Gli telegrafarono: "sei imperatore!"

Toto-Nobilta

1958 01 26 Grazia Nobilta

Questa laconica notizia realizzò un sogno che l'attore accarezzava da anni e per il quale aveva speso tutti i guadagni della sua brillante attività teatrale e cinematografica. La vita del grande comico alla ricerca di una corona.

Il salone dell'appartamento di viale Bruno Buozzi, dove abita Sua Altezza Imperiale il principe Antonio De Curtis, è lungo quanto un palcoscenico. A passi lenti e faticosi, poggiandosi ora a una sedia, ora a una poltroncina stile « Impero », Totò lo percorre un paio di volte al giorno, e quella è la sua passeggiata. Indossa una veste da camera di seta rossa, gli occhiali neri gli coprono a metà il viso: le luci sono basse e velate, i tappeti alti tre dita attutiscono i passi del principe dei comici (o, meglio, del comico più principe che esista).

Totò sarà costretto a trascorrere cosi buona parte dell'inverno: ancora una volta i suoi occhi non hanno retto allo sfarfallio dei riflettori, al luccichio delle potentissime lampade da scena. Stava girando a Venafro un film accanto a Femandel (La loi c’est fa loi), diretto da Christian-Jacques, quando ha dovuto dire «arrivederci a tutti» e tornarsene a casa. Gli accadde anche l’anno scorso, a Palermo, mentre era impegnato per le ultime recito con la sua compagnia di riviste. Una sera i suoi compagni di scena la videro barcollare, andare a tentoni sulla passerella. E Totò diceva: «No, non vi preoccupate, è una sciocchezza». Si preoccupò, invece, il suo medico privato, ordinandogli un immediato periodo di riposo e una buona cura. L’infiammazione del nervo ottico e lo scollamento della retina non gli permettevano altri sforzi eccessivi, e, soprattutto, gli vietavano di affrontare ancora quelle luci della ribalta che, da una 'quarantina d’anni a questa parte, hanno illuminato le serate del comico napoletano.

1957 Antonio de Curtis 010 L

L’anno scorso, decisamente, fu assai poco propizio per il principe De Curtis: appena giunto a Milano per le recite della rivista «A prescindere...» di Nelli e Mangini, chissà da dove partì la «voce» della sua morte. La notizia in meno di mezz'ora raggiunse tutte le redazioni dei giornali italiani, e i quotidiani di Napoli s'affrettarono a preparare articoli commossi e accorati sulla prematura scomparsa dell’emulo di Gustavo de Marco, della «maschera» Totò. Fu lo stesso attore a smentire la notizia, indicendo una conferenza stampa. Paradossale come Totò spesso sa essere, il comico fece telefonare dal suo segretario ai giornalisti milanesi pressappoco in questi termini: «Il principe vi attende per domani nel suo albergo, per dichiararvi, parola sua d’onore, che non è morto e che, almeno per il momento, non è nemmeno il caso di parlarne...»

Totò si presentò puntuale all'appuntamento stringendo in pugno un robusto corno di corallo rosso. «Non è vero, ma ci credo», disse riferendosi alla sua mania superstiziosa. E poi aggiunse : «Però, a leggere tutti i telegrammi di condoglianze che mi sono giunti debbo riconoscere che mi ha fatto piacere scoprire come tanta gente mi voglia bene. A prescindere, sono proprio contento... ».

L'uomo di caucciù

E quando mai Totò non è stato contento di qualche cosa? Anche nei periodi più oscuri e più sfortunati della sua vita, Antonio De Curtis ha sempre trovato la maniera per sentirsi felice di quello che gli capitava intorno. Molti hanno parlato di una « malinconia » di Totò, di una sua vena triste e nostalgica: non è vero. Totò, innanzi tutto, è comico per conto proprio; fa il comico per un teatro tutto suo, personale, che è quello delle mura di casa sua. Del resto, il primo spettatore della sua arte è stato lui stesso, quando a cinque anni, in una casa modestissima d’un popolare rione napoletano dove spesso la miseria bussava all'uscio, Totò recitava dinanzi a uno specchio scrostato, inventando strane smorfie, creando lazzi e buffonerie che un giorno avrebbero fatto ridere le platee di tutta Italia.

