità è proprio un modo degli italiani per esprimersi, è il riassumere con due battute incisive un discorso. Però al cinema se ne può fare a meno.

Tognazzi: Io desidero aggiungere questo. Come sempre, soprattutto in Italia, l’abuso trionfa su tutto! Mentre può essere giustificato un certo tipo di linguaggio che ha il suo corrispettivo in letteratura o che deriva da esso, un linguaggio scurrile fine a se stesso e concepito solo per sorprendere il pubblico non è giustificato.

Vianello: No. no. La volgarità non è pienamente necessaria. Molto spesso capita però che il comico, non avendo la battuta scritta, rimedia con una volgare. Anche noi non sempre abbiamo la battuta facile e felice!

— Lei, Steno, cosa pensa in proposito?

Steno: Da parte mia è una lotta continua contro questo tipo di film. E' un discorso che non mi stancherò mai di ripetere: siccome la volgarità è stata fatta sotto forma di pseudo-arte, il pubblico l’ha gradita come si gradisce una salsa piccante. A me personalmente dà molto fastidio. Se qualche volta l’ho fatto nei film miei, è perché sono stato trascinato dall’ondata.

Chiari: Ma perché non riconoscere che da Plauto in poi noi abbiamo avuto bisogno della parolaccia? Certo va detta nel «diapason» dell’azione, questo sì. Questi sceneggiatori ne fanno ora un'insegna!... Che si vuol fare?

Continenza: Non è cosa necessaria la volgarità, nella maniera più assoluta. Però c'è questo: la comicità italiana deve rifugiarsi, come si è detto prima, spesso nel dialetto e delle volte occorrono le parolacce, come per la «Grande guerra», «I soliti ignoti», che il pubblico ha accettato perché non erano gratuite. Così pure per le scene audaci: occorre vedere se sono funzionali.

— QUESTO E’ IL PUNTO. MA VOLENDO RISALIRE ALLE ORIGINI, CHI IMPONE, CHI RIPRODUCE LE PAROLACCE E LE SCENE AUDACI?

Continenza: Non credo che siamo solo noi sceneggiatori a volere ciò, perché non vi sono persone della nostra categoria capaci di trovare risorse per la comicità solamente nelle parolacce e nelle situazioni oscene. Dirò che quando il gruppo Age-Scarpelli, Steno, Monicelli ed io entrammo nel cinema, spesso ci sentivamo ripetere la domanda: «ma perché nelle vostre sceneggiature manca la donna?». Nei lavori che scrivevamo allora, non poteva entrare la donna perché il suo ruolo era solamente quello di mostrare le proprie procacità. Se si ricordano i film di Totò. là si vedeva l'attore roteare i suoi occhi su un seno di donna e via dicendo. Si era nel campo della pochade, del doppio senso, perché tra l’altro, non si poteva andare oltre. Oggi che la censura è molto di manica larga...

— Mi scusi se la interrompo, mi pare che abbia sfondato la manica!

Continenza: Già, oggi non c'è più il doppio senso, le cose si dicono così come sono! C’è un’altra considerazione da fare. Il produttore impone una certa nroduzione. il pubblico l’accetta e in definitiva poi qui viene fuori la storia dell'uovo e della gallina.

Totò: Per me la colpa è del pubblico che accetta la volgarità.

— Io penso che sia il produttore ad Imporla.

Totò: Il pubblico è sovrano e se accetta una cosa vuol dire che gli sta bene. Questo è il perìodo in cui il pubblico accetta tutto.

— Può condividere con me la speranza di vedere in Italia un cinema comico meno volgare?

Totò: Penso che in Italia ciò sia un poco inutile, perché qui da noi non si ha il concetto del film comico come qualcosa di serio.

Fabrizi: E’ proprio il pubblico che si è degenerato. Se si dovesse stabilire comunque una «colpa» del cinema immorale, secondo me essa deve ricadere sulla censura che permette la proiezione di film in cui imperversano i giovani e i loro ossessionanti problemi di sesso.

Girolami: Gli incassi però dicono che il pubblico si diverte con le scene sconce, e allora...

Valeri: Io veramente darei colpa a chi la impone (non escluso la censura che appone il «visto»), anche se uno strato del pubblico, venendo sollecitato dalla volgarità, si diverte.

Benvenuti: Senz'altro. E’ ovvio combattere la censura, di qualunque colore sia. Se fosse stata più rigida, ci avrebbe stimolato per altre strade. In quel caso si sarebbe detto «accidenti alla censura!», però era meglio.

1965 07 Rivista del Cinematografo Inchiesta comici f4

— Dato che il pubblico si diverte, come dite, cosa ne pensate di esso? Flaiano mi dice: «E’ sveglio, un po’ facile ma non stupido, demistificatorio».

Carotenuto: Quello italiano è magnifico. E alle volte è fin troppo indulgente. Ha un difetto: oggi si è diviso in tre categorie. C’è il pubblico degli intellettuali, i cosiddetti impegnati, poi c’è quello degli pseudo- impegnati che sono tanti, e che non capisce niente; e poi c’è l'altra parte del pubblico, che è il 90% degli italiani, e questa parte vuol vedere il film divertente, non il film della noia, complicato. utile solo alle cineteche, perché vuol passare un’ora tranquillamente. Chiamiamolo pure «pubblico provinciale», ma è il più sano.

