L'avanspettacolo

Avanspettacolo


Totò in avanspettacolo

A Parigi, dove, importato dall’America, aveva piantato salde radici, lo chiamavano avant-cinéma: trionfò nei cinematografi « Ciel », « Paramaunt » e « Gaumount », e produsse perfino una diva, la celebre Jeannette Mac Donald. Da noi, in Italia, si diffuse fra il 1932 e il 1933, assunse la denominazione di avanspettacolo e si avvaleva di compagnie dall’organico ridotto che agivano due volte al giorno (nei festivi tre) dando rappresentazioni della durata di quarantacinque minuti, o al massimo di cinquanta. Uno sketch centrale, dalle battute molto spesso pesanti e infarcite di doppi sensi, otto o dieci gambe di ballerine smagrite, costumi da poco prezzo, copioni quasi tutti improvvisati. I suoi templi? Nient’altro che i « pidocchietti », piccoli cinematografi in cui si proiettavano film di terza visione.

L’avanspettacolo, appena sorto, fece giustizia delle vecchie patetiche formazioni di operetta; anzi, fra queste, ad esso subito si piegarono le compagnie di Bluette, Navarrini, Riccioli e Primavera. Altre furono fondate appositamente per mettere in scena rappresentazioni di avanspettacolo, e fra esse si ricordano quelle di Erminio Macario, di Nino Taranto, di Renato Rascel, di Tino Scotti nonché, ci siamo, quella di Totò.

L’attore napoletano volle, in questa occasione, trasformarsi anche in impresario e finanziatore della propria compagnia, vale a dire in capocomico. Un po’ di danaro, nell’attività con Achille Maresca e con Cabiria, l’aveva guadagnato; ora, è proprio il caso di dire, doveva vedere come gettarlo al vento. Assunto un amministratore nella persona del signor Zoppegni, fattisi preparare alcuni canovacci da amici napoletani, fra cui Mario Mangini (nessuno, però, voleva firmarli: la sfiducia nell’avanspettacolo, considerato cenerentola del varietà, era generale), ingaggiate cinque o sei ballerine, un paio di attori e quattro o cinque suonatori d’orchestra, Totò, lavoratore e insieme datore di lavoro, iniziò il suo giro per l’Italia, nei locali più modesti e meno accoglienti.

Le forme delle soubrette, si citano i nomi di Adriana Edelweiss, Gioconda da Vinci, Clari Sand e Clely Fiamma, erano quanto mai prosperose, come esigeva il gusto dell’epoca, e il pubblico, rosicchiando caramelle e noccioline americane, le fissava rapito. « Quando però entrava Totò in scena », ricorda Wanda Osiris che giovanissima fece le sue prime esperienze proprio nell’avanspettacolo, « l’attenzione si spostava su lui. Era una vera indemoniata marionetta, Totò, e talvolta anche noi, suoi compagni di lavoro, ci sorprendevamo incantati ad ammirarlo. Il grosso pubblico rideva, pur senza capire; ma gli intellettuali più aperti, che già incominciavano a venire ad assistere ai nostri spettacoli, rimanevano anche pensosi ».

Trasformatosi in autentico scavalcamontagna, un giorno a Milano e un giorno a Bergamo, un giorno a Caserta e un giorno a Campobasso, un giorno a Messina e un giorno a Palermo, Totò, fra il 1933 e il 1940, portò su e giù per l’Italia una gran quantità di rivistine di avanspettacolo: « Al Pappagallo », « Era lui sì sì era lei no no », « La banda delle bambole bionde », « Il mondo è tuo », « Quelli della mano verde », « Cinquanta milioni c’è da impazzire », « Belle o brutte mi piaccion tutte », « La vergine indiana », « Questo non è sonoro », « Dei due chi sarà? », « Fra moglie e marito la suocera e il dito » sono soltanto alcuni dei titoli fra quelle che raccolsero maggior successo. Del resto fu proprio allora, al tempo dell’avanspettacolo, che si formò il futuro grande comico Totò, e infatti moltissime fra le trovate da lui inserite successivamente nei film sono prese a piene mani da quelle rappresentazioni. [...] Le condizioni economiche di Totò migliorarono, per fortuna, nel 1937, quando l’avanspettacolo attraversò, in Italia, il suo periodo aureo. Adesso non si recitava più soltanto in piccoli cinemetti di periferia, ma anche in locali del centro, e il pubblico era composto anche da persone di una certa levatura, in grado, finalmente, di apprezzare le battute ma soprattutto la mimica di Totò. Gli applausi degli spettatori, diventavano ora sempre più frenetici, la considerazione presso gli intellettuali sempre più favorevole. Particolarmente gradite erano le macchiette mimate « Il pazzo », « Il chirurgo » e « Il manichino », in cui l’attore si scatenava in indiavolate interpretazioni alle quali era assolutamente superfluo l’apporto della parola, essendo tutto basato sul movimento. « Vedete quella mensola? » disse Totò a Cesare Zavattini. « Un mio pezzo che mi sembra riuscito, nacque guardando quella mensola. Avevo sempre una gran voglia di volare lassù, di appollaiarmici tra lo stupore dei miei familiari. Il movimento! Il bisogno di rompere oggetti! Vorrei che mi scrivessero un atto durante il quale io non faccio che rompere tazze, bicchieri, vasi e mobili. Il fracasso si compone in musica. Contemporanea-mentre dovrebbero scoppiare fuochi artificiali, la camera riempirsi di fumo. La mia infanzia è tutto un fuoco artificiale; sento ancora l’odore della polvere pirica ».

Nel 1940 iniziò, in Italia, il decadimento dell’avanspettacolo. Totò, che proprio allora (anche per la popolarità venutagli dai primi film interpretati) stava incominciando a rifarsi delle passate perdite, dovette sciogliere la compagnia. Si arrabbiò da morire, naturalmente: non poteva prevedere che, proprio la fine di quel genere teatrale, doveva coincidere col suo ingresso nel mondo delle grandi riviste.

Vittorio Paliotti


Alto e basso

La caratteristica fondamentale del teatro comico del passato mi pare risieda nel suo rapporto commerciale con il proprio pubblico, di volta in volta popolare, piccolo e medio borghese o misto. Un genere che basava la propria sopravvivenza sugli incassi non poteva proporsi che di soddisfare i gusti del proprio committente e doveva quindi rappresentare in qualche modo gli orientamenti ideologici: ciò, nel bene e nel male, è avvenuto puntualmente per ogni genere commerciale e per questo, nel teatro popolare, è cosi emergente la forza e la subalternità del “popolo spettatore”.

Avanspettacolo Compagnia L

In questo ambito, apparentemente cosi sovrastrutturale, ciò che segna l’abisso tra i grandi interpreti e i pappagalli ripetitori di luoghi comuni è la capacità dell’autore (la cui impostazione viene seguita dal soggettista) di porsi rispetto alle solite categorie (Luogo Comune, Allusione, Buon Senso Popolare, ecc.) in un modo originale che le scardina dall’interno e ne fa risaltare, a tratti, le implicazioni assurde o, per contrasto, eversive. Nel grande Totò teatrale, nei fratelli De Rege, nelle sorelle Nava (per restare a esempi più vicini) c’è un’adesione volontaria e apparente al condizionamento ideologico, ma dietro questa vernice è un ribollire di malumori, di insofferenze e la ricerca di altri spazi (l’assurdo, soprattutto, dove il quotidiano si frantuma nel ridicolo). Ecco perché, paradossalmente, il migliore teatro popolare è quello che in un certo senso contraddice la motivazione accomodante della committenza, senza dichiararlo e magari inconsapevolmente. Fra l’altro è proprio a partire da questo rapporto che si spiega anche la tipica struttura caratteriale del disadattato, comune ai grandi interpreti comici.

Antonio Attisani


Guido e Giorgio

L’uno, quello che strillava, che rimproverava, che si disperava per l’idiozia dell’altro, del quale, chi sa perché, era come il tutore, spari, una sera poco prima della Liberazione, col pretesto d’una polmonite: e fece “vuoto di scena”. L'altro, l’idiota dal naso enorme e dai baffi spioventi (quello che restava impassibile sotto l’uragano dei rimproveri e delle minacce, finché incalzato e fustigato dagl’interrogativi spietati, non scaricava la risposta scema e paradossale a cui rispondeva l’esplosione di riso) si avanzò solo, alla ribalta, quella sera senza accorgersi del “vuoto di scena” del compagno; e, quando se ne accorse, rientrò nelle quinte, a testa bassa, come un bue mite. Ritornò, poi, in iscena con un altro, un estraneo, che tentò di fargli il vocione; poi con un altro; poi con un altro ancora: ma nessuna voce lo dominava più.

Il suo primo tutore e padrone, con cappello a bombetta e bastoncino di bambù, lo aggrediva, un tempo, ogni sera, con tanti perché... — Perché questo? — Perché quello? — Perché quell’altro? — E lui, dopo una lunga pausa, in cui trepidava l’ansia ilare della folla, col testone immobile e le braccia spalancate, rispondeva lentamente: “Non si sa.”

Ed ora egli avrebbe voluto che, una sera, il nuovo tutore e padrone gli domandasse: “Perché l’altro è sparito?” Egli avrebbe voluto poter rispondere, dopo una lunga pausa, lentamente: “Non si sa.”

Guido lo conobbi ch’era un genericuccio della Compagnia Testa, magrino e striminzito, con una moglie una madre un grosso cane (Piti) e un pistolone, forse scarico ma che, in ogni modo, mai conobbe colpo; nel genericuccio c’era un comico di prim’ordine e dal “Teatro della Girandola” alla “Poker d’Assi” Guido sali, nelle riviste, agli onori della vedetta. Giorgio, che faceva l’autista, lo conobbi più tardi; e a Genova lo chiamavano “Cicerin” perché era stato, appunto, autista del ministro sovietico. Il fratello volle che lo scritturassi come attrezzista. Un attrezzista, si sa, è obbligato, talvolta, a dei “passaggi” in palcoscenico. Da quei passaggi nacque un altro comico. Guido disse, anzi, poco dopo, che il comico non era lui, ma Giorgio: e che di Giorgio egli doveva essere la “spalla”. E creò il “numero”. Il numero di due fratelli bassini e col cappello a bombetta, che litigavano in iscena e si adoravano fuori scena. E mai due fratelli, al mondo, si adorarono tanto. Buoni e miti: non li ho mai sentiti reclamare per un “camerino”; per l’“uscire” prima o dopo; per il posto al finale: non li ho mai visti venire alle prove con cinque minuti di ritardo.»

Avanspettacolo Compagnia 01 L

Quando Guido (Bebé) spari, Giorgio (Ciccio) diventò ogni giorno più triste. Finché una sera, spari anche lui; tra il primo e il secondo spettacolo, alla “maniera di Antonio Petito”. Spari perché doveva ricostituire il “numero” che suo fratello aveva creato. E, forse, sul limitare dell’altra vita, Guido, col cappello a bombetta e il bastoncino di bambù, gli andò incontro e gli chiese, burbero: “Perché sei venuto anche tu?”

E lui, col cappello a bombetta e il tight nero, il naso enorme e i baffi spioventi, gli rispose lentamente, col testone immobile e con le braccia aperte: “Non si sa.”

Guido Di Napoli


Le grandi spalle

Riccardo Billi viene dalla paziente “gavetta” dell’avanspettacolo; Mario Riva dalla falange dei “presentatori”. Un bel giorno questi due s’incontrano, e la loro unione — che ricorda quella di certe sostanze chimiche ciascuna delle quali, per proprio conto, è abbastanza innocua, ma mescolata ad altre formano un composto esplosivo — fa deflagrare un clamoroso successo. Questo successo è La bisarca, cui seguono Alta tensione e I fanatici. Ormai la “ditta” è affermata: la sua comicità vince di prepotenza, ed è infatti una comicità prepotente. Non c’è modo di resisterle: fate conto di giocare a poker con un avversario — anzi, due — che abbia costantemente in mano quattro assi. Billi è un parodista di prima forza: la sua imitazione di Anna Magnani ha fatto epoca. Riva è, pirandellianamente, uno, nessuno e centomila: le sue battute rapidissime hanno la persistenza e la suggestività del tam-tam nella foresta: come ne sentite i primi colpi, siete già disposti ad arrendervi; sapete che la vostra resa è inevitabile. In Billi e Riva c’è tutta Roma: la corrosività del Belli, la cordialità di Pascarella, l’ironia di Trilussa. Straordinariamente divertenti, con tutta l’aria di chi sa di esserlo e fa il possibile per non darlo a vedere: un’immodestia che abbassa gli occhi e arrossisce lievemente, come una signorina di famiglia (del secolo scorso). Una cosa è certa: che la loro è una comicità tutta godibile; quando avete finito di saziarvene, vi avvedete che della lauta imbandigione non è avanzata neppure una briciola.

Forse il pubblico non si rende ben conto dell’importanza artistica d’una buona “spalla”. Ma chi abbia intima dimestichezza con la ribalta sa i prodigi di affiatamento, i miracoli di tempismo, il preciso istinto umoristico e la sicurezza di scena che occorrono per adempire utilmente ed artisticamente a questo non facile compito. Un passo di più e la buona “spalla” può diventare un buon comico. E se quel passo non viene, a volte, compiuto è forse nella tema di non trovare per se stessi una “spalla” altrettanto brava. Il nostro palcoscenico di rivista ne conta alcune che sono veri maestri del genere. E per non sapere in coscienza, a chi dare la palma del primato, adotteremo, nel ricordare le tre principali “spalle” del teatro di rivista italiano, il comodo ordine alfabetico.

Fifa e arena 07

Cominciamo dunque da Mario Castellani, l’ottima “spalla” di S.A.R.I. Totò. Magro, distinto, piacevole, Castellani — quando ha cominciato — si avviava brillantemente per la carriera di dicitore-danseur. Ha incontrato per via Totò e si è fermato all'insegna del buonumore. Ormai Castellani ha talmente ben compreso la comicità del suo illustre collega che — forse — potrebbero apparire entrambi sulla scena, senza un rigo di copione scritto, senza aver preso il minimo accordo, senza aver ricevuto il più vago suggerimento, e divertire ugualmente il pubblico per mezz’ora. Al contrario della “spalla” tradizionale, Castellani non finge di incollerirsi per le buffe scemenze del proprio interlocutore, ma anzi sembra sforzarsi di comprenderle, con elaborato interesse, e di fraintenderle, poi, con stupore dignitoso. La sua corretta mansuetudine, allora, serve da sprone alla balordaggine dell’altro, che si fa petulante, proterva, aggressiva. Quando Castellani vorrebbe ribellarsi, è troppo tardi: Totò si è ormai impadronito della situazione e ci gioca, ci giostra, sbatacchiandola in ogni senso al suo inimitabile modo. Tutto questo può parere semplice: ma per arrivare alla progressione esilarante della famosa scena del Vagone letto, ad esempio, ci vuole veramente dell’arte. E la parola non è troppo grossa.

Carlo Rizzo — inarrivabile “spalla” di Macario — è, in un certo senso, un figlio d’arte. Suo zio è stato celebre nel campo dell’operetta: Carlo Lombardo. Suo fratello e sua sorella sono ottimi elementi minori della rivista. Corpulento, cordiale, sicuro di sé, egli oppone alle aeree indecisioni, alle astratte timidezze, alle lunari scemenze di “Maca”, un massiccio buon senso, una solida bonomia, una robusta logica. Alla comicissima balbuzie più spirituale che materiale dell’altro, Rizzo va incontro con alluvionale facondia. È inevitabile che Macario finisca per brancolare in quel torrente di parole e si aggrappi a quella che gli passa più vicina, credendo di salvarsi; ed ecco la parola che gli sembrava cosi promettente e sicura, si sgretola nelle sue mani malferme e dalle briciole, da ogni briciola, sprizza una risata, brilla un concetto ameno, rimbalza un sorriso. E allora Rizzo lancia un’occhiata a “Maca”, tra sorpresa e divertita: sembra domandarsi che razza di individuo sia quell’ometto dalla faccia d’uovo pasquale, dalla bocca a spicchio di luna. Da quel momento lo tratta con la rassegnata pazienza che si usa per i bambini, si fa paterno, quasi materno. “Maca” se ne approfitta subito e — là — butta fragoroso, scattante, il più audace dei suoi frizzi, quello che farà veramente andare su tutte le furie il povero Rizzo. Arte, signori miei, arte anche questa, credeteci sulla parola.