Totò si divertiva, a Napoli, quando per un paio di lire a sera - ancora ragazzino e senza un filo di barba - cantava macchiette sul palcoscenico del teatro Partenope. alternando le sue prestazioni con quelle dell’« Opera dei pupi ». Più tardi, si divertì al teatro Apollo, recitando drammoni all'antica, se non addirittura sacre rappresentazioni. Sono centinaia e centinaia di episodi di questo primo periodo, che dimostrano come Totò si divertisse con se stesso. Aveva 17 anni, nel 1918, quando per la prima volta venne a Roma per presentarsi al pubblico dell'« Orfeo » in un limitatissimo repertorio che culminava in una macchietta di Gigi Pisano intitolata Fifirino. La sera del debutto, nessuno rise: si udirono solo singhiozzi convulsi, che finirono per riscaldare la compassata platea. Era Totò, che, ogni volta, alle battute finali di Fifirino, non poteva fare a meno di scoppiare a ridere.

Totò cominciò la sua carriera imitando l'uomo di caucciù Gustavo de Marco, per tre lire a sera. Più che le parole, contava la mimica, l'espressione del viso, la « smorfia » che mandava in visibilio gli scugnizzi napoletani e i « regazzini » romani che accorrevano al richiamo del giovane comico; e, più che comico, si trattava di un contorsionista, di un fantoccio, di una specie di dinoccolato Pinocchio, sempre pronto a improvvisare sul ritmo del tamburo o della grancassa. Prevenendo la musica jazz, Totò diede enorme importanza alla batteria. Il batterista era il suo miglior « compaire », che sottolineava le sue boccacce, i suoi salti, i suoi contorcimenti.

Totò cominciò cosi a poco a poco a conquistarsi le simpatie del pubblico degli altri teatri romani. Il suo nome andava sempre più ingrandendosi sui manifesti, ma dovettero trascorrere diversi anni prima che il comico venisse ospitato su un palcoscenico del centro di Roma. Il percorso dalla periferia a via della Mercede, dove sorgeva il tempio dell’avanspettacolo, la Sala Umberto, fu lungo e spinoso : ma Totò vi giunse in ottime condizioni di spirito, allegro e buontempone. ed ottenne un notevole successo. Alla Sala Umberto, da Maria Campi ad Anna Fougez, da Ettore Petrolini ad Odoardo Spadaro, i più grandi « numeri » dell’epoca avevano ricevuto il crisma della celebrità. Adesso era la volta di Totò. Tuttavia, stava per accadere un imprevedibile capovolgimento: mentre nasceva, con Totò, un grande comico di varietà, in Italia il varietà moriva lentamente senza speranze di salvezza. Una parola nuova, « rivista », già cominciava a fare il giro dei camerini e dei corridoi dei palcoscenici. Che cosa sarebbe accaduto? Totò non si perse d’animo: dapprima fece coppia con Isa Bluette, poi con Angela Ippaviz, poi (questa volta con una «sua» compagnia) scritturò Hilde Springer e la monumentale Gioconda da Vinci, ed infine lanciò una giovanissima soubrette, che già s’andava imponendo per la sua voce e una sua grazia tutta particolare: Clely Fiamma.

C'è da domandarsi, a questo punto, come mai Totò, che nel 1934 era uno degli attori meglio pagati e più richiesti del momento, abbia deciso di diventare « capocomico », e cioè proprietario delle sue compagnie: la risposta è abbastanza semplice. Totò s’era stancato di sentirsi sfruttato: molti impresari avevano accumulato ricchezze utilizzando il suo nome. Ora, aveva deciso di lavorare in proprio. E poi, c’era ancora un altro motivo: Totò, che non aveva mai prestato eccessivo interesse ai guadagni e al danaro, ora sentiva di averne assoluto bisogno. E non gli bastavano più gli acconti o le buone paghe: voleva disporre di cifre considerevoli per realizzare un sogno che. da qualche tempo. era diventato sempre più insistente.

Totò voleva un titolo nobiliare. Ma non uno di quei diplomi in pergamena che s’ottengono per poche migliaia di lire. Totò voleva risalire alle origini del suo cognome, e sapere qualche cosa di preciso sui suoi antenati, sulla sua famiglia. Appena in possesso d’una certa somma di danaro, nel 1935, Totò si rivolse a un avvocato per chiedergli consiglio. L’avvocato Gaetano Bizzarro, napoletano come lui e suo vecchio amico, si mise subito all’opera per compiere quel delicato lavorìo di ricerca che doveva durare cinque anni.

In questo periodo. Totò fu avvicinato da ogni sorta di truffatori: una volta sparsasi la voce che il comico era un appassionato impenitente d'araldica, alla ricerca di un titolo nobiliare, furono in molti a bussare alla sua porta per proporgli ora un'adozione, ora un marchesato, ora un cavalierato. Totò non respingeva subito queste offerte, ma ne discuteva con gli interessati, spesso ospitandoli per intere settimane negli alberghi dove lui abitava, e ancora più spesso facendoli viaggiare al seguito della compagnia, a sue spese. Ogni momento libero era sfruttato per ìa lettura di oscuri documenti, di polverose pergamene. Nel 1936 Totò divenne marchese di Terziveri, optando per uno degli alberi genealogici messi a sua disposizione, in attesa che l'avvocato Bizzarro concludesse la sua indagine. Ma per Totò era sempre troppo poco.