Totò: Il pubblico italiano è molto difficile. anche perché in questo momento, in fatto di gusti e non solo... non è né carne né pesce. Non sa cosa vuole. E’ alla ricerca di qualcosa. Ha complicazioni psicologiche che gli rendono la vita più agitata e forse pure poco seria...

Vianello: Io lo trovo sconcertante. A volte dimostra di apprezzare film che hanno dei valori comici, altre volte risponde a film senza requisiti. Però è un pubblico che ha bisogno di essere preparato al gusto del cinema. Per ora è ancora abituato alla mediocrità. In questo senso forse la TV ha aiutato gli spettatori ad essere un poco più scaltri nell’accettare un comico.

Continenza: E’ molto disorientato. Nei gusti, va a cicli. Certo, anch'esso ha la sua parte di colpa per la produzione di certi film preferendoli ad altri con tematica più impegnata. In ordine al film comico il nostro pubblico è molto disavveduto.

Tognazzi: E’ abbastanza difficile. Ho l’impressione che non sia capace di affezionarsi in maniera duratura ai suoi attori, per cui nessuno di noi diventa un grande mito e anche se Io diventa, viene considerato solo nei discorsi salottieri o in quelli generici di tutti i giorni, e non per ammirarlo poi al cinema.

Wertmuller: E ciò, perché in generale l’italiano ha l’amore facile. Soprattutto ha poco rispetto della cosa amata, del mostro sacro. Noi, anche se viviamo nel paese della retorica, abbiamo un amore alla distruzione del mito, che ci porta a mangiarci subito i nostri eroi. Però, in fondo, si affeziona, anche se per poco, e questo fa sempre piacere...

Angelo L. Lucano, «Rivista del Cinematografo», n.7, luglio 1965

1965 10 Rivista del Cinematografo Inchiesta comici intro

la SECONDA PARTE di questa inchiesta è stata realizzata con la collaborazione di: Alessandro Blasetti, Carlo Campanini, Leandro Castellani, Mano Cecchi Gori, Vittorio De Sica, Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Mario Mattoli, Mario Monicelli, Claudio Quarantotto, Luigi Rovere.


Quando iniziammo a condurre questa inchiesta non prevedevamo di andare incontro ad una sorta di difficoltà, a volte notevoli. Difficoltà non tanto di ordine pratico, quali, ad esempio, il rincorrere, per gli incontri, i vari personaggi del nostro cinema, quanto levitare le espressioni di certi atteggiamenti mentali propri di quei personaggi o il raccogliere, per vie brevi, reazioni da parte di alcuni di essi le cui risposte sono state pubblicate nella prima parte del servizio. Questi ultimi, infatti, «non pensavano mai» che riportassimo integralmente quanto avevamo raccolto negli incontri avuti e contavano sulla genericità del discorso o sulla mancanza di riferimenti precisi a questo sceneggiatore o a quel regista. E’ vero che nel lavoro di inchiesta sì pone sempre il problema dell'opportunità di una selezione delle parole raccolte, ma personalmente siamo portati a contare sulla immediatezza di certe espressioni poiché essa, quasi sempre, riflette la genuinità dell’atteggiamento intimo di una persona, senza le distorsioni prodotte da un meritato logismo.

Seguitare ad incontrarci con personalità del cinema è stato comunque cosa gradevole; il sole, felicemente persistente nel cielo del loro mondo di creatori, li rende sufficientemente euforici e quindi ricchi di una cordialità più aperta verso gli altri, amebe se gli altri appartengono a quel terribile mostro che è la stampa. Tra questi «altri» rientra anche il pubblico. E la gente del cinema, si sa, è quella che lavora più di tutti per aiutarlo ad evadere dal grigiore quotidiano. Non importa se poi esso non sì affezionerà agli eroi del suo schermo. I lettori ricorderanno, infatti, che la volta scorsa il colloquio si chiudeva proprio con una considerazione di Una Wertmuller sul pubblico italiano: «...Noi, anche se viviamo nel paese della retorica, abbiamo un amore alla distruzione del mito, che ci porta a mangiarci subito i nostri eroi». Riprendiamo il discorso proprio al punto allora interrotto.

Angelo L. Lucano


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De Sica — Quello italiano è il pubblico più severo del mondo. Sembra facile, sembra che accetti tutto, ma non è vero. A proposito di comicità, ho visto a Londra fare delle risate per cose stupidissime che qui in Italia avrebbero lasciato indifferenti tutti. Il nostro pubblico è il più attento, il più misurato, il più...

II più equilibrato, forse?

De Sica — Sì sì, questa è proprio la parola esatta, il più equilibrato. La manifestazione per una diva lascia da noi il tempo che trova, soprattutto qui a Roma; invece a Parigi, in America, si hanno scene da pazzi! Per noi registi, quando riusciamo a conquistare il pubblico italiano possiamo dire di avere dalla nostra parte il pubblico di tutto il mondo.

E lei Monicelli, cosa ne pensa?