Enzo Turco, forse, non era nato per fare la “spalla”. Le sue innegabili doti di comicità e di spontaneità potevano dargli diritto — come ai grandi di Spagna — di tenere il cappello in testa dinnanzi a Sua Maestà La Risata. Ma Turco è napoletano e perciò è filosofo oltre che artista. Egli deve essersi chiesto quanto formaggio gli sarebbe rimasto, visto che tanti “surice” di buona dentatura e di acuti unghioli erano vittoriosamente mossi all'attacco della forma di cacio capocomicale. E allora ha deciso di dedicarsi al lardo, lasciando parmigiano, provolone e pecorino ai sorci più grossi. Dopo tutto anche il lardo, quando lo si scelga ben stagionato e ben salato, è cibo sopraffino. Ecco dunque Turco “spalla” di Taranto. Napoletano l’uno, napoletano l’altro. Si capiscono a occhiate; meglio ancora, a sbatter di palpebra. Dal modo con cui Nino inizia una battuta, Enzo sa come dargli la ribattuta. Dal modo con cui Enzo pone un interrogativo, Nino sa come deve rispondergli. Sentirli recitare assieme è un piacere cordiale e sottile per chi sia appassionato di arte scenica; è un po’ del glorioso San Carlino che si affaccia nei loro dialoghi; è la tradizione classica che si perpetua, insaporita dal più originale modernismo. Il nasetto a patatina, il viso minuto, la fronte stretta di Turco si contrappongono amenissimamente al naso rapace, alla faccia faunesca, alla fronte mascagnana di Taranto. E Mentre Nino ama — col roteare degli occhi da rana, con le smorfie della bocca tumida — sottolineare l’umorismo di certe battute, Enzo affetta di scivolarvi su, con un gesto vago della mano curiosamente piccola e con un tipico moto del capo, uguale a quello delle foche quando acchiappano a volo il pesciolino premio della loro bravura. Chi è assiduo frequentatore della rivista, vada con la mente, per un attimo, al Turco degli sketches: Edipo turistico e II mago di Napoli. Se non è arte quella, saremmo curiosi di sapere che cosa s’intenda per arte.

Dino Falconi, Angelo Frattini


Per tutti gli anni Dieci del XX secolo il cinema non prevede sonoro, se non un accompagnamento musicale eseguito dal vivo da un pianista ma per nulla sincronizzato con le immagini. Gli attori si muovevano sullo schermo agitando le labbra, poi, bianca su uno sfondo nero, passava la didascalia del dialogo, abbellita da una cornice arabescata. Nel 1921, il siciliano Giovanni Rappazzo brevettò la «pellicola a impressione contemporanea di immagini e suoni». Idea formidabile da cui ebbe origine il film sonoro, ma come già era accaduto con Edison e il Phantoscope, in assenza di un finanziatore se ne impadronì la statunitense Fox.

Poi venne la Marcia su Roma.  Alla fine degli anni Venti, con l’avvento del sonoro, il fascismo intravide nel cinema un’arma potentissima per la propaganda del proprio verbo, cosi il regime dispose sgravi fiscali e incentivi per tutti i teatri che avessero adottato il cinematografo all’interno delle proprie strutture. Accadde perciò che i gestori delle sale si fecero attrarre dalla sirena del denaro e si adattarono al volere supremo. Erano previste tre proiezioni al giorno? Ciascuna era preceduta da una serie di numeri di varietà, allo scopo di attrarre spettatori. Era nato l'avanspettacolo, cioè la messinscena che precedeva la proiezione del film. L’esibizione durava poco ed era scenograficamente misera. Guitti, comici, ballerine, cantanti e prestidigitatori si trasformarono in «scavalcamontagne» e girarono per le città di provincia alla ricerca di una scrittura. Facevano il loro numero, poi d’improvviso si abbassava il telone bianco; i poveri artisti si rintanavano dietro lo schermo a rifocillarsi e riposare in attesa della fine del film e dunque dell’andata in scena successiva. Il film intanto era diventato filmo, a Mussolini non stavano bene i sostantivi di derivazione straniera, e s’era messo di buzzo buono a italianizzarli.

Anche i teatranti, come tutti, furono costretti ad adeguarsi all’autarchia linguistica: non più bordereau, dunque, ma «distinta d’incasso»; niente più ciak, ma «ciac»; non claque bensì «ciacche», l'entr’acte diventò «intervallo», il festival «musicone», la pochade «commedia libera», le paillettes «lustrini», il parterre «platea», lo sketch «scenetta», la soubrette «brillante», la tournée «giro». All’elenco ci piace aggiungere - anche se slegati dal mondo dello spettacolo - «casimiro» per cachemire, «fuggicasa» per pied-à-terre, «scopofilo» per voyeur e, in ultimo, lo strepitoso «principe» e basta per definire il tessuto principe di Galles, in questo caso era stato sufficiente cancellare l’ignominioso nome della terra del Galles. Gli artisti di varietà poco noti e con scarse possibilità economiche si adattarono quindi al nascente avanspettacolo. E gli altri ?

Gli altri, più ricchi e famosi, si misero in proprio. Si accollarono i costi di produzione di spettacoli che, per non essere schiacciati dall’onda d’urto del cinema, dovevano essere sfarzosi, magnificenti e incantatori più del pericoloso rivale. E idearono la rivista. Sempre di varietà si trattava, il meccanismo e gli artisti che lo componevano erano gli stessi, solo che adesso ci si appoggiava a scenografie fastose e agli spettacoli si davano un tema e un titolo; ciascun numero si rifaceva a quel tema e a quel titolo, ma non c’erano agganci tra un’esibizione e l’altra. Dato l’immane impegno organizzativo, si rese irrinunciabile la figura dell’impresario, cui faceva capo ogni incombenza e «rogna» di ordine amministrativo e produttivo, anche se in qualche caso si ritrovava a essere pure autore o coreografo delle riviste. Andò avanti cosi fino alla fine della Seconda guerra mondiale. Poi la rivista cedette piano piano il passo alla commedia musicale, mentre a partire dagli anni Sessanta l’avanspettacolo degenerò in mesti spogliarelli che precedevano la proiezione di film a luci rosse.

Valentina Pittavina


Galleria fotografica e stampa dell'epoca

Attraverso la stampa dell'epoca, una lettura che evidenzia l'ascesa e la caduta, col passare degli anni, di questa forma d'arte teatrale, considerata dai più "minore".

Storia del teatro "leggero" attraverso i suoi personaggi, dal cafè-chantant al varietà, dall'avanspettacolo alla rivista

II cosiddetto avanspettacolo, costituito dalle rappresentazioni di varietà che precedono o seguono le proiezioni cinematografiche, ha oggi assunto un'importanza singolare che merita la più grande attenzione di tutti gli organi che presiedono all'attività teatrale. Da principio esso era veramente un avanspettacolo offerto al pubblico dalle maggiori sale cinematografiche in aggiunta al film che restava il nucleo maggiore del programma; ma a poco a poco, rimpiazzando il caffè-concerto, la rivista e l’operetta decadute e quasi scomparse come genere a sè, esso ha finito nella maggior parte dei casi per dilugare, prendere il sopravvento e formare il pezzo forte del programma dei cinema di secondo e di terzo ordine nei quali il film è adesso ridotto ad essere un complemento dello spettacolo di varietà. Si sono, dunque, invertiti i termini: dai due o tre numeri di caffè concerto, dal breve bozzetto comico e parodistico, si è giunti ad un programma vasto e completo di rivista o di operetta che dura due ore buone e impiega un notevole numero di esecutori e di suonatori.

Molto ci sarebbe da dire su la qualità di questi spettacoli nei quali impera, purtroppo, la grossolanità, la volgarità, il cattivo gusto più marchiano e spesso addirittura insopportabile: ma sebbene ciò non ottenga altro scopo che quello lamentevole di corrompere e di traviare il già non troppo elevato gusto del pubblico grosso, non vogliamo — almeno questa volta — occuparci di sì delicato e scottante argomento. Ci preme innanzi tutto di dire, occupandoci per la prima volta della questione, che sarebbe necessario ed urgente un energico intervento delle autorità per tutelare il decoro degli artisti dell’avanspettacolo nei confronti delle condizioni in cui sono costretti a lavorare. Nei locali in cui essi recitano, cantano e ballano, manca non diciamo ogni comodità ma ogni garanzia di quel minimo di rispetto umano e di igiene cui ha diritto chiunque lavora. Non soltanto i camerini difettano, obbligando ad una indecorosa promiscuità, ma quei pochi che esistono — improvvisali spesso nei sottopalchi o nei magazzini — sono angusti, privi di aria, di luce, di acqua, torridi l'estate, gelidi d'inverno, maltenuti, umidi, privi di ogni elementare necessità.

In siffatti locali gli artisti son costretti a passare la maggior parte della giornata — dalle due del pomeriggio a mezzanotte almeno — poiché l'avanspettacolo, oltre le ore di prova, è tenuto a fare due o tre recite giornaliere. Nell'anno XIV, dopo che il Regime ha rivolto da anni le massime cure affinchè ogni ordine di lavoratori abbia assicurata non solo la dignità professionale, ma tutte quelle garanzie di igiene fisica e morale che assicurino la sanità degli individui e della collettività, ci sembra che un tale staio di cose sia addirittura intollerabile.

Opportune norme dovrebbero essere imposte a tutti i proprietari di cinema-varietà per esigere una decorosa sistemazione e organizzazione dei locali destinali agli artisti; e frequenti ispezioni di controllo potrebbero essere istituite per garantire l'osservanza di esse.

Non c'è una ragione al mondo perchè non si possa pretendere da questi impresari ciò che si pretende da quelli dei teatri veri e propri.

Ermanno Contini, «Il Dramma», dicembre 1935


Avete mai pensato, meno gli interessati, all'importanza materiale che ha nella vita dell’industria del teatro l'avanspettacolo, cioè quel «programmino» di varietà, operetta o prosa, che precede in alcune sale cinematografiche il film? Mai, certamente, che sarebbe difficile supporre come vi siano in Italia 3500 persone occupate in questa quasi oscura mansione, che insieme formano 196 Compagnie, e danno al Paese un utile di 40 milioni, mentre la Drammatica e la Lirica insieme ne danno da 30 a 35.

Strabiliante? Per il pubblico; ma non per la «Corporazione dello Spettacolo» che nella sua recente deliberazione ha ravvisato la necessità di migliorare il livello artistico e morale dell’avanspettacolo, adottando provvedimenti che, attuati, diverranno certo salutari. Ed è stata stabilita una accurata selezione delle Compagnie di arie varia, tanto per i complessi artistici quanto per la scelta di uno speciale repertorio, abolendo definitivamente il mediatorato ed affidando il compilo esclusivo, come per le Compagnie drammatiche, all’Unione Nazionale Arte Drammatica.

In quali condizioni morali si trova oggi l'avanspettacolo? Da inorridire, se come è facile constatare in questi piccoli programmi impera, quasi sempre (e diciamo «quasi» per rispetto di qualche eccezione) la volgarità, la grossolanità, il cattivo gusto più offensivo poiché il comico è fatto di doppi sensi osceni e battute di spirito gastro-enterico.

Far ridere a questo modo vuol dire corrompere e traviare il gusto del pubblico grosso, del quale purtroppo non si può elogiare la soverchia finezza. Ma come elevarsi se è ancora possibile ascoltare in una sala di spettacolo simili scurrilità, mentre in altri teatri, con altro pubblico, l’Ispettorato del teatro è giunto, e lo constatiamo tutti i giorni, a tale elevazione morale che il pubblico, abbandonate le farsacce del teatro francese dove gli attori comparivano in mutande e un letto in scena non mancava mai, accorre oggi in folla ai lavori di Pirandello, Rosso di San Secondo, Bontempelli, Chiarelli e cento altri nostri autori?

Domanderete: come ha potuto questa forma minima di teatro giungere a tanta importanza, in breve tempo e quasi alla chetichella?

Passando da due o tre numeri di varietà a vere operette, o fantasie o parodie che dureranno anche più di un’ora; col favore del pubblico che al solo prezzo del biglietto per il cinematografo ha diritto anche ad un altro programma; con il moltiplicarsi delle sale periferiche frequentate da un pubblico fisso, ma sempre più numeroso, dei rioni.

E sapete infine come vivono in teatro quelle 3500 persone cui si è fatto cenno? In camerini improvvisati, con una promiscuità vergognosa, in sottopalchi umidi e in magazzini-topaie, senza nè aria nè luce, senza acqua nè riscaldamento. Ci saranno le eccezioni, va bene; ma il novanta per cento delle sale di avanspettacoli offrono al personale «artistico» questo conforto. E il personale. trascorre in queste condizioni la propria giornata, poiché oltre la prova del mattino prende parte a due e tre rappresentazioni il giorno.

Abbiamo messo in luce tutto ciò, ma fra pochissimo tempo tali brutture non saranno che un triste ricordo. Il Regime ha rivolto le sue cure anche a questo settore dello spettacolo. Tra poco, siatene certi, l’avanspettacolo sarà all’altezza — sul palcoscenico e tra le quinte — della dignità che è stata data a tutti i lavoratori italiani: morale, di igiene, professionale.

Luigi Ridenti, «Il Dramma», marzo 1936


Su questa nostra rivista ci siamo occupati, nel passato Anno teatrale, delle pessime condizioni di igiene con cui sono tenuti dei palcoscenici adibiti a spettacoli di varietà che precedono la proiezione dei film; ci siamo dunque interessati di ciò che il pubblico non vede e non sa. Ma ora la «decenza» induce Ermanno Contini a denunciare uno stato di cose assai peggiore dei camerini sudici e delle stanze senza finestre.

Il problema dell'avanspettacolo è diventato ormai un problema nazionale: bisogna occuparsene seriamente. Questo modernissimo genere di rappresentazione popolare che unisce la prosa all'operetta e al varietà, conta qualche centinaio di Compagnie alcune delle quali vantano sei o sette anni di ininterrotta; annovera migliaia di artisti e rappresenta interessi per oltre cinquanta milioni di lire annue, vale a dire per una somma pari a quelle della prosa e della lirica unite insieme. Bastano queste indicazioni a far comprendere l’importanza raggiunta da tale settore non soltanto nella vita e nell'economia dell'industria teatrale, ma nella vita stessa del popolo per il quale esso rappresenta il teatro stesso.

Dinanzi ad un così eccezionale dilagare dell'avanspettacolo che per i quattro quinti degli italiani rappresenta la sola forma conosciuta e frequentata di teatro, s'impone il più stretto controllo e la più severa vigilanza. Non è ammissibile che cinematografo e teatro siano sottoposti ad un vigile e talvolta anche troppo rigoroso vaglio morale per impedire che possano provocare deleterie influenze sul pubblico, e che un genere diffuso almeno quanto il cinematografo e come il cinematografo rivolto alle masse più semplici e quindi più facilmente suggestionabili, sia lasciato per lo più all'arbitrio di esercenti e di capicomici che, pur di far ridere e di far quattrini, non si peritano di lusingare e secondare i bassi istinti della plebe a cui si rivolgono. Fatte le debite eccezioni, l’avanspettacolo è finito così, purtroppo, per essere la sentina delle più volgari scurrilità e delle più insopportabili offese alla decenza. Ci è capitato giorni or sono di assistere a uno spettacolo ammannito in uno di quei cinematografi popolari del centro che ospitano normalmente Compagnie di varietà; si rappresentava una... commedia e, negli intervalli, si ballava e si cantava. Era una cosa penosa e ripugnante. Tutte le più sconce e triviali risorse della pornografia e della scatologia inzeppavano di sè, disgustosamente, il dialogo scenico. C’era di che arrossire non tanto per quello che si era costretti ad ascoltare, ma soprattutto per il pietoso spettacolo di quei disgraziati che si prestavano in scena a dire tante rivoltanti sudicerie dimentichi della loro stessa dignità umana. E ciò che rendeva ancor più insopportabile quello spettacolo, era che il pubblico, fra cui abbondavano bambini, ragazzette, adolescenti, donne, si divertiva a più non posso a quell’immondo turpiloquio sottolineandone con risate e applausi i più vergognosi eccessi.

Dinanzi ad una così avvilente prova di dove può condurre il pericoloso esempio delle licenze a cui si abbandonano le maggiori Compagnie del genere, ci domandavamo se era davvero lecito tollerare più oltre simili spettacoli. E’ inutile usar tanti rigori sui film italiani e stranieri, inutile essere tanto severi su le commedie trasmesse per radio, inutile cercare il pelo nell'uovo nei testi rappresentati sui grandi teatri, se si deve poi lasciare una così illecita libertà all'avanspettacolo. Noi non siamo certo dei moralisti; ma amiamo la logica e la coerenza. Se gli abusi di cui siamo stati testimoni in quel cinema di terz’ordine di cui abbiam detto ci han dato allo stomaco, non ci darebbero affatto fastidio scene e battute che la censura sopprime in film e in commedie dovute all'opera di artisti e di persone di buon gusto. Ma poiché queste soppressioni sono giudicate utili ai fini della morale e dell'elevazione spirituale delle folle, non riusciamo a convincerci perchè non debbano essere considerate assai più utili, anzi assolutamente necessarie, le soppressioni di interi spettacoli costituenti un vero e proprio oltraggio al pudore.