Una volta stava per diventar duca, ma qualche buon amico gli fermò in tempo la mano già pronta a firmare un patto di adozione : accadde a Palermo, nel 1937. Un duca a corto di quattrini, fornito d'un albero genealogico ragguardevolissimo, propose a Totò di adottarlo. Il vecchietto fu accolto dal comico con amor filiale e banchetti succulenti: un Papa, tre o quattro cardinali e vari capitani di ventura si dondolavano, appesantiti dalla gloria, ai rami dell’albero eccezionale. Solo alla fine, Totò pensò di chiedere informazioni sul conto del duca che già aveva cominciato a chiamare « papà ». Purtroppo, di vero non esisteva che una fame atavica, veramente nobile, la cui origine si perdeva nel corso dei secoli.

Salvato da un film

Tutte queste spese non servivano certo a irrobustire il suo bilancio. Vi furono periodi di penuria, di incertezze e di paurosi deficit. Ma il marchese di Terziveri non se ne dava per inteso: sulla sua vecchia berlina nera, aveva fatto dipingere la corona marchesale, e così giungeva in teatro scortato da un servo, divertendosi un mondo nell’osservare le occhiate esterrefatte dei suoi compagni di scena ancora in attesa della paga.

Il cinema venne a risollevare le sue finanze: «Fermo con le mani» fu il suo primo film, ideato e sceneggiato da Guglielmo Giannini.

Il pubblico accolse con viva simpatia questo strano personaggio tutto mosse e tutto scatti, che faceva roteare gli occhi dinanzi alla macchina da presa, e che muoveva la mascella come uno stantuffo di locomotiva. Dopo Fermo con le mani di Giannini, uscì «Animali pazzi» di Achille Campanile, che nel 1938 divertì tutta Italia. Tuttavia, fu il 1940 che segnò il successo definitivo, in ogni campo, di Antonio De Curtis. Per il teatro, si ebbe la felice unione con Anna Magnani. Le recite al teatro Valle di Roma della rivista «Volumineide» di Michele Galdieri costituiscono ancora oggi una delle pagine migliori del nostro teatro comico-musicale. Nello stesso tempo, Totò interpretò per il cinema quel «San Giovanni decollato» che, a distanza di circa diciotto anni, ancora oggi vien proiettato nelle sale di periferia. E, quindi, sempre nel 1940, arrivò la splendida notizia, comunicata telegraficamente a Totò dall’avvocato Bizzarro: sei imperatore.

Dopo lunghissime indagini, infatti, Antonio De Curtis poteva senz'altro insignirsi del titolo di marchese, senza bisogno di adozioni o d’altro. L’avvocato rintracciò anche i documenti comprovanti la discendenza in linea diretta maschile dalle famiglie di origine imperiale dei Griffo e Focas, il diploma comprovante il titolo di Conte Palatino, quello con il titolo di Cavaliere di Gran Croce dell'ordine Costantiniano, ed infine le pergamene comprovanti il diritto di fregiarsi del titolo di Sua Altezza Imperiale, con la corona principesca.

Molti rivali, aspiranti allo stesso titolo, insorsero contro Totò: ma il Tribunale di Roma, un paio di anni or sono, sancì definitivamente i diritti del principe De Curtis, chiudendo in suo favore una istruttoria aperta nel 1941 e i cui fascicoli avevano fatto il giro delle cancellerie giudiziarie di mezza Italia.

Totò ha trascorso di recente un periodo di completo riposo. Franca Faldini, che lo ha aiutato a passare serenamente le sue giornate di convalescenza, non ha fatto che ripetergli: « Non preoccuparti, ritornerai a lavorare ». Ma da una certa smorfia che si leggeva sul viso di Totò, sembrava che le stesso comico non ci credesse molto. A passi lenti, percorreva un paio di volte al giorno il salone del suo principesco appartamento ai Parioli. Dalle pareti, occhieggiavano bonariamente i ritratti dei suoi antenati. Ne ha comprati un'infinità, scegliendoli con cura presso gli antiquari di tutta Italia. Spesso li chiama per nome, e di tutti conosce vita morte e miracoli. Una volta, indicando a Vittorio De Sica un vecchio gentiluomo settecentesco incorniciato d’oro antico, si lasciò sfuggire con noncuranza: «Povero zie Vincenzino, era tanto buono... ».

Alessandro Porro, «Grazia», 26 gennaio 1958


Grazia
Alessandro Porro, «Grazia», 26 gennaio 1958