Monicelli — E’ un pubblico molto avveduto e soprattutto è più vivo, più pronto, più smaliziato che non gli altri. Anch’io sono del parere che, conquistato il nostro pubblico, si può affrontare serenamente il mercato internazionale.

Gassman — Io devo dire che questo pubblicò è un po’ il contrario del senato romano antico, cioè del detto famoso secondo cui il senatore è un bonus vir e il senato nel suo complesso una mala bestia; al pubblico, preso individualmente è meglio non chiedere i motivi per cui ti viene a vedere. Preso nella sua totalità e nella prospettiva del tempo ha sempre ragione, ed è un animale abbastanza intelligente.

Anche a Mario Cecchi Gori, produttore, rivolgiamo la stessa domanda.

Cecchi Gori — E' magnifico, pure se molto difficile, perché ha delle reazioni inaspettate. Certo, come tutti i pubblici, ha delle zone in cui tende a spettacoli più facili, ma è sempre un pubblico «velocissimo» nel valutare una cosa, a differenza degli altri, che molto spesso stentano ad afferrare.

Ritiene lei che si sappia affezionare ai suoi Idoli?

Cecchi Gori — Qui in Italia non è possibile creare degli idoli da parte nostra. Il pubblico si affeziona a quel che più gli piace in un determinato momento, ma poi si mostra abbastanza cinico per distruggerlo. Volendo così tirare un primo risultato su questo dato che si è cercato di mettere a fuoco, bisogna concludere, stando alle ultime affermazioni e a quelle fatte la volta scorsa, che il pubblico italiano rispetto ai personaggi cinematografici, nel complesso, è magnifico.E' un pubblico attento, è stato detto. E’ un pubblico esigente. Come mai però c'è della produzione che va contro il buon gusto di esso?

De Sica — Perché fra gli sceneggiatori e i produttori c’è della gente volgare. Vede, siamo noi del cinema a portare il pubblico verso cose poco carine, perché il pubblico tende sempre ad ascoltare cose belle. Il cinema dovrebbe educare maggiormente e non maleducare, come spesso avviene oggi.

Eppure c'è chi dice che condizionatore della produzione sia proprio quel gusto di cui parliamo. Lei, Monicelli, condivide tale considerazione?

Monicelli — Naturalmente c’è della produzione corrente che segue il gusto del pubblico, c’è l’altra, fatta di poche persone — di solito registi — che va contro il gusto del produttore, degli sceneggiatori, del pubblico, per determinare un gusto nuovo. E' faticoso, ma quasi sempre si riesce.Dicendo «c'è una produzione corrente», se ciò risponde ad una verità oggettiva, si lascia presupporre l’esistenza di un gusto italiano medio o corrente. Appare scusabile, di conseguenza, quella produzione scadente che rientrerebbe nelle qualità mediocri del gusto medio!

Castellani — Indubbiamente. Il gusto del pubblico è legato a qualità emozionali. Se una persona può essere stimolata al riso solamente col solletico alla pianta dei piedi o con la ripetizione di parolacce il fenomeno forma un certo riflesso condizionato, per cui la persona prova molto meno piacere di fronte ad una stilizzazione maggiore, a una efficacia comica più profonda; la volta successiva avrà bisogno di un raddoppiamento delle situazioni volgari.

La produzione corrente, che rientra nelle considerazioni da lei fatte, ha contribuito al deterioramento del gusto?

Castellani — Ma senz’altro. Si sarebbero potuti fare film per tutti, senza solleticare le piante dei piedi a nessuno.

Quarantotto — Vorrei fare una precisazione. E’ stato detto ora «film per tutti». Chi sono tutti? Tutti sottintende un popolo, una nazione, gente che abbia delle caratteristiche precise, che formi un’unità culturale, politica, morale. L’Italia non è nulla di tutto questo. E’ divisa politicamente in più parti. Ognuna di queste «parti» ha la sua bella morale pronta e ben definita. La morale, oggi, non ha più un senso comune; non esiste più morale comune, condivisa da tutti. Non esiste più, inoltre, una cultura nazionale. Gli scambi con tutti i paesi del mondo hanno introdotto nei nostri confini opere e ideologie esotiche, stravaganti o soltanto diverse, che hanno modificato, influenzato, deformato i caratteri peculiari della cultura italiana. Chi sono, quindi, questi signori «tutti»? Sono tanti signori che vogliono tante cose diverse, spesso contrarie, opposte l’una all’altra.

De Sica — Ed è per questo, come dicevo, che se noi riusciamo a fare dei film che gli italiani accettano, possiamo affrontare gli stranieri...

Scusi l'interruzione. Dopo questo intervento polemico, vorremmo sentire il parere del produttore Luigi Rovere, che come si ricorderà produsse il primo film di Fellini, «Lo sceicco bianco» e dopo, altri film brillanti.

Rovere — A prescindere dalle considerazioni fatte da Quarantotto, ritengo come produttore che il pubblico, il gusto se lo forma da sé e se va a vedere un cattivo film è perché vuole vederlo. Quindi, perché stare a preoccuparci noi del suo gusto?