Ermanno Contini, «Il Dramma», 1 dicembre 1937


Assistendo a certi programmi di «avanspettacolo» vien fatto di pensare (da chi non è addentro alle segrete cose della nostra vita spettacolare) che la Censura non prenda visione dei copioni che costituiscono la parte teatrale di quei programmi ibridi, mezzi rivista e mezzi varietà, che completano le proiezioni dei film e formano quello che comunemente è chiamato appunto «avanspettacolo». Ma noi sappiamo benissimo come accadono certe cose. I copioni vengono portati alla Censura, e ricevono, magari dopo richiami e discussioni, il relativo «visto». Poi, sulla scena, il comico va «a soggetto», cioè improvvisa, cioè aggiunge di suo, e ne salta fuori quella indegna pattumiera di sconcezze, di equivoci, di frasi a doppio senso, e addirittura di gesti osceni, alla quale la maggior parte del pubblico ha il cattivo gusto di dedicare applausi e risate.

Ma v’è anche una parte di pubblico che non applaude, non ride e non fiata. Non ha il coraggio di fiatare. Formano questa parte di spettatori la madre di famiglia che ha condotto i ragazzi a inebriarsi delle caracollate dei cavalieri della prateria; il papà che premia; il «dieci con lode» della figliata con il film di Loretta Young; le famiglie al completo, servetta compresa, lanciate in divertimento domenicale di cui si discorrerà a lungo tra le domestiche pareli. Tutta brava gente che poco sa del «teatro» vero e proprio, e per la quale il teatro comincia e finisce lì, nel programma misto di cinema e varietà, nel locale rionale dove si paga poco, si può entrare a tutte le ore, non occorrono etichette o ghingheri dal festa. Ed è proprio in vista di questa facilità che l'avanspettacolo dovrebbe essere sorvegliatissimo, e invece sorvegliato non è. Se lo fosse, come avrebbero potuto arrivare fino alle scene certe madornali sudicerie constatate in questi ultimi tempi sulle scene dei locali che ospitano l'avanspettacolo? Possibile che soltanto nei doppisensi degli invertiti il pubblico trovi il suo spasso? Possibile che soltanto nelle scurrilità dei volgarissimi «guitti» lo spettatore bennato abbia materia di sollazzo?

Siamo ben certi che il copione di una rivistine — miserevole sotto tutti gli aspetti — presentata attualmente su molte scene di avanspettacolo, non contiene il turpe e soggetto finale dei due viaggiatori nello stesso letto. Perchè lo si permette o lo si tollera? Perchè non intervengono gli uffici spettacoli delle varie Questure, presso i quali la compagnia ha pur dovuto consegnare un copione, ma che però non corrisponde alla realtà della rappresentazione?

Bisogna ripulire, e d'urgenza, questo settore dello spettacolo. Se la Censura (che a parte tutto, è severissima coi copioni delle commedie e con i film) non può essere a conoscenza dei «soggetti», aprano gli occhi i funzionari addetti al servizio spettacolo di ogni città, e colpiscano senza misericordia i comicacci da strapazzo. i «guitti» senza spirito, i disgraziati che offrono alla triste goduria di un pubblico altrettanto colpevole le loro tare morali e materiali.

Ma si operi a fondo, senza incertezze, senza pietà. Sempre tenendo ben presente che l'avanspettacolo, è — come s'è detto — davvero lo spettacolo delle famiglie e dei molti ragazzi che vi accorrono il pomeriggio appena terminate le lezioni. E' necessario tenere gli occhi bene aperti: non bastano i «visti»; ci vogliono le visite e le sorprese. Invece gli agenti fuori servizio sona i più entusiasti frequentatori, e se la godono moltissimo alle canaglierie dei comicacci guitti: ne abbiamo visti non pochi: ridono rumorosamente dandosi manate sulle spalle alle scene più sconce, alle battute più ardite, ai gesti più osceni. Chi glielo proibisce? Essi «non sono in servizio» e si divertono. Per salire sul palcoscenico e comportarsi come in simili casi deve agire, un agente deve essere comandato. Solo allora non ride più. Comandatelo, per piacere.

Enrico Bassano, «Il Dramma», 1 marzo 1951


In qualche cinema di periferia, dopo che lo schermo è stato riempito dall’ultimo provocante sorriso di Silvana Pampanini, e prima dell’immancabile documentario sulla laguna, rimane sempre uno spazio vuoto di circa trenta minuti. Accese le luci in sala, un signore infreddolito si mette allora al pianoforte; dietro un vetusto sipario ai odono frenetiche martellate, e qualche buongustaio abbandona il propino posto per trasferirsi in prima fila. È l’ora triste e crepuscolare dell’avanspettacolo. Per mezz’ora saettano sul palcoscenico, in un’atmosfera di allegria frettolosa e provvisoria, comici dall’impossibile giacchetta gialla, virtuosi di fisarmonica, grasse cantanti nel cui stomaco abbaia la fame, e sullo sfondo di un Vesuvio in cartapesta si agitano scampoli di gambe, tagli di povere epidermidi tralasciate dal lussuoso setaccio di Remigio Paone. È l’oscura scuola dell’avanspettacolo, duro tirocinio del teatro minore, che raduna seralmente - a sipario calato - capocomico e soubrettes davanti ad un’unica tazza di caffelatte.

Le cronache dei giornali, premurose nei resoconti dei comici da 3000 lire a poltrona, non si ricordano mai del noto fantasista Trottolino o dei suoi compagni d’arte dai nomi altrettanto immaginosi. Pure l’avanspettacolo, oggi schiacciato dalla concorrenza di riviste di grido, è veramente il vivaio, il durissimo banco di prova dei comici, degli artisti di domani.

Per offrire a questi ignorati attori la possibilità di parlare ad un pubblico più vasto di quello del loro cinema di periferia, la Radio Italiana ha inaugurato uno nuovo trasmissione, intitolata appunto «Avanspettacolo», rassegna d'arte varia che andrà in ondo sabato 29 novembre alle 20,30 sul Secondo Programma.

Clarino, «Epoca», 1952


L’avanspettacolo — erede del teatro di varietà vecchia maniera — conta a Mantova un nutrito numero di appassionati. Anche perchè è l’unico genere di spettacolo teatrale che appare settimanalmente, con puntuale continuità durante tutta una «stagione» di circa otto mesi. L'«avanspettacolo», piace per la sua caratteristica che favorisce attraverso una formula semplice, talvolta variata e non troppo impegnativa il breve esilio di un pubblico non troppo esigente dal monotono tran tran della vita quotidiana. L’avanspettacolo elabora i suoi temi con sbrigativa disinvoltura ed e-sciude quindi qualsiasi sforzo cerebrale o di sensibilità da parte dello spettatore. Non sarà sempre «humour» fresco, scoppiettante, non saranno sempre girls prosperose ed ancheggianti a dar vita a questi sketches ma il pubblico degli «aficionados» applaude e perdona con indulgenza (quando ce n’è bisogno) le lacune ed i punti negativi. Del resto, coloro che pretendono d: trovare negli spettacoli di varietà i «quadri a soggetto» di Gisa Geert o di Dino Solari, ballerine scelte nei ranghi delle danzatrici di scuola o attori con primizie comiche di portata nazionale, non amano l’avanspettacolo.

Quasi sempre ci si trova di fronte ad improvvisatrici della danza, a quadri senza molto valore coreografico, a comici senza copioni e senza comprimari. Il cinema, la radio e la rivista hanno sottratto all’avanspettacolo i migliori «assi della risata» e le «super-vamp» della passerella, lasciando vuoti incolmabili nelle compagnie -che pure hanno validamente contribuito a lanciare tanti «assi».

Un avanspettacolo prima di andare in scena prova solamente una o due volte al massimo: i giorni di prova non sono pagati e prima di tutte bisogna risolvere il problema dello sbarco del lunario. Gli spettacoli nascono cosi necessariamente raffazzonati e scuciti. Quasi sempre il capocomico ha le funzioni di amministratore, sceneggiatore, regista ed interprete ; le ballerine vengono reclutate, di solito, secondo considerazioni che con quelle di natura squisitamente artistica non hanno parentele di sorta. Le crisi economiche sono frequenti e sensibili in quasi tutti i complessi.

La critica è sempre molto facile di fronte allo squallore di avanspettacoli di minore pretesa, ma tuttavia essa ncn dovrebbe mai prescindere da una umana valutazione dei sacrifici, degli stenti, dei giorni di fame che può costare anche quella povera umile cosa.

Perciò la critica in genere, solo che possa, cerca sempre di stendere una mano al «varietà». Anche perciò, forse, tanto pubblico gli resta fedele, anche per questi stenti, per questa miseria, per questa vita difficile dell’avanspettacolo, superstite insegna romantica del «teatro minore» che accompagna il trionfante cinematografo con l’umiltà del parente povero, ma spesso anche col cipiglio di chi pur nella decadenza non ha affettò perduto la sua dignità.

Rino Bulbarelli, «La Gazzetta di Mantova», 25 dicembre 1953


«Epoca», 1955 - Domande e risposte sull'avanspettacolo


AGOSTO 1961: INCHIESTA DELLA «GAZZETTA DI MANTOVA» SULL'AVANSPETTACOLO

Difendono con i dentl, questi artisti minori, l'ultima scheggia di palcoscenico, che per loro non solo l'arte ma anche l'unico lavoro possibile

I PARTE

ROMA, agosto

Del vecchio ottocentesco «varietà» (anzi settecentesco) oggi c'è rimasto solo l'avanspettacolo. Un'ombra, una parvenza: la vera cenerentola delle nostrane platee. II fatto si è che oggi il varietà non ha più presa sul pubblico. Ci sono stati esempi qui a Roma. Proprio per le Olimpiadi un impresario temerario volle rispolverare nel vecchio «Salone Margherita» quel varietà: è durato a fatica per tre o quattro mesi, poi ha chiuso. Volete un altro esempio? C'è un delizioso teatrino nella vecchia Roma, che si chiama «Arlecchino», di proprietà di Aldo Fabrizi. Fa o faceva spettacoli di varietà e di «spogliarello», Ma — a ragione o a torto, non vogliamo discutere — non fa altro che incappare nelle reti della censura,

L' operetta? Anche lei una larva d'antico pelo. Tutte le volte che sui teatri o in televisione ci hanno riprovato, avete visto il bell'effetto che ne è sortito. Eppure è uno spettacolo in certo senso vicino al varietà. Ma — ci si dirà — c’è la grande rivista, quella che costa milioni e che è frequentata dai grossi nomi. Ebbene, anche questa non naviga in troppo limpide acque e poi — per sopravvivere — ha dovuto rinunciare alla formula, del varietà, per diventare trama dal principio alla fine, commedia anche se musicata.

Dunque, siamo lì: avanspettacolo e solo avanspettacolo, che ci ricorda o ci ripropone la vecchia pietanza del «varieté», del «cafè chantant». Ma i titoli di merito non si fermano qui: ancora oggi, nonostante, tutto l'avanspettacolo rimane un importante vivaio di attori, fantasisti e cantanti che poi salgono i gradini della rivista, del cinema, della televisione. Lo sanno tutti, ma qui non possiamo non rammentare che Totò, Macario, Fabrizi, Rascel, Wanda Osiris, Dapporto, Croccolo, Riccardo Billi, Tognazzi, Sordi, Nino Taranto, Mario Riva, Nuto Navarrini, Renato Maddalena ecc. ecc., sono tutti venuti fuori dalle impalcature sconnesse degli avanspettacoli. Sono diventati poi nomi grossi, grossissimi, ma l'arte, il segreto della comunicativa e del contatto con lo spettatore lo hanno acquistato lì e non lo hanno più dimenticato e cambiato.

Del resto, parecchi ruoli di contorno spesso sono affidati dai registi agli uomini dell’avanspettacolo. Anche qui i nomi sono parecchi: Alberto Sorrentino, con la sua immutabile faccia da «morto di fame»; il pugliese Guglielmo Inglese che gioca su «Beri» al posto di «Bari», «mere» al posto di «mare», ecc. ecc.; Nino Milano, Fanfulla che ha abbandonato gli abiti sgargianti ed arlecchineschi di una volta, la genealogia dei Maggio da Dante a Beniamino a Rosalia, ecc. ecc. In questi giorni, due puri figli dell'avanspettacolo, i siciliani Franco Franchi e Francesco Ingrassia, stanno girando da protagonisti «L'onorata società», un film prodotto da Modugno, con Vittorio De Sica ed altri grossi calibri di contorno!

UNA SITUAZIONE PRECARIA — Nonostante tutte queste belle cose, però, la situazione dell’avanspettacolo è pesante. Intanto - e ce ne siamo accorti noi nel condurre l'inchiesta — si trutta di una categoria di persone un po’ fluttuante, evanescente, difficilmente catalogabile. La colpa — ad essere sinceri — è anche un poco loro, degli artisti. Si sa, gli artisti sono dei begli individualisti; ma non credevamo proprio che tra i più, piccoli ci fosse tanto individualismo.

Queste impressioni, le abbiamo ricavate, per esempio, parlando con l'avv. Giovanni Giacalone, Direttore dell’ Ufficio Speciale di Collocamento dei Lavoratori dello Spettacolo, creato nel 1952 alle dipendenze del Ministero del Lavoro. Oppure, discorrendo degli stessi argomenti con rappresentanti sindacali, con capocomici — che, come è noto, sono organizzati in una unione Capicomici italiani — con primi attori, ballerini, ballerine, comici, fantasisti, con tutta la gamma delle varie incombenze degli uomini del palcoscenico, di qualsiasi palcoscenico: incombenze gelosissime, che guai a non farci caso ed a confonderle troppo alla leggera! Dunque, l’opinione che ci si può fare di questo avanspettacolo è un po’ affidata al confronto delle varie informazioni attinte di qua e di là, dai capocomici come dagli stessi protagonisti .dello spettacolo. La sensazione prima — ripetiamo — è quella di un campo d'attività molto fluttuante, saltuario. necessariamente precario. E' difficile raccogliere cifre sicure al cento per cento.

PUBBLICO ED ARTISTI — Comunque, annualmente agiscono in tutta Italia una cinquantina di compagnie. La media degli elementi che le compongono è sui quindici. Perciò, un 750 persone in tutto. Alle quali vanno: aggiunti i familiari, gli orchestrali che qualche volta appartengono al locale e spesso fanno parte della compagnia di giro. Arriviamo cosi ad un migliaio e più di persone.

Dove agiscono questi artisti? Hanno a disposizione pochi locali: a Roma saranno un cinque o sei sale, a Genova quattro, a Milano, Torino, Napoli, Firenze appena due, a Bologna una soltanto. Nel complesso, una ventina di sale nelle grandi città; a queste vanno aggiunti un centinaio di locali nelle cittadine di provincia, che sono quelle che presentano le maggiori richiesta.

Ed ora gli spettatori. Anche qui il calcolo non è troppo difficile: giornalmente ogni compagnia ha un pubblico da 2000 a 4000 unità. Nel totale, perciò gli spettatori dell'avanspettacolo si aggirano tra i 100 ed i 200 mila quotidianamente in tutta Italia. Senza dubbio una cifra notevole.

LE CAUSE DELLA CRISI — Chiudiamo questa prima parte della nostra inchiesta cercando di rintracciare le cause fondamentali della crisi dell'avanspettacolo, anche se è bene riconoscere che ora sì sta un poco risollevando (la ripresa é cominciata intorno al 1957), dopo la paurosa scivolata degli anni della guerra e del dopoguerra:

1) la trasformazione dei gusti. Abbiamo visto corno sia specialmente la provincia ad alimentare le platee dell’avanspettacoio. Però, oramai anche nella provincia arriva, la TV, arrivano grosse compagnie teatrali e di rivista che affinano il gusto e lo rendono più esigente. L’avanspettacolo rischia di fare la stessa fine dei piccoli circhi e delle raffazzonate compagnie di guitti;

2) la concorrenza del «night-clubs». Specialmente i fantasisti, i balletti e i giocolieri proferiscono le piu lucrose possibilità offerte dal locale notturno, disertando la scena minore dell'avanspettacolo ;

3) la mancanza di coordinamento nella gestione delle compagnie. I rappresentanti dell'avanspettacolo sono troppi e si dividono le poche sale disponibili con la conseguenza che la compagnia che lavora nel locale x si vede precluso l'accesso nel locale y, rappresentato da un'altra persona;

4) la mancanza di ogni qualsiasi sovvenzione governativa. Una sovvenzione diretta è rappresentata dalla minore tassa erariale che pagano rispetto alle sole sale cinematografiche quelle che hanno film ed avanspettacolo;

5) la diserzione degli autori e dei critici. Gli autori dell’avanspettacolo sono gente improvvisata, che si contenta di poco e che ricalca i più abusati «clichès» della comicità e delle trame. La stampa non degna neppure di uno sguardo gli avanspettacoli limitandosi a citare la loro presenza nelle tabelle riservate alle programmazioni.