Deve però riconoscere che oggi la gente, anche quella di periferia, non va più in un cinema tanto per andarci, ma ci va per vedere «Il film». Questo cambiamento nel pubblico dovrebbe o no portare voi produttori a migliore la qualità dei film?

Rovere — Senz’altro.

Ma ciò ci pare che non avvenga.

Manfredi — A me i produttori vengono a dire «il pubblico chiede questo e questo...». Ma io dico: «uno sforzino per migliorare la qualità lo vogliamo fare?». Cozzo contro un muro. Io credo che attualmente ci stiamo seppellendo con le mani nostre, perché quando avremo esaurito gli argomenti a base di corna e di sberleffi, il pubblico ci avrà abbandonati. Il cinema deve avere la stessa funzione del libro. Per chi non sa leggere o non ha tempo di farlo, il cinema dovrebbe rappresentare una possibilità di apprendimento. Non dico che deve avere un esclusivo carattere pedagogico, se no finisce pure col diventare strumento di determinate ideologie. Aiutare a capire certi problemi, questo dovrebbe e potrebbe fare il cinema, soprattutto in chiave comica. Ora si raccontano solo storie sconce, e basta. Come dice De Sica, occorre educare maggiormente il pubblico. Così si avrà in esso anche un gusto migliore.

Gassman — Per quanto riguarda il gusto, condivido in parte le considerazioni fatte finora. Desidero aggiungere questo: non bisogna dimenticare che le risultanze economiche servono a stabilire una gerarchia di preferenze sia in senso attivo, poiché danno quel che è il polso dell’umore del pubblico e le sue necessità, e sia anche in senso negativo, facendo generare dai soggetti originali delle copie. Ora, queste copie, che non sono mai poche, hanno senza dubbio inciso negativamente sul gusto del pubblico e non solo su quello, ma anche su una parte della critica. Infatti ci sono dei critici che si lasciano ancora influenzare da una malintesa divisione per generi, per cui il genere comico è necessariamente da prendere sottogamba.

Vogliamo sentire il parere del critico?

Quarantotto — Il disinteresse della critica è causato proprio da questa situazione. I film comici italiani sono brutti e la critica italiana non può interessarsi di film brutti. Le meditazioni sul comico cinematografico si fanno quando appaiono sui nostri schermi film inglesi, spagnoli o francesi. Bisogna dire, però, che esiste anche una prevenzione contro il nostro film comico, generata proprio dal basso livello della nostra produzione. Il melodramma, in Italia, ha rovinato il gusto critico. Il film che «fa ridere» è considerato ancora, forse inconsciamente, sempre meno importante del «film che fa piangere». Appartiene ad un genere «minore», insomma, anche se nessuno avrà il coraggio di affermarlo apertamente. Il fatto poi è che noi non sappiamo ridere di noi stessi. E’ un difetto nazionale. Una specie di sventura nazionale. Siamo circondati da monumenti, da statue, e spesso vediamo anche noi stessi sotto forma di monumenti, di statue.

Monicelli — E’ giusto quel che è stato detto ora, ed io vorrei aggiungere che personalmente mi rammarico che non ci siano abbastanza registi importanti in Italia disposti a dedicarsi al film comico, il quale rimane pure un genere molto importante. Adesso finalmente Germi si è dato anche lui a fare film umoristici con risultati straordinari.

Campanini -— Ma non è solo questione di registi. Mancano le idee! Lo sceneggiatore che ha cultura le tira fuori dai classici, e quindi pigliando a destra e a sinistra viene fuori sempre qualcosa di buono. Quel che è difficile è l’idea originale. Tuttavia ci potrebbe essere maggiore competenza tecnica, almeno. Nella produzione corrente c’è troppa improvvisazione.

Blasetti — Un altro dei torti del cinema italiano comico, e non soltanto quello comico, è quello di dare alla sceneggiatura un’importanza limitata.

Già, ci sono sceneggiatori che si lamentano di non aver mai visto realizzato per intero un loro lavoro.

Monicelli — Credo che questo sia un vezzo di tutti gli sceneggiatori. Io ho pure fatto questo mestiere, e so che si è portati a ritenere che quanto viene realizzato non è all’altezza di quanto è stato scritto. Tali lamentele sono comprensibili, ma come discorso generale. Bisogna anche dire che molto spesso ci sono registi i quali migliorano le sceneggiatura. Quindi, tutto sommato, non si può porre sul tappeto questo, per così dire «grosso problema», come gli interessati vorrebbero.

Per chiudere questo argomento, vogliamo conoscere anche il parere del produttore?

Cecchi Gori — Il produttore vuol fare un certo prodotto che abbia un determinato orizzonte e anche un determinato costo secondo le disponibilità. Gli sceneggiatori, molto spesso, si sbizzarriscono con idee grandiose. Se si lamentano, provino a fare i produttori, cambieranno parere...A parte queste considerazioni e per rientrare nel discorso, siamo portati a pensare che in Italia non si sia dato abbastanza credito al genere comico, o per lo meno non tanto quanto se ne è dato al genere drammatico.

De Sica — La ragione è semplice: la nostra comicità è rimasta sempre nell’ambito regionale, e doveva rimanerci perché non si concepiva una sceneggiatura di «azione».

Certo che abbiamo assistito quasi sempre ad un tipo di comicità epidermica.

Blasetti — Sì, è questa una definizione chiara che ci fa comprendere perché in Italia il film comico non potrà mai essere preso sul serio. Anche per questo motivo, forse ,i produttori non si sono mai impegnati.

De Sica — Resta pure da notare che l’umorismo è una cosa molto difficile.

Blasetti — Certo, ma in Italia non si potranno mai fare grandi film comici, soprattutto non si potranno fare dei film satirici, pungenti, perché siamo capaci di fare dello spirito solamente sugli altri e non su di noi.

Monicelli — Io penso invece che qualcosa si avrebbe potuto fare e si potrà fare se cesserà la sfiducia insita in certe aspirazioni professionali. Ci sono registi che non danno credito al genere comico perché lo ritengono di minore impegno artistico; invece, esso ne richiede di più. Dipende proprio dai registi i quali oltretutto non spronano nessuno a fare bene il comico.

Manfredi — Io dico che è soprattutto il produttore a volere una produzione comica-scadente. Perché l’attore, il regista, lo sceneggiatore, sono dei professionisti, e prima o poi devono piegarsi ai voleri del produttore. Dirò pure che manca nella maggior parte dei produttori la volontà di migliorare la produzione. Non dovrei dirlo io, ma da diverso tempo cerco di proporre un argomento «seriamente» comico. Bene, sapete qual’è la risposta? «Ah Manfredi, ma noi vogliamo fare qualcosa che non impegni molto e che faccia ridere». Io sento di essere un tipo professionalmente abbastanza serio, tanto da passare come l’attore più rompiscatole che esista nel cinema comico italiano. Ma nessuno ha voluto farmi fare un film comico di una certa importanza; mi hanno fatto solo arrabattare. I responsabili, dunque? Eh!... sono parecchi. Lei consideri, ad esempio, che molti sceneggiatori non si considerano «impegnati» se non fanno film con una tesi drammatico-sociale ! Si può continuare ad andare avanti così?

Tirando anche qui le somme, pare che il capro espiatorio debba essere, in ùltima istanza, il produttore.

Rovere — Devo dire che noi siamo sempre alla ricerca di soggetti seri (dal punto di vista professionale) e importanti. Ma è difficile trovarli. Soprattutto quando si tratta di un soggetto comico. Finché è una trama drammatica, siamo capaci tutti di far piangere un po’ la gente, ma farla ridere è difficile. Noi realizziamo quel che ci viene presentato, se ci piace.

Però notiamo che spesso, come ha detto Gassman, il produttore da uno stampo ricava copie scadenti.

Rovere — Indubbiamente questo avviene. Io personalmente i «filoni» li ho sempre iniziati. Ho fatto «Come persi la guerra» con Macario, «Lo sceicco bianco», «Come scopersi l'America», «Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo».

Cosicché pare che abbia escluso film di bassa comicità?

Rovere — Non è che li ho esclusi, adesso non mi ricordo i titoli, ma film del genere vengono fuori senza che ce ne accorgiamo.

Non è piuttosto la volontà di fare soldi facilmente?

Rovere — Vede, c’è un importante problema da considerare. Noi abbiamo, per quanto riguarda il film comico, un mercato piuttosto limitato, che è di solito quello nazionale (è difficile che possa essere collocato all’estero) per cui non si può fare un film di elevato costo, e molto spesso «le copie», come le chiama lei, ci servono per il rientro delle spese sostenute nella produzione dell’originale. Per quanto riguarda la produzione scadente, se mancano i buoni soggetti non dipende certo da noi.

Alcuni sceneggiatori si sono lamentati di avere a loro disposizione poco tempo per scrivere un lavoro completo.

Rovere — Questo sì che è un punto molto discutibile. Io dico che in Italia, a porte quei pochi buoni sceneggiatori che ci sono, la maggior parte non affronta la professione con la necessaria serietà. Se hanno la fortuna di essere chiamati da cinque produttori e sentirsi proporre cinque sceneggiature diverse, le pigliano tutte e cinque e poi dicono di non avere tempo a sufficienza.

Cecchi Gori — Certo che se avessimo sceneggiatori più impegnati, noi produttori avremmo una maggiore scelta.

Castellani — Per me resta sempre il fatto che i produttori hanno il torto di preferire la strada facile. Però hanno pure la scusante, come dice Rovere, di non avere una vàlida alternativa a questa strada facile. Tant’è che quando questa strada facile ha dato la possibilità di un risultato interessante, esso è stato conseguito. Quindi direi che quando c'è ima alternativa valida, l’esperienza insegna che viene sempre fuori qualcosa di buono. Giustificare la scadente produzione dal punte di vista del produttore, o dalla scarsa fantasia degli autori, o con la scusa dei gusti del pubblico esigente, scusate, Da mi sembra piuttosto banale. Il pubblico, mi pare, quando ha un film deliziosamente comico risponde; anche quello della periferia. Qualcuno usa la richiesta del pubblico come elemento discriminante per scegliere un tipo di comicità piuttosto che un altro; questo mi sembra sbagliato.