E' facile immaginare come in queste condizioni la barchetta già cosi fragile dell’avanspettaccio stia sempre lì lì per fare acqua o andare a sbattere paurosamente contro gli scogli della povertà dei mezzi finanziari e della più organizzata concorrenza


II PARTE

ROMA, agosto

Dietro le quinte dell'avanspettacolo gli estranei non passano. La consegna è severa: il direttole di scena e i macchinisti ci tengono a farla rispettare. Non riusciamo a capire il perchè di questo ostracismo. Ma il comico, un ometto basso poco; più che quarantenne, dai capelli scuri piegati da una parte, napoletano, ce lo spiega: «Prima voi e i fotoreporters venivate qui dentro, raccoglievate tutte le notizie che volevate e tutte le fotografie che vi piacevano. Risultato: l'avanspettacolo ci faceva sempre una figura pietosa. Ci fu una volta un fotoreporter qui a Roma che si prese il 'gusto' di fotografare alcune ragazze del balletto che nell'intervallo addentavano pane e formaggio. Ora, anche Wanda Osiris o Delia Scala mangeranno pure pane e formaggio. Ma nessuno le ha mai immortalate in questa funzione!»:

Ci sentiamo un po' colpevoli per i nostri colleghi, ma cerchiamo di insistere, per poter vedere una mezza giornata quello che succede dietro le quinte di una compagnia di avanspettacolo. E alla fine la nostra insistenza viene cordialmente premiata...

E non crediate crediate che sia stata cosa da poco: abbiamo notato che questi artisti sono ombrosi, gelosi, non tnto facilmente abbordabili. Ci siamo chiesti se questo comportamento è dovuto ad un senso di innata modestia o piuttosto al desiderio dì non esporre i panni sporchi. Certo si è che non fanno una vita troppo allegra. Ridono e cantano davanti al sipario, ma — appena dietro — le loro facce si distendono immediatamente in una maschera piatta, dura, resa quasi insensibile dall'innaturale colore del cerone, Fabrizi — che l'avanspettacolo l'ha fatto — dopo filmò la vita di questi girovaghi della scena minore e la chiamò «Vita da cani». Però, bisogna dire pure per onor di cronaca che oggi le cose stanno molto, ma molto meno peggio di alcuni anni fa. A Roma esiste il numero maggiore dì sale cinematografiche che ospitano l'avanspettacolo: saranno sei o sette, contro appena due di Milano. Perciò, le compagnie che agiscono in città sono sempre un bel po' ed è facile tastare il polso della situazione girando per questi teatri.

Dietro il sipario, le luci sono smorte, i camerini disadorni, le porte scarabocchiate con nomi e numeri, le scalette, spesso e volentieri a chiocciola, anguste, difficili
da salire e problematiche da discendere. Solo loro che ci sono abituati, vanno su e giù con fretta disinvolta. Dal solo salir queste scale ti accorgi se quello è un artista o un estraneo.

QUANTO GUADAGNANO? -Valdemaro, un comico fiorentino, piccolo e un po' curvo, ha appena finito il suo «fuori programma». E' un buon imitatore di comici che vanno per la maggiore e racconta freddure e barzellette solitamente pulite. «I giovani ci sarebbero, giovani disposti a fare il nostro mestiere — dice agitando le spalle quasi per dar forza al discorso. Però, cosa vuole, se possono scelgono qualche cosa di meglio, che li faccia guadagnare un po' di più». «Quanto guadagnate?», ne approfittiamo per chiedergli.

«Le paghe, naturalmente, variano con il variare della compagnia e del programma artistico. Però, il capocomico va dalle 6 alle 12.000 lire al giorno. Un cantante dalle 5 alle 7. Un attore dalle 4 alle 15. Un fantasista dalle 4 alle 6. Ci sono delle compagnie che durano anche per sei mesi. Tutto sommato, si riesce a campare, anche se le spese sono tante e il nostro peregrinare è un po’ duro!» Nel frattempo, anche il balIetto aveva finito il suo numero; ci è sembrato di capire che era una scena di indiani e di indiane che si davano la caccia disperatamente per pochi metri di palcoscenico. Alla fine, infatti, li vedo con le facce cianotiche e la lingua di fuori che sbuffano e si rassettano penne e bande.

IL PROBLEMA DEI BALLETTI — Le ballerine, tanto quelle dell'avanspettacolo come quello della rivista, sono scarse. Un po’ c'è il pregiudizio del mestiere, che viene considerato poco decoroso, poi c'è il desiderio di andare all'estero a lavorare nei locali notturni. «Vede —mi dice una di loro — all’estero ci sono, molte scuole, dove il ballo viene insegnato seriamente, proprio ai fini della attività professionale; Ecco perchè i nostri capocomici sono costretti il più delle volte à ricorrere ai balletti stranieri. Non parliamo delle Blu Bells Girls, che sono tutto ragazze di ottima famiglia. Ma anche quelle dell'avanspettacolo, quelle stesse della televisione, sono per una buona percentuale straniere. La gente crede - aggiunge con una punta di amara rassegnazione - che quei nomi stranieri siano nomi d'arte: nella maggior parte dei casi, invece, sono nomi autentici». «E le vostre paghe?». «In provincia una ballerina guadagna 3.000 lire. A Roma 1.500. Quando poi la compagnia si ferma in un teatro per un'intera settimana, si arriva anche alle 2.500. Le soubrettes percepiscono giornalmente dalle 6 alle 8 mila lire».

LE MISURE DEL CASO — Nel primo articolo della nostra inchiesta, abbiamo parlato delle cause più importanti della crisi dell'avanspettacolo. Ora l'avv. Ezio Guidi, uno dei capocomici di avanspettacolo più attivi, ci indica alcune delle misure di più pronto impiego. L'avv. Guidi pensa che prima di tutto è necessario operare una oculata selezione dei capocomici, ossia degli intestatari del nulla osta di agibilità. Poi, una ulteriore detassazione, perchè le minori tasse erariali degli avanspettacoli rispetto alle sale esclusivamente cinematografiche non bastano a sollevane dalle pesanti spese. Per questa via, sarebbe possibile richiamare, pagandoli bene, gli autori, dando una più robusta ispina dorsale ai vari copioni. Infine fare di tutto per allineare l’avanspettacolo a qualsiasi altro genere di spettacolo esaminato e codificato dalle leggi.

Per concludere questa nostra sommaria rassegna dell'avanspettacolo e dei suoi problemi, desideriamo esprimere alcune personali valutazioni, che sono venute fuori proprio da questa indagine. Prima di tutto che gli artisti minori, quelli ossia meno bravi, hanno pur diritto di recitare. Inizialmente, infatti, ciò che spinge questa gente sul palcoscenico, non è tanto il sogno del grosso guadagno, perchè sanno subito quel che prendono, ma il bisogno innato di esprimere in qualche modo il proprio temperamento artistico. Poi, e questo ci sembra molto importante, non c'è tra costoro ombra di divismo: piuttosto, ripetiamo, un po' di circospezione che può essere legittima o no. Ma quella brutta bestia nera che finisce quasi per ergere un abisso tra il «divo» e il «volgo», (e noi nel nostro mestiere ne sappiamo qualche cosa con le telefonate che si sprecano, perchè il «dottore» sarebbe a dire il regista, la mattina è a Parigi e la sera inspiegabilmente si trova a Londra, ecc. ccc.) qui non esiste, non ce ne è proprio traccia.

I comici col cerone appiattito dopo il loro «numero», le ballerinette con la lingua di fuori per il troppo sgambettare in iscena e tutti gli altri ce l'hanno detto, di parlare bene di loro, porche ce ne hanno proprio bisogno. Confessiamo di essere rimasti un po' commossi di fronte a questi ceroni pallidi e surreali: e qui vegliamo fare questa piccola opera buona!

Massimo Guidi, «La Gazzetta di Mantova», 10 e 17 agosto 1961 


«La Stampa», 6 luglio 1982


Senza il teatro non avremmo mai avuto il Totò più conosciuto Ha attraversato generi partendo dal varietà ed era davvero moderno.

Totò non sarebbe Totò senza il teatro, senza la flessibilità di interpretazione che il rapporto col pubblico sa dare. Il teatro di Totò è un teatro moderno, liberato dalla soggezione ottocentesca al testo, che invece deforma, piega alle proprie intenzioni, contamina. L'avanguardia degli anni Sessanta lo aveva riconosciuto. Leo De Berardinis gli ha sempre reso omaggio, fino a portare in scena Totò, principe di Danimarca. Totò era per lui il maestro - Charlie Parker partenopeo - delle sue improvvisazioni jazz.

Totò ha attraversato i generi teatrali, partendo dalle forme più elementari, l'avanspettacolo, il varietà, la rivista... Raffaele Viviani ha fissato il canone di questo percorso di formazione in due testi, la Bohème dei comici ed Eden teatro, la dimora ai tavoli della galleria in attesa di scrittura, poi la guerra teatr ale senza esclusione di claque dei protagonisti dei numeri che compongono una serata. Enumerare le riviste di Totò non ci restituisce forse il loro significato. Se fossi un Don Giovanni (1938); L'ultimo Tarzan (1938); Belle o brutte mi piacciono tutte (1942)... Questo si rivela, almeno parzialmente, quando si sappia che il celebre sketch dei manichini, quello in cui Totò si finge manichino per sfuggire a un marito geloso, è stato recitato la prima volta in Se fossi Don Giovanni; che l'esilarante sketch del dentista (Totò, per un errore dell'agenzia, si presenta come aspirante marito in casa di una donna che invece cerca cameriere, e che è sposata con un dentista gelosissimo) proviene da Belle o brutte... E soprattutto che C'era una volta il mondo (Michele Gallieri, 1946) è l'origine della celebre scena del wagon lits. L'avventura di Totò con l'onorevole Cosimo Trombetta (Renato Castellani) e la «signora in fuga» (Isa Barzizza) è infatti diventata simbolica di una perplessità verso i privilegi della politica che non è finita con gli anni Cinquanta («Chi siete voi?» «L'onorevole» «Ma chi?» «Io!» «Ma mi faccia il piacere!!!»)...

Totò attore di cinema è la prosecuzione dell'attore di teatro con altri mezzi; soprattutto l'attore di avanspettacolo, del teatro che piaceva a Marinetti (che amava Napoli mentre avrebbe ucciso il «chiaro di luna» veneziano) e ai futuristi. Totò, ovviamente, non era così radicale; al contrario, apprezzava le altre forme di teatro - come Petrolini, ima cui commedia è all'origine di 47 molto che parla - o come Scarpetta (la trilogia cinematografica di Mattoli: Miseria e nobiltà; Il medico dei pazzi; Il turco napoletano). Ma la sua anima - lo ha capito il Pasolini dell'episodio Dove sono le nuvole - è nella forma più semplice di teatro, il teatro delle marionette, dove l'assenza di psicologia, il movimento agile ma a scatti, la docilità meccanica dell'esecutore, risalgono fino a Kleist e Hoffmann, cioè alle origini del teatro moderno.

Renato Nicolini, «L'Unità», 11 aprile 2007



Il teatro minore

È apprendistato, scuola, formazione. Fregoli come Viviani, Maldacea come Pasquariello, la Fougez come la Cavalieri, Petrolini come Totò, i De Filippo come la Magnani, Macario come Dapporto si formano alle necessità del rapporto col pubblico. Il teatro di prosa chiede rigidità preordinata (dal capocomico, poi dal regista), regole strette, tempi stabiliti. Il café-chantant, le periodiche, il variété, la sceneggiata, l'avanspettacolo, la rivista, chiedono il fiuto della situazione e degli umori del pubblico, l’intelligenza della spalla, il gusto dell’improvvisazione. Qui tutto è un insieme di piano e di sregolatezza, di ordine e disordine da rimettere sempre in discussione. La prova del pubblico è tutto. Piacere è un dovere. Se il pubblico si agita, rumoreggia, non ride, non applaude o, peggio ancora, fischia, se il numero non funziona, se la canzone o il balletto non piacciono, bisogna correre ai ripari. L’esame è spietato, le bocciature difficilmente rimediabili. E non è che i “tempi” siano più laschi e molli che nella prosa, al contrario. Solo, vanno inventati dentro lo spettacolo, ricostruiti volta per volta, elaborati e fissati alla prova del loro successo. Il testo conta relativamente: può e deve essere modificato dall’intervento dell’attore e, in definitiva, del pubblico.

Il pubblico non sa quello che vuole, ma lo scopre assistendo, e allora sa come imporre il suo piacere, come rifiutare ciò che lo annoia e infastidisce. Si ripete a ogni numero, a ogni sketch, a ogni macchietta la regola d’oro della commedia dell’arte: si recita insomma a soggetto, cogliendo l’occasione imprevista, insistendo sull’effetto riuscito, scartando quello fallito e ogni superflua lungaggine. A questa scuola sono nati i grandi attori che riconosciamo a tutt’oggi grandi. Le due sole dimensioni praticabili e sensate, necessarie, nel teatro del nostro secolo (almeno fino all’avvento di quelle avanguardie motivate dall’essere espressione di nuovi soggetti sociali), il comico e l’epico nelle loro molte forme e varianti, entrambe trovano nel teatro minore il loro nucleo originario o la loro ispirazione, e se per il comico non serve dimostrarlo, basti, per l’epico, pensare al ricorso agli insegnamenti del teatro minore che autori cosi diversi come un Brecht o un Majakovskij (ma anche tra i russi Mejerchol’d, Ejzenstejn, Kulesov, gli “eccentrici”) e in generale le avanguardie storiche (qui documentate con l’esempio futurista) hanno fatto propri, nel loro sforzo di distruzione delle forme del teatro borghese.

Café-chantant, varietà, music-hall, vaudeville, nella loro versione più povera come in quella più ricca, lasciano il posto alla rivista già avanti che la prima guerra mondiale sconvolga l’assetto politico del mondo, la preesistente logica delle classi ereditata dall’Ottocento, e sconvolga, col costume, i criteri del gusto. Ci hanno lasciato in regalo, per l’epoca successiva, il grande cinema comico americano (Chaplin e Keaton, i Marx e Fields, Harry Langdon e Mae West), cosi come Viviani e Petrolini, Totò e Eduardo, assieme ai divi e alle soubrettes, agli chansonniers e alle primedonne, di più prevedibili e transitori successo e ricordo. Un brulicare di situazioni e di pubblici, di tecniche e di modi.

La rivista ne tenta una formalizzazione unitaria, una strutturazione ordinata. Tenta, in sostanza, la definizione di un pubblico e di un mercato più omogenei e controllabili. Tenta e fallisce, poiché ben presto si ritroverà divisa in alto e basso, ancora secondo le definizioni di classe, per quanto generiche, che abbiamo indicato. Alle iniziative locali — legate a impresari locali, gestori di spazi teatrali determinati — succederanno compagnie, impresari, capocomici, divi che cercheranno di costituire catene nazionali di spettacolo, rendendo regolari le loro prestazioni e il loro successo. Lo scambio si intensifica, ma si amalgama perdendo in parte di vivacità e di vigore. Della rivista, infatti, cercano di impadronirsi i teatranti maggiori, legandola al loro carro, come variante più “facile” di un teatro di prosa ripetitivo e, tutto sommato, esangue. Anche gli intellettuali cominciano a occuparsene. Si risospingono ai margini le attrazioni, che tornano spesso al circo, loro origine, e che resteranno come riempitivi privi di reale autonomia.

Il tentativo di nobilitare il varietà facendone rivista riesce, ma paga degli scotti: la maggiore prevedibilità, alla lunga, degli spettacoli, ordinati secondo schemi adeguati al pubblico “per bene” che si cerca di convogliare nei teatri; una satira che, quando c’è, è ormai tutta interna alla logica di una simbiosi tra pubblico e autori, prodotti dallo stesso humus culturale e sociale, diventata da provocazione consolazione.


L'avanspettacolo e l'attore creativo

Da spettatore ricordo che col pubblico c’era un rapporto diretto e molto suggestivo; questo era rappresentato dalla prima donna, generalmente cantante-soubrette, accompagnata da ballerine, che nelle compagnie più di lusso arrivavano al numero di otto. Ma il vero protagonista era il comico. Gli sketch che giravano per l’avanspettacolo erano sempre quelli e l’abilità del comico consisteva nel renderli mordenti e aggressivi sul pubblico e riuscire con la propria personalità a ottenere il maggiore successo. Posso dire di aver visto i più grossi comici, poi diventati degli idoli, ad esempio Macario, lo ricordo le prime volte al cinema teatro Modena, con un attore che gli faceva da spalla, una soubrette e sei ballerine. La maggior parte di queste scene era affidata all’improvvisazione: c’erano dei comici che riuscivano a far passare delle battute che se fossero state scritte in copione, con la censura che c’era allora sarebbero state immediatamente censurate. C’era una certa vivacità di rapporto e di continuità tra il pubblico e il palcoscenico. Questa forma di spettacolo, dai cinema più periferici e più popolari, cominciò ad affermarsi in cinematografi che avevano già una certa pretesa — sia per il costo del biglietto, sia per la presentazione dei programmi. Ricordo che uno dei primi fu proprio l’Esperia, che presentò alla inaugurazione dei grandissimi spettacoli: ad esempio la compagnia di Ilda Springer, Macario, la Bluette-Navarrini.

Vediamo come questo genere di spettacolo va verso quella che sarà la sua consacrazione, la sua esplosione, che cominciò attorno agli anni trentasei-trentasette e uno di quelli che io più ricordo è stato lo spettacolo Piroscafo giallo di Macario con Ilda Springer e Lina Gennari al Lirico di Milano. Il Lirico e l’Excelsior, proprio sull’onda della domanda che c’era nei confronti di questo genere di teatro, cominciarono a funzionare come avanspettacolo con due spettacoli teatrali al giorno. C'era il Trianon che nel dopoguerra divenne il Mediolanum, che oggi non c’è più, dove si vedevano le grandi compagnie di riviste. Dal grande numero di compagnie che c’erano, emergevano quelle che poi sono diventate dei “fatti nazionali” come Macario, Totò... Tra l’avanspettacolo del primo periodo e quello successivo c’era un cambiamento non qualitativo, era un mutamento di forma, cioè un arricchimento delle possibilità dello spettacolo, più sfarzo o più pretese nella scenografia, nei costumi, maggior numero di ballerine, soubrettine... erano famose le donnine che lavoravano con Macario.

Però lo spettacolo conservava la sua forma, era sempre incentrato da una parte sul lato spettacolare, coreografico, ispirato alle grandi produzioni straniere, agli Schwarz per esempio, dai quali, credo, comprassero anche dei quadri e dei materiali.

Però il contenuto vero, la qualità vera dello spettacolo era sempre legata al comico, che riusciva a riscuotere, a concentrare su di sé tutta la forza attrattiva dello spettacolo, nei suoi vari numeri e negli sketch. Totò aveva delle scene che magari portavano via un intero secondo tempo, c’erano delle farse vere e proprie. Si apriva come un quadro, come un gran quadro centrale per tutto il secondo tempo e al quale man mano che si dilatava l’operazione comica veniva compressa l’esigenza spettacolare nel nome di questi grandi mattatori. La compagnia di avanspettacolo, nell’epoca dura, era generalmente formata da un comico, una soubrette, un cantante, un attore di spalla, che recitava le scenette col comico o con la soubrette, “un’attrazione” che poteva essere una coppia di ballerini e, in numero variabile, da quattro a otto ballerine. Questo era l’impianto canonico dell’avanspettacolo mentre le compagnie di riviste man mano aumentavano, diventavano degli eserciti.

Su come si formavano le compagnie posso raccontare un’esperienza diretta. Nel dopoguerra, davanti al teatro Mediolanum c’era un bar che si chiamava AG; li, da mezzogiorno fino alle due, c’erano tutti: c’era una specie di mercato. Le compagnie, non erano ancora formate, e si andava li a cercare lavoro. Poteva capitare sulla base di un rapporto diretto di trovare un comico che ti proponeva di andare tre giorni con lui a fare spettacoli in un tal paese, però tu dovevi conoscere gli sketch che faceva. Si trattava sempre di spettacoli improvvisati, nei quali venivano inserite scenette a soggetto, tipo Soldati, uno sketch sui dialetti, o La cleptomane oppure II tribunale. Il comico ti dava delle indicazioni segnalandoti i suoi lazzi preferiti, quelli sui quali giocava di più e tu come spalla, come attore di fianco, ti dovevi adattare.

Non c’erano prove, ci si trovava qualche ora prima al teatro e ci si accordava definitivamente. Il balletto era formato da delle ragazze raccogliticce che più o meno entravano e uscivano dal palcoscenico cambiandosi di costume. Questa era una forma oramai abbrutita mentre le grandi compagnie avevano una scelta di attori e si formavano come tutte le altre compagnie di giro. Comunque, anche quando certe compagnie hanno sfondato, l’avanspettacolo continuava nei cine-teatri e ci sono stati sempre dei ricambi, cioè degli attori che dall’avanspettacolo prendevano l'avvio e poi hanno conquistato i grandi teatri, vedi Dapporto, Walter Chiari, Tognazzi.

Nel '41 sono partito per militare e sono tornato nel ’45. In questo periodo sono stato fuori e non so quello che è successo — anche perché l’avanspettacolo mi piaceva quando lo frequentavo ma non pensavo che l’avrei fatto.

Tornato dalla guerra io volevo fare l’attore e la mia famiglia non lo gradiva, però non me lo impediva e diceva: “fai il teatro, però te la vedi da te”. Allora ci sono stati dei momenti di difficoltà: le compagnie erano poche c’era una grossa spaccatura tra Milano e Roma, le compagnie che si formavano a Roma avevano delle maggiori possibilità perché gli attori si erano già concentrati per tentare di lavorare nel cinema e Roma era quindi satura di attori e le compagnie si formavano li. Al nord e soprattutto a Milano era più difficile, c’erano delle iniziative, io ero legato già da allora a Grassi e a Strehler, si aveva in mente di fare un teatro, diciamo, municipalizzato cioè con l'intervento dello Stato e del Comune. Lavoravo con loro e in attesa di una definizione ho cercato di vivere in qualche modo. Sono stato con Gandusio come sono stato con i De Rege, anzi con Giorgio De Rege, perché il fratello era già morto.

La situazione in quel periodo era dura, perché si arrivava, in alcune città, a fare anche tre spettacoli al giorno e la paga era una e i giorni di riposo, naturalmente, non erano pagati. Quando si lavorava tutta la settimana il capocomico aveva diritto a due giorni della tua paga, quindi venivi pagato cinque volte la settimana lavorando per sette, capitava che lavoravi due giorni — questo anche nelle compagnie grosse — in una settimana: già molto che ti pagavano i viaggi e i trasferimenti.

L’attore nei confronti dei testi dell’avanspettacolo assume una posizione assolutamente creativa: nel senso che il testo offre quasi niente, è solo un’indicazione, un qualcosa di incompiuto, di indicativo che la personalità dell’attore deve esprimere per carpire immediatamente l’attenzione del pubblico. Se l’attore recitasse le parole del testo si scioglierebbe in una melensaggine, in una indifferenza: l’attore deve lavorare sulla propria personalità, sulla propria invenzione, sulla continua sollecitazione che lui ha come individuo di fronte a un pubblico: deve creare questo rapporto col pubblico, se cessa un momento solo la tensione tra platea e palcoscenico salta tutto, se il pubblico si distacca, si annoia, c’è l’insuccesso. L’attore dell’avanspettacolo deve inventare continuamente dei motivi, dei movimenti propri e interiori per tenere sempre densa, vigile, l’attesa e l’attenzione del pubblico. Gli attori di prosa che facevano la rivista non ci riuscivano se non in casi particolari di gente molto affiatata: posso citare l’esempio di una coppia molto divertente formata da Ermanno Roveri e Franco Coop in certi testi di Galdieri, oppure certe magnifiche cose di Pina Renzi. Ma, generalmente, gli attori di prosa dentro lo sketch si muovevano con un po’ di pesantezza, non erano attori dotati particolarmente di quel ritmo continuo, di quella leggerezza, di quella disinvoltura nei confronti delle battute e non mettevano tutta la propria attenzione, il proprio slancio nell’inventare continuamente le battute.

A questi temi sono legati i lati più belli... c’è per esempio un classico che è lo sketch del vagone letto fatto da Totò, oppure una farsa tradizionalissima che è La camera fittata a tre, che io ho scoperto addirittura nel teatro di tradizione popolare francese e che risale forse al Seicento e ai comici dell’Arte. Quando ho visto la prima volta il Vagone letto, durava non più di un quarto d’ora, si è arrivati a farlo durare un’ora, con queste dilatazioni continue che sera per sera avvenivano, in contatto diretto col pubblico, ma queste improvvisazioni, questo gioco, vivevano su elementi affiatati come era Castellani nel fare la spalla a Totò. Lo sketch viveva tutto di questo, quello che l’autore portava o presentava erano solo alcune battute guida, dove la fantasia dell’attore era libera di fare, di costruire.

Per ciascun comico il punto fisso era quello di cercare una propria originalità nella deformazione della realtà che si incarnava nei personaggi: il comico, se era elegante, se sceglieva di essere elegante, era esageratamente elegante, noi abbiamo avuto un comico che è stato sempre considerato un minore che però aveva un suo stile ed era Fanfulla, il quale esageratamente faceva dell’eleganza con dei colori stravaganti nei vestiti.

Macario ha portato avanti la maschera del marno, dell’innocente, gli arlecchini tradotti in maschere piemontesi, perché le sue cadenze erano dialettali, però era un ingenuo, un candido. Totò è la classica figura napoletana con le deformazioni acrobatiche marionettistiche.

Franco Parenti


Lo spettacolo dal vivo prima del film

Spettacolo di varietà di gusto popolare che, in passato, precedeva o seguiva la proiezione dei film nei cineteatri. Così viene definito nel dizionario della lingua italiana ma l'AVANSPETTACOLO è anche molto di più. Questo genere teatrale che ha imperversato dagli anni 30 sin sul finire degli anni 60, subendo molteplici trasformazioni, altro non è se non un insieme ridotto del cafè-chantant, del varietà e se vogliamo anche del music-hall. Espressione tipicamente italica l'Avanspettacolo trovava spazio nelle migliaia di sale sparse in tutta la penisola ed in esse si alternavano centinaia di Compagnie di giro più o meno note che proponevano due spettacoli giornalieri e la domenica tre ed a volte quattro.

E' importante ricordare che malgrado l'Avanspettacolo fosse considerato un genere di spettacolo minore, esso ha costituito la base per la formazione di affermati artisti tra cui possiamo ricordare Totò, Fabrizi, Dapporto, Tognazzi, Billi e Riva, Taranto, Chiari, i De Rege, Banfi, Carotenuto, Croccolo, Franchi e Ingrassia, Bramieri, Sordi( l'Albertone nazionale) ed altri ancora. Tutti sono passati dalle polverose tavole dei palcoscenici di periferia prima di approdare ai fasti ed al successo della grande Rivista, lo spettacolo di serie A.

La compagnia di Avanspettacolo, nella formazione base, era costituita da un comico, una soubrette, un attore di spalla, due soubrettine, 12 gambe 12 ( ovverosia 6 ballerine 6), un boy (quando se lo si poteva permettere) ed eccezionalmente in appoggio una vedette canora della RAI/TV.Compagnie che scorrazzavano su e giù per l'Italia con a volte un solo copione che veniva adattato a seconda del contesto in cui ci si trovava. I copioni erano dovuti alle penne di autori come Margal (Mario Gallucci), Gustavo Palazio, Alfredo Polacci, Frarò, Trevisan ed altri a cui si affiancavano firme del teatro e della rivista quali Ripp e Bel Ami, Mario Amendola, Bruno Corbucci, Dino Verde, Antonio Amurri ed altri.

A Torino c'era una compagnia stabile dell'Avanspettacolo, forse l'unica "stabile" in tutta Italia, allestita dall'impresario Ventavoli per il comico Mario Ferrero che si esibiva prima al cine-teatro Romano per poi passare al cine-teatro Maffei tenendo il cartello per dieci/undici mesi l'anno e presentando ogni 15 giorni un nuovo spettacolo. La prima della nuova stagione avveniva il 15 Agosto e la sala del Maffei faceva sempre il pieno.A fianco del bravissimo comico torinese si sono affermate ,di stagione in stagione, soubrette come Nory Morgan (all'anagrafe Aldina Tasso), Tonini Nava ( la quarta sorella della dinastia dei Nava, figlia cel comico Brugnoletto), Aurora Banfi, Silvana Koffeler, Nella Colombo, Paola Certini, Rosy Zampi (Zampini), Wilma e Maritza Zawart (le sorelle Zavattaro) e poi come non ricordare attori brillanti come Enzo Romei, Mario Marchetti, Lelio Perrelli, Gianni Liboni, Cesare Benini ed il duo Ric e Gian (Riccardo Miniggio e Gianfabio Fosco che cambiò poi il cognome in Bosco). Un ricordo speciale a Clara Gessaga il cui padre era un comico di avanspettacolo e che iniziò a recitare all'età di 6 anni e proseguì la sua carriera come ballerina, soubrette e poi come caratterista fu per 15 anni al fianco di Mario Ferrero.Per ricordarli tutti ci si deve affidare a testi completi come BENE, BRAVI, BIS di Emilio Isca e da cui questi appunti sono tratti.

Cabana Laggiù a Copa Cabana
a Copa Cabana
la donna è regina
la donna è sovrana...

Con questo samba tropicaleggiante, dovuto all'estro di Bracchi e D'Anzi per una rivista scritta e musicata per la compagnia di rivista Osiris/Dapporto, l'avanspettacolo metteva in scena il fascino dell'esotico, il sogno dell'avventura.Con un fondale spiegazzato e consunto dal tempo, con su due palme lussureggianti stagliate su di un cielo infuocato, quattro ballerine quattro, adorne di corolle di carta crespa e cinte da gonnelline di paglia stinte, assistite il più delle volte da un boy dall'età pensionabile, davano il meglio per rendere accettabile il sogno ad occhi aperti.Tutto questo avveniva dopo che il brillante presentatore, armatosi di un microfono e di un sorriso smagliante quasi da paresi gridava al pubblico;"Ed ora, gentili amici, sogniamo insieme. Trasferiamoci tutti nella terra dell'amore a godere il fascino dell'esotico. Chiudiamo gli occhi e voliamo laggiù, a CopaCabana...."

Ferrero Oltre al fascino dell'esotico esistevano pasti saltati, ore ed ore in stazione in attesa di un treno che portasse in sperduti paesini dove avvenivano i debutti, pensioncine di terz'ordine dove si stava anche in tre o quattro per stanza pur di risparmiare, bicchieroni di caffelatte per calmare stomaci che da tempo gridavano vendetta. Nell'immediato dopoguerra le compagnie di avanspettacolo avevano tutte il loro asso nella manica. Alle prime avvisaglie di un sicuro insuccesso ed alle prime bordate di fischi che si levavano dalla platea, i macchinisti calavano celermente il fondale con il campanile di San Giusto in Trieste ed un volo di candide colombe. Le ballerine entravano in scena avvolte in sgargianti tricolori e tutti insieme a cantare la canzone che parlava delle campane di Trieste e della Trieste italiana. D'incanto il pubblico zittiva e trasformava i fischi in applausi e così si risollevavano le sorti della Compagnia conciliando la stessa con la platea.

Non erano da meno i battibecchi che si sviluppavano tra pubblico ed artisti . Questi ultimi se poco graditi venivano apostrofati in modo molto colorito (per usare un eufemismo) dando vita ad uno spettacolo nello spettacolo, a volte anche più divertente dello stesso in programma. In avanspettacolo si usava molto il nome d'arte. Nomi di estrazione esterofila suggeriti da attrici d'oltre oceano o creati a tavolino da autori ed impresari. Così le Filomene Quattrocchi e la Assunta Scognamiglio diventavano d'incanto Flora Davis e Hellen Dolliver. A volte anche gli attori si prestavano a questi cambiamenti e così al Cine-teatro Alcione di Torino Aldo Maccione diventava Aldo Martin, Elio Piatti e suo fratello erano i fratelli Martin (i Martin si sprecavano) e Ettore Gerry Bruno era Gerry Brown.
Cabana Le formazioni, eccezion fatta per alcune, erano alquanto modeste ma comunque decorose. Le ballerine erano tutte figliole in carne con qualche traccia di cellulite sapientemente celata.Gli impresari con maggiore disponibilità economica acquistavano gli scenari ed i costumi delle grandi formazioni di Rivista (Macario, Dapporto, Osiris) e con il materiale di questi spettacoli si rifornivano almeno una decina di compagnie minori.