Blasetti — Qui, per me, sono responsabili un po’ tutti della situazione. C’è la mancanza di coscienza da parte del regista che assume la direzione di film non sceneggiati a sufficienza; dell’attore che recita pur di guadagnare; dell’incoscienza del produttore il quale crede che cose arrabattate possano andare, mentre non vanno.

Manfredi — Allora è inutile che si vengano a fare dei confronti con la tradizione francese, inglese e via dicendo.

Quarantotto — Ma una tradizione c’è. E’ fatta dai film di Totò, di Macario, di Rascel. Non è una bella tradizione, è vero, ma c’è. E’ il genere comico fondato sulle gambe corte, sul visetto da clown e sul mento snodabile. In fondo, il nostro contributo alla cinematografia comica internazionale è tutto qui: un contributo di marca squisitamente nazionale. Chi ha voluto fare di meglio, ha dovuto ispirarsi ad un altro paese. Ferreri, ad esempio, con il suo bellissimo Cocbecìto ha chiesto aiuto agli scrittori spagnoli. Il suo è un film spagnolo, non italiano. L’«humorismo sin piedad» non fiorisce sotto il cielo d’Italia.

De Sica — Senz’altro. Di ima tradizione vera e propria non possiamo parlare. Prima perché non abbiamo avuto dei buoni autori, secondo perché manchino del senso dell’umore e così si cade nella volgarità; terzo, (di conseguenza a quanto dicevo prima), i nostri comici ancora oggi si affidano molto alla parola. Per esempio Totò, che per me rimane uno dei grandi comici del nostro tempo, non ha sfondato all’estero perché gli hanno fatto estrinsecare la sua carica comica con motti di spirito che con quelli che noi a Napoli chiamiamo «lazzi», mentre avrebbe potuto essere all’altezza di comici di primo piano. Totò aveva bisogno di «azione» e non di «parola». E come lui così anche altri comici d’oggi.

Vogliamo sentire il regista che ha diretto parecchi film di Totò?

Mattoli — Tutto è dovuto alla mancanza di ispirazione. Si è creduto fin troppo e in malafede, che fare del cinema comico significasse rappresentare cose per il più delle volte sconce.

Se ci permette una domanda: come mai i suoi film non si sono sottratti al fascino di tali cose?

Mattoli — Si è sempre trattato di una questione di produttori.

Campanini — I quali non hanno mai cercato di elevare il tono di questo genere.

Blasetti — Ma come possiamo avere una tradizione comica cinematografica se non ne abbiamo neppure una letteraria? Da Dante a Moravia, abbiamo mai avuto uno Shaw?

Monicelli — Io direi che in campo cinematografico una tradizione si sia già definita (basta pensare a Totò e Macario, come dice pure Quarantotto, e a «Come persi la guerra» di Borghesi che rivelò all’estero una comicità italiana). C’è piuttosto da dire, secondo me, che questa tradizione non è stata ancora bene individuata dalla critica ufficiale. Prevedo però che presto lo farà, e allora se ne parlerà anche troppo.

Gassman — Io dico che una tradizione c’è. Monicelli ha dato prova che un senso umoristico, noi ce l’abbiamo. Lo ha dimostrato pure Germi. Secondo me tutti, grandi e piccoli autori, hanno svolto un discorso validissimo sul piano del costume e della satira, che è entrato fra i generi maggiori, accanto al genere drammatico. Totò ha svolto il discorso della farsa che è un’altra delle grandi strade dell’umorismo autentico, fin dai tempi di Menandrò e di Plauto. E’ un genere che ha una sua collocazione nobilissima.

Però è una farsa rimasta nell’ambito nazionale.

Gassman — Ma questo perché di solito la farsa è la più legata all’ambiente in cui nasce. Il teatro moderno ha svolto un discorso comico piuttosto irrilevante. Invece a svolgerlo è venuto proprio il cinema, ereditando la grande tradizione classica, e l’ha adeguata ai tempi anche, perché no?, ricavandone maggiore succo dall’andazzo della vita moderna.

Castellani — In questi termini, così intesa la tradizione, direi di no. Quali rapporti abbia il tipo di film che vede interpreti «comici cinematografici» (Sordi, Tognazzi, Manfredi) con la tradizione classica della comicità italiana è anche un altro discorso grossissimo che forse è pure un poco rischioso affrontare. Mettere in rilievo la volgarità di un film attuale con la volgarità machiavellica, pur di scusare certi film d’oggi, stabilire questo confronto, come fanno molti, mi sembra inesatto proprio perché le matrici culturali da cui sono nati i procedimenti e per cui sono venuti a galla, il tipo di pubblico a cui si rapporta sono del tutto diversi. E allora, o il discorso si fa in forma più ampia o se no, fare dei parallelismi immediati, porta a dei risultati generici.

Sarebbe senz’altro un discorso interessante questo sulla tradizione, ma per motivi ovvi, non possiamo affrontarlo qui. E’ argomento che va inquadrato in più prospettive varie. E’ bene non cadere dunque in genericità, come dice Castellani. Auguriamo a questi che sia proprio lui a fare il punto sull'argomento nel libro, prossimo alle stampe che ha come oggetto proprio «il cinema comico italiano». Ora vorremmo spostare la vostra attenzione su un altro argomento, che per vari aspetti si presenta negativo alle considerazioni estetiche e morali: la volgarità di molti nostri film comici.