L'umorismo dell'avanspettacolo viveva molto di doppi sensi e le scenette comiche si basavano spesso e volentieri sull'equivoco. Un classico è lo sketch dove il comico dopo una "lunga astinenza" decide di andare in una casa di tolleranza senza sapere che essa non esiste più ed in quel palazzo ora c'è lo studio di un dentista donna. Il resto lo lascio immaginare.Alla fine dello spettacolo il momento più atteso era la "passerella" dove i protagonisti sfilavano davanti al pubblico e di questo i giovani e non solo si ammassavano a bordo palcoscenico per ammirare le gambe delle ballerine.Passerella Il finale vedeva quindi riunita tutta la compagnia, quasi sempre campeggiava una scala ( alla Osiris per capirci ma in formato ridotto) e da questa scendevano le ballerine, l'attore di spalla, il comico e la soubrette, tutti sorridenti, smaglianti, dispensatori di saluti e baci cantando un motivetto orecchiabile ed al tempo stesso familiare dovuto a Sandro Serafini ed il cui testo diceva così:

Saluti e baci
saluti e baci a tutti in quantità
solo coi baci
si può trovare la felicità.....
questa è la vita
un bacio, una carezza e passerà....
Saluti e baci
saluti e baci in quantità!

L'Avanspettacolo ha caratterizzato un'epoca, coinvolto almeno due generazioni e poi....come per tutte le cose se ne è andato lasciando un vuoto che solo quelli della mia generazione e di quella precedente alla mia possono sentire.


Avanspettacolo e dittatura

Il fascismo dedicò sempre molta attenzione al teatro. Di proclami epocali per il sostegno o la rinascita del teatro italiano sono pieni gli atti dei governi presieduti da Mussolini. E oltre a inventare il celebre sabato fascista (sarebbe a dire, ricordiamolo ancora, che gli italiani al sabato non dovevano lavorare ma dedicarsi alla cura del corpo e dell’anima, anche frequentando i teatri a prezzi scontati), il regime introdusse presto una struttura governativa, l’Ispettorato del teatro, che doveva provvedere a sovvenzionare le attività teatrali. Gli investimenti furono ingenti e non fatti solo a scopo benefico o per amore dell’arte: l’apertura o la chiusura di linee di credito alle compagnie, agli autori e ai capocomici significava anche governare lo sviluppo e, più ancora, le scelte artistiche e di repertorio. In un certo senso, l’intervento economico pubblico nel teatro ebbe più peso, nell’indirizzario verso l’ideologia e la propaganda fascista, di quanto non ne ebbe la censura in senso stretto. Il Varietà e l’Avanspettacolo, per legge, non ebbero mai sovvenzioni pubbliche né furono ammessi a beneficiare della mobilitazione generale del sabato fascista. Nel caso della Rivista, il trattamento era più elastico: avere in compagnia un divo della prosa, per esempio, era garanzia di sovvenzione pubblica. Questa circostanza ha fatto sì che il Varietà e l’Avanspettacolo abbiano risentito solo marginalmente del complesso clima propagandistico imposto dal regime al teatro: ogni sforzo per fascistizzare questi spettacoli ricadeva solo sull’operato del censore.

Durante la guerra alcuni avvenimenti modificarono questa situazione consolidata. Intanto, il pubblico preferiva ridere: di drammi ne viveva già abbastanza nella vita reale per accettare di conoscerne altri dalla platea. Sicché l’Avanspettacolo e la Rivista, nel 1942, risultarono essere i generi teatrali più frequentati dagli italiani mentre nei due decenni precedenti erano sempre stati dietro alla prosa e alla lirica. Inoltre, la prosa si trovava a non poter disporre di un repertorio sufficiente per garantire un’offerta degna: erano ovviamente vietati testi (anche antichi) provenienti da ciascuno dei paesi nemici, mentre i maggiori drammaturghi, da Bracco a Benelli a Lopez, erano per vari motivi osteggiati dal regime. Quindi, concretamente, a parte le ennesime riproposizioni di classici italiani, greci e latini (oppure shakespeariani, essendo Shakespeare l’unico autore di un paese nemico ufficialmente consentito), le compagnie erano a corto di testi drammatici. Infine la produzione cinematografica era praticamente ferma, per mancanza di fondi, e dunque molti attori assai popolari della prosa e del cinema si rivolsero alle compagnie comiche per essere scritturati ed evitare la disoccupazione.

Queste le ragioni dell’irresistibile successo, durante la guerra, dell’Avanspettacolo e della Rivista. Che disponevano di buoni autori abituati a sfornare copioni a getto continuo; che potevano contare sull’innesto di divi cinematografici e cantanti di successo; che andavano incontro al bisogno di evasione del pubblico; che non costavano allo Stato il quale, malgrado l’apparente ostilità, vedeva di buono occhio la diminuzione degli spettacoli di prosa e l’aumento di quelli comici.

In questo contesto, tra la fine del 1943 e l’inizio del 1945 un singolare problema si inserì fra i mille, assai più drammatici che accompagnarono la difficile transizione dell’Italia dal fascismo alla libertà: ossia la necessità di convincere i comici più amati a recitare nel territorio della Repubblica sociale. Questa necessità era dettata sia dal bisogno di coinimicare al pubblico del Nord Italia i segni di un’apparente normalità, sia dalla voglia di usare i comici come strumenti di propaganda più o meno inconsapevoli. A questo fine le autorità tedesche, prima della liberazione della Capitale da parte degli americani, studiarono un piano dettagliato per rapire alcuni attori di fama, residenti a Roma, e trasferirli al Nord. La vicenda è raccontata anche da Peppino De Filippo con la sua solita, amabile vanità.

«Eravamo nel 1944 quando i tedeschi si preparavano a lasciare Roma per l’avanzare delle truppe alleate dal Sud. Io mi trovavo al Teatro Eliseo a svolgere una stagione teatrale con la mia compagnia. Improvvisamente non si sa come, perché e da chi, Totò avendo saputo che tanto io quanto mio fratello Eduardo dovevamo essere “prelevati” e condotti al Nord, si preoccupò di inviarci, in segreto, un amico ad avvertirci. Io e mio fratello interrompemmo le recite e trovammo sicuro rifugio presso la casa di una nostra cara amica ai Parioli. Totò ne venne a conoscenza. In quella bella e accogliente dimora vi rimasi ben trattato e foraggiato con tutti i riguardi una quindicina di giorni. L’eventualità che qualcuno potesse scoprire il mio nascondiglio non mi faceva dormire sonni tranquilli. Un giorno la cameriera di casa venne a dirmi che fuori, in sala, c’era una ragazza che chiedeva un mio autografo e che per ottenerlo poteva mostrarmi un biglietto di “raccomandazione”. Impensierito accettai di ricevere la ragazza e questa mi diede a leggere il suo “bigliettino”. Su questo era scritto: “Caro Peppino, questa bella ragazza desidera un tuo autografo, il mio gliel’ho dato, le ho detto il tuo indirizzo, accontentala. Antonio”. “Antonio” era semplicemente Totò».

Che sia vero o no, è con questo episodio che si conclude il nostro viaggio nella battaglia tra i comici e la censura fascista. Anzi, l’ambiguità del racconto di Peppino De Filippo è quella che vorremmo desse il segno alla strada che si è fatta. Perché oltre le carte bollate e i timbri, oltre i segni a matita rossa e le firme, la storia dei comici si è sempre riflessa in modo ambiguo in quella del loro pubblico. E ciò che di falso e fantastico è stato vero per gli uni, alla fine è risultato vero anche per gli altri: adesso c’è la televisione a certificare la verità ma a quell’epoca c’erano solo i comici. Contro questa egemonia il fascismo si è sempre battuto: se abbia davvero perduto o no la sua battaglia (e perché), lo dirà ognuno nelle sue considerazioni personali alla fine di tutto quanto abbiamo rievocato in queste pagine. Si può solo suggerire di tenere bene a mente che, visto l’ostacolo, il regime tentò di aggirarlo affidandosi al cinema: la mediazione dello schermo consentiva raggiri che le smorfie dei comici non potevano garantire. Eppure...

E non è un caso che proprio nel momento più drammatico della contesa, il pubblico mostrò di preferire i comici. La gente vuole ridere: questa, anche, era l’Italia fascista sotto la guerra. Un paese ambiguo e incoerente, capace di mutare faccia e identità dalla sera a mattina. Capace di rinnegare il fascismo dopo averlo servito per anni. Capace di saltare i pasti per accantonare i soldi necessari a comprare lo sberleffo vano di un comico. Capace di ridere sotto alle bombe, capace di inventare storie magnifiche mentre fuori infuria la peste.

Nicola Fano


Comici, Soubrette, cantanti

Aveva conosciuto il suo massimo splendore nell’immediato anteguerra, quando i capocomici erano Totò, Dapporto, Fanfulla, e c’erano le favolose compagnie Fineschi-Donati, Navarrini-Bluette, Riccioli-Primavera. I numeri d’attrazione erano Aldo Fabrizi, le sorelle Nava. Le platee si muovevano come mari in tempesta, applausi e risate, ed anche pernacchie e gatti morti scagliati in scena (fatto storico accaduto allo Jovinelli di Roma). Col dopoguerra cominciò il declino, i nomi più prestigiosi erano passati al “teatrale”, ossia alla rivista completa in due tempi; comunque le sale d’avanspettacolo erano ancora moltissime: nella sola Roma, il Brancaccio, lo Jovinelli, il Principe, il Savoia, il Delle Vittorie, l’Appio, il Volturno, l'Alhambra, il XXI Aprile, il Vittoria, il Reale, il Rosa, il Giulio Cesare, il Super-cinema, il Palestrina, il Cola di Rienzo, il Lamarmora... La domenica pomeriggio, alle due e mezza, già si formava la ressa di marinai e soldati davanti alle porte ancora chiuse. Volevano vedere le gambe.

Soltanto le gambe erano permesse. Proibito perfino l’ombelico. Gambe tracagnotte che picchiavano sulla passerella i tacchi alti, sollevando nuvole di polvere; musiche sgangherate e stecche agghiaccianti; in mezzo a tutto, il comico, benevolo e benedicente come il papa. Il rito era molto preciso, gli elementi sempre quelli, variamente alternati: coreografia, sketch, siparietto, “numero” (un cantante, un giocoliere), duetto comico-soubrette; poi altra coreografia, altro sketch, e cosi via per un’ora e mezzo, che era la durata media. Quindi il film, generalmente scadente; la sala lentamente si vuotava.

I personaggi erano fissi come maschere. Anzitutto, il comico e la spalla. La spalla era un uomo di mondo, col doppiopetto e il fazzoletto al taschino; irritato dal suo compagno imbambolato e ignorante, lo maltrattava, si stizziva (“Non so perché sto a perdere tempo con te!”), tentava vanamente di costruire con lui un affare, spesso truffaldino, ma le balordaggini del comico mandavano a monte ogni cosa. Certe volte il comico, esasperato dagli insulti dell'amico, concludeva col classico “mozzico in testa”, ossia saltandogli addosso e fingendo di morderlo all’orecchio. Cosi raggruppati uscivano fra gli applausi e gli urli.

Massimi rappresentanti di questo genere, erano i fratelli De Rege; se si è sottolineata la bravura circense di Ciccio De Rege, splendido marno dal naso di cartone, pochi hanno rilevato i meriti eccezionali del fratello spalla, che era sempre tuffato nella parte e si arrabbiava davvero, si rodeva il fegato all’insipienza dell’altro: perché una spalla, più si adira e più fa ridere. Meraviglioso e assurdo, il matrimonio comico-spalla; simile a quello dell’Augusto e il Clown Bianco nel circo. Non c'è una ragione al mondo perché quei due temperamenti debbano convivere, dato che il loro ménage è solo fonte di liti, ma è questa la più elementare delle leggi della comicità: la contrapposizione estrema. Il furbo e il trasognato, Sancio Panza e Don Chisciotte; i due hanno anche una misteriosa somiglianza; un irragionevole amore li unisce. L’uno, senza l’altro, è inconsolabilmente vedovo.

Gli sketches, nell'avanspettacolo, seguivano pochi filoni, tradizionali: ci si basava quasi sempre sull’equivoco, a imitazione della nota farsa classica di autore francese ignoto, La sposa e la cavalla. Questa operina, precisa come un teorema, narra d’un tale che ha dato lo stesso nome alla figlia e alla cavalla preferita. Quando un giovane viene a chiedergli la mano della figlia, egli crede che voglia comprare la cavalla. Di qui una serie di battute famose (“devo confessarvi che ha il vizio di tirare calci..., io la montavo ogni mattina,” ecc.). Su questo schema semplice come un paradigma, furono costruiti innumerevoli sketches, nei quali uno va dal dentista credendo di far visita a una prostituta (di là sente la voce della donna: “adesso glielo strappo”) oppure scambia un matrimonio con un funerale, e cosi via: l’essenziale è che la situazione sia ben chiara fin da principio; il pubblico deve sapere della partenza ambigua, l’unico che non sa è il comico, che continuamente casca dalle nuvole.

Un altro numero famoso era quello della “pernacchia, il fischio e la raganella”: un minorato non sa parlare altro che alternando questi tre rumori fastidiosi, con conseguente perdita di occasioni d’oro (lo scacco, il fallimento, l’incapacità, la fame, l’idiozia ereditaria sono l’essenza comica dello spettacolo all’italiana). Oppure, un numero che è una serie di esempi: ecco come gioca al biliardo un miope, un militare, un invertito (grande scempio dell’omosessualità, nell’avanspettacolo; bastava che il comico accennasse a essere “uno di quelli” che il pubblico si sganasciava. Compresi i molti della categoria che erano sparsi qua e là in caccia di avieri).

Rascel e Fanfulla portarono una comicità differente: quella che allora si definiva “surreale” (nessuno sapeva cosa fosse il surrealismo). Rascel gettava in aria pochi pezzetti di carta gridando con voce fioca: “Viva il carnevale!” E portava il taschino sulla schiena. Fanfulla vestiva con colori da shock, si grattava il lembo della giacca aperta, e parlava col gergo del “Marc’Aurelio” e del “Bertoldo”. Il pubblico rideva anche per loro, erano i preferiti degli studenti e dei gagà. Agli inizi, anche Dapporto raccontava barzellette “sceme”, ossia assurde; ma questo genere aveva già avuto il grande inventore in Petrolini. Dante e Beniamino Maggio eseguivano sketches patetici, come quello del cieco; ma la loro comicità era sanguigna, urlata, Beniamino sfruttava anche la sua gamba di legno in funzione comica. Fabrizi non ha avuto quasi mai una sua compagnia: interveniva come “numero” sotto finale; si piazzava li immobile, e cominciava: “Ci avete fatto caso...” Parlava di tranvieri, di conti della spesa, di patate a tocchetti; un umorismo concreto, fatto di oggetti quotidiani; evocava una Roma piccolo-borghese di salumai e di baccalà ammollato, la Roma della Circolare Rossa e delle serve “bone”; anche lui, come tutti i comici, si costernava per quel che succedeva, sbarrava gli occhi tondi in una disapprovazione qualunquista. Politicamente, l’avanspettacolo era il regno dello scetticismo spicciolo, della sfiducia nel fascismo e poi nella democrazia; faceva presa sulla stanchezza popolare, sull’inerzia, sull’incertezza del voto.

I cantanti si presentavano tutti come “della Radio”. Forse avevano fatto una breve comparsa a Radio Igea, o Radio Naja. Il genere sentimentale, con filati e gorgheggi, era il solo che veramente soggiogasse le platee; i pochi momenti di attonito rispetto avvenivano durante la esecuzione di Fiorivi fiorello o di Amor di pastorello; o per canzoni drammatiche come Torna!. Luciano Tajoli era la stella, l’irraggiungibile divo; in ogni avanspettacolo c’erano i falsi Tajoli, e i falsi Carlo Buti, e i falsi Spadaro. Le cantanti talvolta sceglievano canzoncine maliziose, facendo impazzire di allegra libidine i presenti: “Ciaa dongo o nun ciaa dongo quelsta bella bumbuniera?” sorrideva complice Luisa Poselli, appoggiando la bomboniera proprio li; Franco Sportelli invece si esibiva nella Pansée (“Me la dai la tua pansée?”); ed anche il filone delle canzoni a equivoco osceno è vecchio, anzi, il suo trionfo risale ai cafés-chantants. Nell’immediato dopoguerra, rinnovo di ritmi e musiche; il quadro col boogie-woogie si sostituisce a quello sul Bolero di Ravel, i comici sfottono gli americani, i momenti patetici sono dati dalla soubrette mascherata da sciuscià. Si piange sull'Italia bombardata, su Roma bella d’una volta, sulla corruzione dei costumi. Si scherza sulla borsa nera. C’è la meteora Lucianella Ritas.