De Sica — Beh io dico che è un fatto deprecabile, molto. La volgarità non rientra tra i canoni dell’arte. Essa fa parte di un certo genere dato in pasto a gente da poco...

Gassman — Se ne deve ancora parlare? Se n’è parlato abbastanza con polemiche assurde e infantili. Anche qui devo dire che non si deve e non si può generalizzare. Che non necessariamente un linguaggio un tantino spregiudicato significa volgarità. Talvolta persino la grande scurrilità può non essere volgare. Secondo me è volgare tutto ciò che è falso, che non corrisponde alla verità. Quando un linguaggio, un atteggiamento molto al limite è funzionale, non arbitrario, alla osservazione oggettiva del panorama che ci circonda, non si può assolutamente parlare di volgarità. Mentre è vero, lo riconosco, che sono stati fatti dei film, a ridosso di altri, la cui volgarità per così dire era estremamente garbata.

Mattoli — No, no. La volgarità è una comoda via d’uscita per i registi per i produttori e per gli autori. Ma che scherziamo con affermazioni simili?

Cecchi Gori — Per me ogni situazione va inquadrata nella moda, nell’epoca in cui avviene.

Secondo lei, quindi, la volgarità corrisponde alla verità oggettiva?

Campanini — Ma per carità! Scusate, scusate. Ma non si dicano sciocchezze. In ogni società c’è il borghese, il nobile, il plebeo. C’è gente volgare e no. Ma perché dimenticare che esiste gente chie non vuol sentire, che non vuol vedere cose sconce? Dico questo: io ho rifiutato ultimamente film perché di una volgarità veramente stomachevole. Ogni film è un documento che resta, e io non voglio essere ricordato come attore volgare. Perciò mi sono messo a fare l’operetta, anche se è meno redditizia. Ma a parte questo, se ho rifiutato, l’ho fatto per i miei principi morali.

Blasetti — Per me la battuta facile non è giustificabile, come principio. Però può essere accettabile in rare eccezioni, quando cioè l’azione scenica, per raggiungere un suo acme, ha bisogno di una completezza che molto spesso si identifica proprio nella battuta facile. Ma una, due battute, non tutto il film.

Quarantotto — E’ proprio questione di principi. No, le parolacce, le volgarità, le oscenità non sono necessarie. Su queste basi non si costruisce una nuova cinematografia, ma soltanto un nuovo turpiloquio; o meglio, si estende la conoscenza di particolari turpiloqui regionali all’intero paese. La moda del film romanesco prima, quella del film siciliano poi e, ora, quella del film napoletano, ne sono un esempio. Le «parolacce» non servono e, soprattutto, non bastano per fare un film comico che sia anche opera d’arte e non soltanto il surrogato della «cartolina del pubblico», o il condensato di queste. Molti film italiani, invece, purtroppo, oggi fanno soltanto ridere. Ma si ride anche se qualcuno ci solletica da qualche parte, con una piuma. E il cinema comico nazionale, nella sua grande maggioranza, è soltanto questo: una forma elaborata di solletico! E’ chiaro che in questo modo non si raggiungono le vette dell’arte e nemmeno la cima delle colline del buon gusto.

Castellani — Fare il solletico sotto i piedi di un bambino è un sistema che va perché si produce solamente ima reazione fìsica, animale e basta. Senonché questo sistema ha un difetto, quello della degradazione. Cioè, come ogni stimolo di carattere fìsico usato un paio di volte, si degrada. Allora ha bisogno di essere so stenuto ed aumentato per raggiungere sempre un certo risultato. In Italia il filone comico è stato di carattere popolare, con pochissime pretese. Ad un certo momento questo filone ha trovato delle soluzioni immediate per risolvere certi problemi. Queste soluzioni sono state da un lato le farse di carattere campagnolo sul tipo di «Pane amore e fantasia», dall’altro il carattere dialettale come in «Poveri ma belli», e così via. Su queste linee il cinema comico ha continuato a marciare a livello minimo, creando personaggi e situazioni col minimo sforzo di impegno e di fantasia. La volgarità è venuta così a rappresentare il sistema più elementare per far ridere.

Monicelli — Resta comunque il fatto che nessuno obbliga il pubblico ad andare al cinema.

Manfredi — Per me questa non è sincerità. Ma che significa questo discorso? Il pubblico va anche educato e se non ha altro da vedere, finisce con l’andare a passare due ore davanti ad un film sconcio. Poi dicono pure «il pubblico chiede». Ma cosa? Se mio figlio mi chiede le bombe a mano, che io glie le do? Eppure gli psicanalisti dicono che non bisogna contrariare i bambini. Io, al massimo do a mio figlio una bomba a mano di cioccolato. Ora se il pubblico chiede mitra e di insegnargli come si fa la guerra, noi dobbiamo dargli retta? Il pubblico è come un groviglio di istinti, che vanno incanalati bene.

De Sica - La volgarità è un costume molto recente. Se si fosse stati un poco più accorti si sarebbe potuto evitare.