Questo nome sconosciuto apparve su tutti i muri di Roma, scritto con vernice nera: “W Lucianella Ritas”. Ma chi è? si chiedeva la gente. Il padre di Lucianella era andato da solo, nottetempo, a inneggiare cosi alla figlia: umile e geniale trovata pubblicitaria. Difatti poco dopo, ecco la compagnia Lucianella Ritas alla Sala Umberto; ci fu curiosità, ma quella bella ragazza bruna dall’esile voce durò poco, travolta dalla depressione degli anni cinquanta. Chiusero molte sale, gli elementi migliori erano strappati dalla rivista, dominio di Galdieri e di Garinei e Giovannini; l’avanspettacolo conobbe la sua inarrestabile flessione; l’agitarsi degli esclusi in Galleria Colonna a Roma, e in Galleria del Corso a Milano, divenne farneticante come di formiche minacciate.

Arrivavano film importati, che bastavano a riempire i locali. La provincia resistette per poco, già nasceva la sinistra televisione, dove si piazzavano Pietro De Vico, Giulio Marchetti, i fratelli Rizzo, Navarrini, Anna Campori, Sportelli, i fratelli Maggio, le Nava: insomma tutti coloro che potevano appagare la fame di brillanti interpreti di questo nuovo mezzo sorto sul nulla. D’ora in poi, ogni giovane avido di popolarità immediata, sognerà gli studi televisivi, e non più le ribalte impolverate e illusorie dei cinema-teatri.

Il decennio d’oro dell’avanspettacolo è stato il 1937-1947. Ossia, gli anni intorno alla guerra; anni di chiusura, di ritiro e di malinconia; possibilità d'un erotismo innocuo e d’una distrazione senza compromissione. Per questo l’avanspettacolo ha, nel ricordo, un che di monco e di dolente: la sostituzione d’uno spettacolo vero, libero e aggressivo, ostacolato dai fascisti prima, e dai democristiani poi. Uno show fatto in famiglia, una recita collegiale, un po’ più spregiudicata, ma sempre controllata dal prefetto di disciplina.

Bernardino Zapponi


Nascita di "ciccio Formaggio"

Facevo la macchietta, la macchietta senza nasi finti, trucchi eccetera, facevo questa macchietta in frac. Non so come sono arrivato a concepire questa macchietta, vedevo solo che era inconcepibile truccarsi. I comici allora si mettevano nasi finti, parrucche, si cambiavano, da una macchietta all’altra: io vedevo che non era possibile e decisi di farla in frac.

Credo che l’unico modo per imparare il mestiere è quello di militare in compagnie, fare la gavetta. Quest’anno ho avuto la fortuna di avere una compagnia fatta da tutti giovani. La chiamo fortuna. Non è vero che non ci sono attori, bisogna cercarli. C’è un solo guaio, per quel che riguarda i giovani, non appena hanno la possibilità di mettere la bocca vicino a un microfono, si credono dei padreterni e cominciano a fare in proprio, a fare i capocomici, senza avere quel famoso mestiere, che poi è la gavetta. Le sovvenzioni sono una brutta cosa, gli aiuti ministeriali e regionali sono il guaio dei giovani.

Quando ho fatto la macchietta i miei più grossi successi li ho avuto al nord, con le macchiette in napoletano. Io ho cantato Ciccio Formaggio a Bolzano, come per Carlo Mazza, mi capivano, io mi facevo capire.

Oggi quando la Nuova Compagnia di Canto Popolare va in all’Italia: quanto sono bravi, sono belli, ma non abbiamo capito niente! Non so perché mi capivano. Cercavo di italianizzarla, io davo il suono, il suono napoletano... poi nacque la famosa paglietta tagliuzzata... Facevamo una Piedigrotta a Napoli, al Bellini e nacque Ciccio Formaggio. Avevo portato quest’innovazione della macchietta in frac, ma pensavo che qualcosa dovevo mettere in testa e la canzone parlava di paglietta: “si nun me tagliasse 'e pizze d’a paglietta...” mi scervellavo. Cosi alla prova generale passa Gigi Pisano, l’autore dei versi che aveva la paglietta. Me la fece misurare e vidi che sul frac ci stava bene. Me la feci prestare e il giorno dopo al debutto me la provavo: ma non si capisce se è Spadaro, se è Chevalier e non poteva essere... pensavo al fatto: “se me vulisse bene overamente, nun me tagliasse ’e pizze d’a paglietta” e dissi: “mo' ci faccio ’nu pizzo”. Uno non mi soddisfaceva, ne feci un altro e cominciava a stare bene e allora per scaramanzia ne feci tre.

Nino Taranto


In Vita da cani c’era la vita vera dell’avanspettacolo: l’attore che scappa dall’albergo e lascia la valigia piena di carta: “Vengo dopo a pagare, ho la valigia in camera”, e poi non tornava più... Al punto di arrivare a comprare le valigette di fibra alla Standa, che costavano una lira, allora. Io una volta avevo Mario Carotenuto come spalla, simpaticissimo, che fingeva di essere il mio segretario. Lui scendeva mezz’ora prima dall’albergo, lasciava la valigia di carta in camera, e diceva: “Il conto mio va al commendatore”, e se ne andava. Ci teneva insieme il piacere di lavorare. Ci si rubava le barzellette l’uno con l’altro, e poi naturalmente ci se ne accorgeva, e magari si veniva anche alle mani. Oggi i nuovi attori non hanno mica provato quello che stiamo raccontando adesso. Chiamiamola pure fame.

Lavoravamo con un siparietto, anche il povero Totò, le scene di Epifani con i buchi dietro. Questi odierni lavorano con le coreografie di Gino Landi e settecento milioni di messinscena! Là se un attore non andava, veniva protestato, non lavorava più. Nell’avanspettacolo c’erano le piazze divise come una carta geografica, per esempio per fare la Toscana dovevi debuttare a Firenze, se facevi successo a Firenze facevi tutta la Toscana, se no rimanevi in mezzo a una strada. C’era un giro, ma tutto dipendeva dal debutto. Certe compagnie si fermavano a quello. Si scioglieva la compagnia oppure si andava a fare i paesini, a fare i salta montagne. Era un mestiere duro: tre spettacoli al giorno e la domenica quattro. Al Margherita di Napoli anche cinque, dalle undici del mattino. Napoli era il cuore del teatro, allora. Una sera un napoletano, mentre recitavo una rivista che si chiamava Agitatissimo, con una ventina di ballerine, si alzò e mi disse: “Cavaliere, siete ’nu giglio in mano a Sant’Antonio!”

Tino Scotti


Quando, l’estate scorsa, andò in scena al Dal Verme la rivista Sotto i ponti di Milano, il cuore batté forte ai vecchi milanesi. Prima di tutto, era di quelli che fan battere il cuore dei vecchi milanesi il titolo che, parlando di ponti di Milano, faceva pensare ai ponti, da venti anni scomparsi, del vecchio Naviglio non mai abbastanza compianto. In secondo luogo anche il nome del vecchio Dal Verme aveva una buona parte nella commozione generale. Si tratta, in ordine di grandezza, del secondo teatro milanese, dopo la Scala; sorto, credo, una settantina d’anni or sono. Terzo motivo di commozione per i milanesi: Sotto i ponti di Milano presentava fra i suoi interpreti, accanto alla bolognese Pina Renzi, un attore milanese, che recitava in milanese. Si ripete che recitava in milanese, tanto per indicare la differenza che correva fra il nuovo attore e gli altri attori che, nati a Milano, non sono stati mai, o solamente in saltuarie occasioni, attori dialettali.
Morto Ferravilla — che fu il maestro della Galli — il teatro dialettale milanese era andato declinando: precipitando anzi nella piatta imitazione dei tipi ferravilliani o fra le musichette del vaudeville rivistaiolo.

La rivista cui Tino Scotti prendeva parte ebbe centinaia di repliche: varie centinaia di migliaia di spettatori lo applaudirono. I suoi due personaggi — il Cavaliere, dal cappello grigio listato di nastro bianco, dal tight nero e dai pantaloni grigi, dall’eloquenza velocissima ed irta di strafalcioni e il Bauscia, il gradasso da periferia, spaccamontagne, pronto a camuffare come una vittoria la più veloce delle fughe — diventarono popolari.

Il successo di Scotti si può considerare come tardivo, come lo fu, del resto, quello di Govi. Tino Scotti ha quarantacinque anni, ed è giunto tardi al successo, com’era giunto tardi al teatro. È una cosa che si è verificata spesso nel teatro dialettale. Anche Angelo Moro Lin, il rinnovatore del teatro veneto nell’Ottocento, giunse al teatro e al successo quand’era già uomo maturo. (...)

Scotti è di statura piuttosto bassa, con la figura sottile e i capelli nerissimi, i baffetti triangolari, due occhi roteanti in un viso che non ha nulla di ilare. I tipi ch’egli incarna sulla scena sono, tanto quello del Cavaliere quanto quello del Bauscia, due diverse sfumature dello stesso carattere: il lestofante, il truffaldino, lo spaccone essenzialmente vigliacco, il millantatore e il ciarliero “cavaliere d’industria”. Insomma, due poco di buono. Nella vita è un uomo bonario, che deve aver conosciuto anni duri, confortati solamente da un divagare fantastico nelle osservazioni che obbedivano al suo antico istinto di caricaturista. La sua maschera è pronta alla smorfia scattante, quasi crudele. Egli stesso dice che non sente come quei suoi due personaggi possano passare nel patetico, o in un naturalismo che non sia surrealista o grottesco. “Non posso far dire al mio personaggio: Ti amo... Mi sentirei subito dentro una pugnalata. Una parola cosi lo ammazzerebbe...”.

Il Bauscia e il Cavaliere sono nati un po’ alla volta durante lo svolgersi della carriera del caricaturista da varietà che un poco alla volta diventava attore; una volta, lo dichiara lui stesso, imitando certe azioni mimiche di Spadaro: altre volte — forse non se ne rende conto — seguendo inconsapevolmente, nella figura del Cavaliere, certi antichi ricordi infantili delle “comiche” di Max Linder. Girò un po’ con tutti: e nei suoi ricordi passa la vita di tutto il minore teatro di rivista di prima della guerra, ai tempi delle riviste di Ripp e Bel Ami, delle ultime compagnie del padre di Marisa Maresca, ai tempi di Gontrano Trucchi, ai tempi di Dedè Di Landa e della compagnia Erszi Paal. Titoli un po’ dimenticati di riviste come Madama Follia, Crociera rosa. Teatri di provincia e teatri rionali, finché viene il tempo in cui, a Roma, Mattoli lo scrittura per recitare in un film accanto a Macario, intitolato Non me lo dire. Faceva una particina da motociclista pazzo per la velocità: la critica lo elogiò moltissimo; credeva che le scritture sarebbero fioccate: invece nessuno si occupò di lui, e dovette tornare a girovagare per tutta Italia.

Orio Vergani


Il vocione di Tina Pica

Una delle più tipiche figure del teatro dialettale napoletano rimane certamente Tina Pica. Proveniente da famiglia di comici (la madre recitò al San Carlino a fianco di Antonio Petito, e il padre fu una delle migliori maschere di Don Anselmo Tartaglia), durante la sua lunga attività artistica ebbe modo di cimentarsi in vari generi di spettacoli, da quello drammatico a quello comico, dalla rivista al cinema, riuscendo solo nell’ultimo trentennio della sua carriera, però, a ottenere il pieno riconoscimento della stampa e del pubblico.

Giovanissima recitò nella Stabile del Teatro San Ferdinando, dove si valse della scuola dell'ottimo direttore (e attore) cav. Federico Stella,

Ma la Pica, ancorché brava, da giovane non ebbe quelle soddisfazioni artistiche che a buon diritto le sarebbero spettate: ebbe, invece, anni difficili i quali la costrinsero spesse volte, per tirare avanti, a compromessi con la propria arte. Chi scrive la ricorda una sera al teatro La Fenice nella Cantata dei pastori (azione sacra che durante il periodo delle feste natalizie veniva recitata da attori improvvisati), sostenere perfino la parte dell’Arcangelo Gabriele...

In altri periodi Tina Pica tentò pure il varietà, con un “numero” di imitazioni in cui gareggiava con i più famosi imitatori dell'epoca, quali Fernando, Luciano Mo-linari, il napoletano Pietro Fioravanti e altri ancora. Imitava alla perfezione Federico Stella, Luisella e Raffaele Viviani, Eduardo Scarpetta, Elvira Donnarumma, Gennaro Pasquariello, eccetera. Di queste imitazioni si avvalse, poi, per esibirsi a chiusura degli spettacoli.

Altro genere di spettacoli al quale ella partecipò fu quello della sceneggiata, e, anche qui, accanto ad Amedeo Girard, bravo attore e direttore, non mancò di far risaltare il suo eclettico talento d’artista. Le ottime doti della Pica non sfuggirono al cav. Eugenio Aulicino (il sagace impresario del “Nuovo”), il quale per la sua Compagnia di riviste la volle sua scritturata. E qui, si può dire, ebbe inizio l’ascesa di quest’artista: recitando assieme a un cast di attori d’indiscusso valore, quali l’indimenticabile Totò, Eduardo, Ti-tina e Peppino De Filippo, Alfredo Crispo, Francesco Corbinci, Giuseppina Bianco e Agostino Salvietti (il “beniamino” del teatro Nuovo), fu pari alla fama dei suoi compagni di lavoro, creando tipi e personaggi che suscitarono ondate di entusiasmo.

Dal teatro Nuovo, con Salvietti, Crispo e Gennaro Pisano, passò poi al Kursaal (oggi Filangieri) col Teatro umoristico creato dai fratelli De Filippo, insieme ai quali iniziò poi le sue tournées in Italia e all’estero, imponendosi all’attenzione dei più eminenti critici teatrali, come Renato Simoni, Domenico Oliva, Silvio D’Amico, Lucio D’Ambra e tanti altri che espressero sulla sua arte giudizi lusinghieri.

Affermatasi cosi, in campo nazionale, un’artista come lei non poteva, per la sua spiccata personalità, non interessare registi e produttori cinematografici i quali le dettero modo di segnalarsi anche in questo campo, facendola lavorare con Totò, De Sica, Sophia Loren, Gina Lollobrigida, Marcello Mastroianni, Fernandel, Ugo Tognazzi, Alberto Sordi, eccetera, caratterizzando personaggi che sono passati alla storia del cinema.

Mario Sieyès


Il pubblico

Vario e composito, il pubblico dell’avanspettacolo annovera rappresentanti di tutte le classi sociali. C’è lo studente che ha letto Gómez de la Serna e si sente tanto crepuscolare; c’è la sartina che arrossisce a certi doppi-sensi, poco doppi e molto spinti; c’è il rappresentante di commercio che guarda in continuazione l'orologio, per paura di perdere il treno; c’è il sedicenne che s’è proprio innamorato della seconda-da-sinistra e ne decanta l’anatomia in pubblico ed in privato; ci sono i militari in libera uscita, in gruppi chiassosi e infantilmente vocianti; c’è la signora di mezza età che viene col marito, ma che vede solo il film perché le nudità le danno fastidio e ad esse preferisce la lettura delle notizie “montate” del giornale della sera.

Per essere stati, più e più volte, in mezzo a questo pubblico, ne conosciamo ormai i segreti e i desideri, le intemperanze e le delusioni. Quando qualcuno, nell’ascoltare una barzelletta decrepita, dice: “vecchia”, lo fa con un senso di pudore; non vorrebbe disturbare, ecco, non vorrebbe interrompere. Lungamente frenato, perennemente ossequiente, questo pubblico si sfrena solo quando appare alla ribalta il cantante (o la cantante) di turno. Anche qui, un repertorio che, se non è proprio coetaneo dei sigari Minghetti, passa per periodi-tabù, durante i quali quei quattro o cinque “successi internazionali” si sentono e risentono in continuazione. Senza pietà. Si pensi, ad esempio, che Ballata selvaggia imperversa da due anni, ed Amo Parigi da dieci mesi. Granada, invece... da quindici anni.

Si va avanti senza invenzione, senza fantasia. Non si pensa, ad esempio, che una compagnia di avanspettacolo, che gira l’Italia da Domodossola a Pachino, è la più adatta a far conoscere una canzone nuova, inedita; a registrare le possibilità di successo. Si preferisce una cristallizzazione. Molti cantanti hanno possibilità limitatissime; chi si contenta gode. Questa è una inchiesta che tien conto di certi particolari, questo è un quadro d’assieme che non rinunzia ai dettagli: ebbene, che ci fanno, certi cantanti, in palcoscenico? Non hanno grazia, non hanno voce, non hanno stile. E poi, non sarebbe opportuno, presentarli sotto altra forma, rinunziare una volta per tutte a quell’agghiacciante “ed ecco a voi” che sa di varietà fuori porta, in baraccone?

Si vive alla giornata, oramai, e non ci sono più idoli. Le stelle, o le meteore, hanno scelto il campo più facile e più redditizio della rivista. Anna Fougez e Gino Franzi sono stati gli ultimi grandi miti.

Chi sono, oggi, questi signori che fanno il varietà? Si tratta di gente scelta alla meglio, quasi a caso, tra tutti coloro che vogliono fare del teatro. Ed è un discorso terribilmente serio. Una volta vi era il Quarto d’ora del dilettante, che reclutava, ma oggi non c’è nemmeno quello; ci si deve contentare della “sacra fiamma”. Ahimè, quanta tristezza! Non neghiamo la buona volontà ad alcuno; ma spesso ci troviamo a dover registrare una assoluta, inguaribile, idiosincrasia per il teatro. In parecchi casi, l’incapacità non è inesperienza, ma malattia.

Lo abbiamo già scritto, e ci piace ripeterlo: fin quando non si avranno compagnie fatte esclusivamente di attori ed attrici capaci, non si potrà parlare di un teatro di avanspettacolo fatto sul serio.

I dilettanti restano dilettanti per tutta la vita. Noi abbisognamo invece di comici che siano veramente tali, di soubrette che non urlino quando devono cantare e non cantino quando devono recitare, di attori disinvolti e possibilmente al corrente con la grammatica italiana, di soubrettine che non reclamizzino certe bevande gassate o certe particolarità toraciche ma pensino piuttosto a una recitazione dignitosa, a una pronunzia che faccia a meno dei dialetti originari. È necessario, indispensabile, che questa esigenza sia rispettata.

Con la gente che chiacchiera, invece di recitare, che passeggia invece di ballare, che ride invece di commuoversi, non si può che restare al livello scadente nel quale si è. Per progredire, bisogna avere la forza di impedire a certi squallidissimi gigioni di perseverare nei loro latrati, a certe splendide maggiorate fisiche di contorcersi e di truccarsi. Una compagnia di dieci elementi che conoscano tutti il mestiere è preferibile a una di venti che vadano a tentoni. È un problema di serietà. Per serietà, inoltre, dovrebbe essere vietato di allestire compagnie che durino venti o venticinque giorni e che si presentino in due o tre piazze con lo sketch che il tal comico possiede “in proprio” (le vecchie farse di Scarpetta peggiorate e rese volgarissime) e con due quadri di contorno a base di apaches e gigolettes.

Gravissima lacuna, quella dei copioni dell’avanspettacolo. Ma potrebbe essere altrimenti, coi bordereaux che vanno come vanno? I signori impresari, sulla percentuale dei diritti d’autori, pretendono sia loro riservato l’ottanta (e in certi casi il novanta) per cento. È, questa, una delle tante immoralità delle quali è costellato l’ambiente. Ma c’è di più: non essendoci una alta percentuale di autori che si assoggettino a queste condizioni di servaggio, predominano quei quattro o cinque autori-tuttofare che in moltissimi casi giungono perfino ad anticipare le somme per la formazione della compagnia. Anticipi quanto mai incauti, ché in qualche caso restano senza... appendici. A questo punto, si apre il capitolo più difficile di questa nostra rapida rassegna. È arrivato il momento di fare dei nomi, di additare i migliori. È bene dir subito che noi diamo poco credito a certo concorso “popolare”, nel quale il giudizio del pubblico si presta ad equivoci premeditati. Il comico Vici De Roll, è l’elemento più qualificato ad acquistare cinquanta o cento copie di un giornale per autoprocurarsi cinquanta e cento voti. Certi premi cessano quindi di esprimere un giudizio di merito e diventano soltanto fiere di vanità.

Quanto ai comici, è risaputo che non si può “puntare” interamente su qualcuno di essi. Le nostre preferenze oscillano fra un gruppo vecchia-maniera: Franco Sportelli, Mario Ferrerò, Angelo Cecchelin, Giorgio Bixio e una generazione più recente che si affida ai De Vico, a Nino Terzo, Carlo Nanni, Piero Mazzarella, Lucio Flauto, Pippo Volpe. Per la soubrette, invece, non possono esserci dubbi: la preparazione e lo stile di Nory Morgan sbaragliano ogni rivale. Ma meritano egualmente una menzione: Annamaria Ghiani, Valentina Romy, Mirabella Albani, Silvana Palmer, Grazia Cori, Wilma Zavart, Lily Wilma, Luciana Valli, Anna Galento. Sono da ricordare invece come buoni attori: Ennio Baronti, Lamberto Berti, Gianni Andreis, Nino Gaeta, Sergio Paoli, Renato D’Alberti, Franco Berni, Pino Fiorelli, Enzo Romei. E come buone attrici: Jole Silvani, Elettra Romani, Jole Testa, Viviana Larice, Franca Stabile, Ida Nicelli, Bianca e Mimma Rizzo. Una citazione particolare merita il fantasista Valdemaro. Soubrettine degne di attenzione sono: Georgina Rubens, Leila Pisano, Adriana Candiani, Mirka Bottin, Manuela Campari. (...)

Quali risultati ha ottenuto l’avanspettacolo, negli ultimi anni? Quali “epurazioni” ha realizzato? Sono domande tristi, sono risposte che non consolano. Come nelle vecchie farse “militari”, la consegna è di russare; nessuno osa, si continua ad andare a rotoli. Si legge perfino, su un quotidiano di Milano, che tutti i guai derivano dalla “inetta insofferenza del pubblico”. Si legge, e non si capisce: la chiarezza, certo, non è una opinione. Ma che c’entra il pubblico?

Qualcuno ha portato in avanspettacolo, come vedette, Pinuccia Nava; qualcuno ha fatto diventare soubrette la piccola Tonini, che in una rivista di qualche anno addietro era deliziosamente smarrita. Si continua inoltre ad insistere sul nome di Tino Scotti, sul fascino di Carla Bertellini, su Fanfulla che riprende i vecchi copioni di don Michele Galdieri. A selezionare, nessuno provvede. A rifiutare, nessuno è buono.

È una condizione precaria, di libertà provvisoria, con lo Stato che continua a tacere. Tutti maledicono, nessuno rinnova; tutti imprecano, nessuno crea. In ottobre, con la nuova stagione, riascolteremo le solite spaventose facezie del solito spaventosissimo Margal, rivedremo in Galleria le stesse facce, torneremo a sentir parlare di disagi, di riposi forzati, di paghe non sindacali.

Valdemaro annunzia un viaggio nel Sudamerica e Alina Kay insiste in spettacoli che hanno ancora un senso di dignità scenica. Nory Morgan dichiara sdegnata che vuole abbandonare le scene e Aldo Tarantino cerca una soubrette per ritornarvi. Lucio Flauto dice che, quest’anno, sbalordirà il mondo e Wilma Zavart si fa rimorchiare da Trottolino. Annamaria Di Giulio fa la cura per dimagrire e Romano Villi suda dinanzi alla bilancia. Nelly Zoi sogna e Grazia Cori veglia. Elettra Romani studia di notte la Gerusalemme liberata e Carlo Nanni ha l’incubo di somigliare a Rascel.

Per la nuova stagione, saranno in lizza da sedici a venti compagnie. Quante, di esse, arriveranno al traguardo dei tre mesi? Roma offre due spettacoli al giorno (tre alla domenica) con paghe di fame, Milano ha tappezzato l’unico locale utile, il teatro Smeraldo, di striscioni gialli che, promettono restauri. Torino ha ancora tre roccaforti, e Genova altrettante. Ma per il resto? Ci viene alla mente, ancora una volta, il racconto di una sosta lunga e pensosa in una stazione: ordini superiori. Succede.

Gli affossatori hanno perfino il coraggio di lamentarsi. Ma nessuno pensa che Fredo Pistoni rifà Charlot da vent’anni, che la “sedia” di Piero Pieri è coeva della marcia su Roma, che il Nerone di Alfredo Adani è già maggiorenne. Il repertorio, questo sconosciuto. C’è, al posto degli autori, una sparuta pattuglia di copisti. Certi sketches, certi doppisensi, certe barzellette, sono ormai vergogna nazionale. Il solito autore che si definisce boccaccesco ed è solamente scurrile, sforna cinque o sei copioni all'anno.

Il numero è potenza, ma rivedute e scorrette sono ancora di scena le auliche scempiaggini di Maldacea, le cadenti vignette del “Marc’Aurelio”. Ricco di attori e di attrici, di coreografi e di musicisti, di lestofanti e di ballerini, il teatro di avanspettacolo ha il difetto nel manico, come si dice: i signori che firmano le locandine sono tutt’altro che autori. Tuttavia non dispiacciono ai signori impresari e ai signori collocatori. Il più delle volte, se non proprio il cervello, mettono a loro disposizione il portafogli. Si dà quel che si può.

Ignazio Mormino


Vita dell'avanspettacolo

Accanto a palazzo Capranica, da tempo Ugo gestisce una trattoria aperta per gli ultimi moicani del varietà. Se per caso ci si capita dopo aver trascorso la serata all’Altieri o allo Jovinelli, si resta come incantati dallo stupore. Il tenore che un’ora fa nel suo impeccabile smoking aveva emesso suoni dolcissimi — quasi lacrime di coccodrillo — a proposito di passioni senza domani, oppure aveva languidamente gorgheggiato sulle grazie birichine, o sull’amore di mamma, ora si presenta come un giovanotto napoletano con leggera tendenza alla pinguedine, che divora alici crude all’olio e limone, sfilandone in bocca la lisca dalla polpa. La soubrette internazionale e ancheggiante, invano spiritosa negli sketches, invano ballerina nelle danze, invano canzonettista nell’affrontare un ritmo sincopato, nonostante tutto questo simpatica e dagli occhi densi di promesse, qui ha l’aspetto di una brava mogliettina, gli occhi traspaiono puri e chiari, il modo di fare candido e semplice. Sta descrivendo ai compagni le meraviglie dello zoo, vuole invogliarli alla visita. Il comico la ascolta con una certa diffidenza, come un bimbo a cui si offra un divertimento che giudica troppo da bimbo. È molto piccolo, napoletano, vivacissimo. Là, sul palcoscenico appariva diabolico, terremotante. Qui ha l’aria ancora molto giovane, ma istintivamente astuta nella sua professione. La soubrette lo guarda con occhio tenero, gli accarezza il capo. E d’altra parte ne prova soggezione. Per quanto li unisca un vincolo affettivo, al comico, come sempre, viene affidato il peso principale dello spettacolo. Spesso fa anche da impresario, nella piccola compagnia.

La soubrette ne dipende, la donna difficilmente può fare a meno dell’appoggio e della protezione dell’uomo. Più avanzano gli anni, più ne ha bisogno. La giovinezza passa in un lampo alla ribalta, che fa presto appassire. Ugo, l’oste, si avvicina compunto e chiede scusa di non avere ancora assistito allo spettacolo: ne è sinceramente dispiaciuto perché ammira e venera con devozione i suoi clienti. Il Comico si dichiara contento che non l’abbia visto: qui l’ha dovuto tagliare, e poi, per il pubblico dell’Altieri... Domani, riprende la provincia, dove trova una schietta comprensione per la sua arte e per le sue raffinatezze d’interprete. E gli altri della compagnia, coloro che non sono e probabilmente non saranno mai gli ultimi della passerella? Le ragazze del balletto avevano quasi tutte l’innamorato che le attendeva all’uscita, con la vespa o l’auto di seconda mano e l'argentina scura. Oppure la sorellina minore. Solo alcune sono rimaste indecise sul da farsi. L’anziano generico pederasta, con la pelle di carta velina, i piedi dolci,

i capelli radi e tirati a lucido, si è allontanato solo solo, forse diretto alle spallette del Tevere. L'altro generico, quello grande e grosso con la voce da contrabbasso stonato si sarà diretto verso qualche osteria a lui familiare. Si sono salutati promettendosi di rivedersi — ancora una volta — l'indomani mattina in galleria.

Il pubblico dell’Altieri — cordiale e bonaccione — formato da ragazzotti già turbati dai primi sogni d’amore, da massaie, bambini e vecchi artigiani, ha applaudito con convinzione, e per nulla al mondo vorrebbe vedere i suoi eroi ridotti al rango di affamati avventori di trattoria. Qualche giovanotto ha lungamente atteso all'uscita, per vedere se riusciva ad attaccar discorso con le ballerine, fingendo di dover bere all’antica fontana che leviga il sarcofago. Non ha poi avuto il coraggio di tentare.

Il palcoscenico — questa scatola risplendente che ci domina — conferisce il fascino e l’abbellimento della finzione a chi ha il privilegio di poterlo occupare stabilmente. L’orchestra sta li sotto a servirlo, le luci vi roteano attorno. Le carni delle ballerine acquistano un luccicore di alabastro che da vicino perderebbero ben presto, scoprendo lividi e stanchezza. Rivelano una linea che la realtà quotidiana ben presto demolirebbe. Lasciano intravedere tesori che non posseggono, virtù di cui mancano. La soubrette passa come una cometa sfavillante: ogni suo cenno prende al laccio gli occhi e il cuore. E il comico sembra inesauribile nelle trovate; trovato l’accordo con gli spettatori — ed egli sa sempre come — li scatena nell’allegria.

In questa Rivistopoli — lo spettacolo dell’Altieri — vediamo un baldo innamorato introdurre l’amico di turno come professore di musica nel collegio femminile (naturalmente) di sua zia, per potersene servire nei suoi illeciti rapporti con un’educanda. La zia diffida, ma, saputo che il giovane professore è stato reso... innocuo dalla guerra, lo assume. Ecco che viene insidiato da un professore anziano, ma di costumi anormali, e ancor più dalle educande che vestono gonnelline succintissime al solo scopo di mettere in mostra — quando appena sculettano — le parti meno nobili, ma non per questo meno apprezzate, del corpo. Il giovane professore insidia a sua volta proprio l’innamorata dell’amico, viene scoperto in flagrante, scoppia lo scandalo... esce la cantante con i successi del festival di San Remo. “È mezzanotte e tutto tace — un’ombra solitaria se ne va...”: e il patetico vuol stringere a tutti i costi la gola.

Più indifferente di tutti resta la cantante stessa, che tra una strofa e l'altra sorride soddisfatta della tragedia. Il tenore a sua volta, pur sconvolto dalle passioni, strizzerà l’occhio al batterista. E le ragazze del ballo per controscena scherzano tra di loro, ridono delle mosse che debbono compiere, non riescono a prendersi troppo sul serio: fanno, come si dice in gergo, una sfacciata burletta, e sussurrano chi sa quali malignità sulla soubrette che si esibisce due passi davanti a loro.

In questo genere di spettacolo i successi si basano sull’abilità, che può essere tanta o poca, ma sa di giungere automaticamente a certi scopi. Sul gioco degli atteggiamenti, degli scherzi, delle salacità. Non si può avere il senso dei propri limiti, ma bisogna aguzzare l’ingegno a scoprire sempre nuovi espedienti, identificare con sempre maggiore esattezza la molla che prende il pubblico per il suo verso e per il suo momento.

Finché non giunge la passerella. Prima la lotta per la precedenza, poi il premio degli applausi, il riconoscimento, il confronto, e la simpatia che si vuole suscitare a tutti i costi. Gli uomini si accalcano fino a quando si chiude il sipario per il film. Sale gremite seguono con ammirazione e con fervore l’avanspettacolo, provando le più diverse emozioni. Si divertono, si estasiano di fronte alle metamorfosi e personificazioni che si operano sulla scena, a questo sorprendente scambio di personalità nel breve respiro dei minuti.

Vito Pandolfi


Riferimenti e bibliografie:

  • http://www.avanspettacolo.com
  • "Follie del Varietà" (Stefano De Matteis, Martina Lombardi, Marilea Somarè), Feltrinelli, Milano, 1980
  • "Non principe, ma imperatore" (Valentina Pattavina), Einaudi, 2008
  • Franco Parenti in "Scena", n.2, 1978
  • Bernardino Zapponi in "Sentimental. Il teatro di rivista italiano" (Rita Cirio e Pietro Favari)
  • Nino Taranto in "Scena", n.1, 1978
  • Tino Scotti in "L’avventurosa storia del cinema italiano, vol. 1", (Franca Faldini - Goffredo Fofi), Edizioni Cineteca di Bologna, Bologna 2009
  • Orio Vergani in "L'Illustrazione Italiana", 1950-1951
  • Mario Sieyès in "Tra scene e ribalte della vecchia Napoli", Libreria Scientifica Editrice, Napoli, 1972
  • Ignazio Mormino in "Festival" ottobre-dicembre 1953
  • Vito Pandolfi in "Copioni da quattro soldi" (Luciano Landi), Firenze, 1958
  • "Tessere o non tessere - I comici e la censura fascista" (Nicola Fano), Liberal Libri, Firenze 1999
  • "Totò, principe del sorriso" (Vittorio Paliotti) - Fausto Fiorentino Ed., 1977