Lei ha portato la discussione su un terreno minato: la censura.

Mattoli — Per me ha fatto malissimo la censura a lasciar fare. E’ vero che non siamo un popolo di bambini, ma non bisognava dimenticare che non tutti potevano subire parolacce e situazioni scabrose.

Castellani — Allargare il criterio censorio non è stato certo un servizio né al cinema né all’arte in generale.

Manfredi — Un altro pasticcio è che ci sono due organi censori.

Allora sarebbe auspicabile l’eliminazione di uno di essi?

Blasetti — Io do un mio parere personale. Finché non esiste una magistratura esclusivamente adibita al giudizio del l’opera cinematografica, in maniera che ci si possa attenere a un responso garante della fedeltà ai principi della Costituzione, preferisco la censura amministrativa. Ma il fatto che oggi duecento censori amministrativi approvino un film e dopo questo venga bocciato dal duecentounesimo, che è poi il Procuratore della Repubblica, mi pare poco simpatico.

Monicelli - Per me già oggi basterebbero i magistrati, che fanno bene il loro dovere nel puntualizzare limiti e forme. Quante polemiche ci furono per la abolizione della censura teatrale? Ora che c’è libertà, le cose vanno avanti benissimo e così sarà anche per il cinema.

E dell’art. 5 della Legge sul cinema, cosa ne pensa?

Monicelli — Ho l’impressione che si tratti di un fatto puramente formale, perché la moralità del cinema può essere difesa molto bene dalla magistratura.

Blasetti — E* uno dei più grossi pasticci fatti in campo politico. Non si capisce chiaramente qual’è il punto; «chiaramente» cosa voglia dire «etico-socio-politico», se non sbaglio. Quali sono le norme per le quali si può stabilire simile giudizio e soprattutto chi è l’individuo die ha la condizione per poter accertare un giudizio definitivo? Quando si sa che molti giudizi sono legati alla classe politica da cui provengono. I principi enunciati dall’art. 5 stanno già nella Costituzione, c’è una magistratura. Appellandoci a questi prindpi costituzionali si può fermare un film in qualunque città d’Italia. Questo già succede. Perciò cosa significa stare a porre una nuova remora, peraltro assolutamente elastica, incomprensibile ed elastica, la quale dà l’impressione che in qualunque momento chiunque possa bloccare dichiarando che un film non ha requisiti etico-socio-politici?

Cecchi Gori — L’art. 5 è una situazione un poco spinosa. Se siamo onesti, tutti quanti dobbiamo dire che è giusto il concetto generale di esso. Però è altrettanto giusto che non si debba dare in mano ad una qualsiasi commissione il diritto di giudicare se un film deve vivere o morire subito per degli aspetti che se sono da considerare appena appena in termini lati diventano immensi, perché è difficile dire quale sia una tematica etica ben precisa, oggi.

Lei, De Sica, vuol chiudere questo discorso?

De Sica — Sono concorde con la legge che condanni la pornografia fine a se stessa. Certo la parola «etico» dell’art. 5 si presta a molte interpretazioni. E’ poco chiara. Se il film è facile, volgare, io lo condannerei, ma se una scena sola e un poco ’osé’, ma funzionale, allora lasciamo la pure.

Ma lei vede necessario l’art. 5?

De Sica — Bah! Chissà perché, poi? La magistratura non basta?... Ma per concludere voglio aggiungere questo. Il cinema italiano comico e non comico ha commesso peccati di volgarità. Ora deve essere ben lieto di dover ritornare alla costumatezza. Ed è necessario che ritorni, per il bene di tutti.

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Ringraziamo quanti hanno contribuito alla riuscita di questa inchiesta. Certo che niente è indispensabile e nulla è necessario, neppure nel cinema, soprattutto la volgarità, verso cui alcuni registi ed attori non hanno mostrato molta simpatia e che alfine hanno cercato di far passare come lettura di un certo costume sociale. Nella trascrizione di certa realtà da parte di ogni artista c'è sempre una interpretazione che comporta una scelta; mai c'è una preposizione immediata della realtà stessa, il che se succede non fa arte, ma documento. La volgarità non è un dato che ci si trova fra le mani, ma rappresenta una scelta, e come tale non può essere necessaria e può venire sostituita da una migliore. Ci torna ora in mente quanto avremmo già occasione di dire altrove, se in arte si fa cosa morale non ci si dimentica certo dei valori umani. II fatto morale non può intendersi come limitazione della libertà espressiva. Nessuno contesta all’arte il diritto di autonomia. Ma autonomia non significa anarchia. «La norma etica si sente come limite», di completa autonomia dell'arte, «solo quando non è vissuta come costume». E a della gente del cinema non apparirà fuori luogo ricordare, senza alcuna pretesa cattedratica, che ; valori dello spirito, anche nel totale fascino del mondo, rimangono sempre condizioni supreme e fine ultimo.

Angelo L. Lucano, «Rivista del Cinematografo», n.10, ottobre 1965


Rivista del Cinematografo
Angelo L. Lucano, «Rivista del Cinematografo», n. 7, luglio 1965 e n.10, ottobre 1965