Con Macario e Totò i fascisti ridevano verde

1991 Toto Macario

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Prima della guerra non fu il cinema dei telefoni bianchi ma quello di comici vecchi e nuovi che prendevano per i fondelli il Duce e i gerarchi a fare la parte del leone. Lo si scopre alla retrospettiva di Pesaro. Mussolini però si divertiva solo con Stanlio e Olio.

Il Duce andava al cinema due volte la settimana. O meglio si faceva portare i film nella sua sala privata di proiezione. Il martedì era destinato alla visione dei cinegiornali del Luce, che non essendo stata inventata la Tv erano l’essenziale strumento della propaganda di Stato («L’arma più forte», secondo una fortunata definizione di Benito Mussolini stesso). Si trattava di una lettura attenta e faticosa, e di solito il Duce, che aveva fra l’altro le palpebre delicate (tutto il racconto è ripreso dalla testimonianza diretta di Luigi Freddi, vigile responsabile della Direzione generale della cinematografia, una sorta di ministero speciale per il cinema fondato nel 1934), dopo i servizi del cinegiornale, si ritirava a riposare.

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Più distensivo era il venerdì. Tempo libero permettendo, Mussolini si godeva insieme ai suoi collaboratori «qualche film spettacolare». Era naturalmente attento alle opere di contenuto sociale (propaganda?) ma quando poteva preferiva le storie leggere. «Si abbandonava completamente a certi film comici... senza riserve mentali, senza speculazioni estetiche o filosofiche, senza pretese intellettuali, morali o politiche: si divertiva e basta. Stan Laurel e Oliver Hardy, specialmente, avevano il potere di estasiarlo coi loro lazzi e le loro buffonerie». -

L’attendibile ricostruzione dei gusti personali del Duce, è interessante perché fa emergere una contraddizione. Nonostante l’altissimo gradimento, il cinema comico infatti stenta ad affermarsi nell'Italia del decennio Trenta, quella del massimo consenso del fascismo. Solo alla vigilia della guerra sfonderanno sullo schermo i più originali principi del varietà e dell'avanspettacolo (Macario, Totò), talenti alquanto straordinari a lungo rifiutati dai produttori. Mentre per tutto il periodo prevale la commedia sentimentale e a volte sofisticata, più borghese che proletaria, non necessariamente inchiodata al telefono bianco. Nonostante i sorrisi che essa può suscitare, si tratta di un genere abbastanza lontano dalla comica e dalla farsa. I lavori di scavo e separazione sono ancora faticosamente in corso.

Una nuova occasione di verifica viene ora dalla retrospettiva «Risate di regime», organizzata dalla Mostra internazionale del nuovo cinema appena apertasi (dall’11 al 19 giugno) a Pesaro. Fondata da Lino Miccichè e attualmente diretta da Adriano Aprà, la mostra di Pesaro è una delle più severe e simpatiche d’Italia. Puntando su programmi compatti e pressoché monografici (il piatto forte del '91 è una rassegna sul cinema indipendente americano degli anni Ottanta) offre di solito occasioni di studio e conoscenza; e ha senz’altro le carte in regola per illuminare il nostro passato prossimo, visto che proprio da Pesaro partirono i segnali per una diversa catalogazione del cinema italiano, dagli anni Trenta a quelli Sessanta, attraverso una fitta serie di seminari convergenti.

Curata da Mino Argentieri, la retrospettiva «Risate di regime» offre dunque una quarantina di titoli, dalla celebre Segretaria privata (’31) di Goffredo Alessandrini allo sconosciuto (almeno per me) Apparizione (’44) di Jean de Limur, in cui da quel che capisco leggendo la scheda del fondamentale volume di Francesco Savio Ma l’amore no (Sonzogno ’75), il divo Amedeo Nazzari anticipa in qualche modo l’Alberto Sordi dello Sceicco bianco felliniano.

Spulciando il cartellone mi sembra però di capire che Argentieri non ha neppure tentato quella distinzione di generi che ritengo fondamentale; ovvero la separazione della commedia (metagenere trionfante) dal comico. È già indicativo il film di partenza, appunto La segretaria privata, una sorta di Cenerentola 1931, che col comico c’entra pochino. Sarebbe come confondere oggi Pretty Woman con Mei Brooks. Per di più la protagonista Elsa Merlini, che diventò popolarissima, è una delle più insopportabili presenze della storia del cinema, con le sue mossette esagerate, i suoi occhietti strizzati, le sue detestabili canzoncine («Oh come sono felice, felice, felice!...»). Trattandosi di un discorso sul comico sarebbe stato preferibile un classico eccellente come Il Nerone (’30) diretto dal giovane Alessandro Blasetti al servizio del divo Petrolini.

Proprio il «sovversivo» Petrolini (nel discorso al balcone dell'imperatore romano è evidente la parodia del dittatore) è la prima e autorevole conferma che mentre la commedia è funzionale e omogenea al regime, il comico, quando è d’autore e non degradato, è di per sé ribelle e potenzialmente rivoluzionario. Insomma la segretaria Merlini pone le premesse dell’Italia col distintivo all’occhiello che sogna le ormai proverbiali mille lire al mese; e Petrolini è già una voce di intelligente opposizione.

1910 Ettore Petrolini 02 L

Non casualmente la commedia sentimentale è omogenea alla politica dell’Eiar, nel suo lato leggero, attentamente ricostruita da Abbassa la tua radio, per favore..., un saggio di Gianni Isola uscito in questi giorni (La Nuova Italia editore). Le orecchiabili e dolci sinfonie di Alberto Rabagliati erano l’ideale colonna sonora del cinema italiano di maggior successo e incidenza popolare.

Al di là delle tensioni ideologiche, c'è probabilmente anche una questione tecnica alla base della sfortuna del comico nei nostri anni Trenta. La rivoluzione del parlato sconvolge infatti gli schemi narrativi, non soltanto in Italia. I clown, che erano stati magnifici protagonisti dell’età d’oro del muto, puntando sulle «gag» di ritmo e dazione, si trovano sbalestrati. In America esce dal giro un genio come Buster Keaton, condannato a un precoce e ingiustificato viale del tramonto. E anche Charlot soffre e prende faticosamente le misure di fronte alla nuova scoperta. Ancora nel 1936 dà la voce al suo vagabondo soltanto nel gran finale cantabile di Tempi moderni. E usa finalmente il parlato, con finalità più drammatiche che comiche, nel Grande dittatore del ’39. O ancora l’eccezionale talento di Laurei e Hardy resterà essenzialmente mimico. In tutto il mondo gli unici comici che colgono al volo l’occasione della parola sono i Marx Brothers, guarda caso osteggiati in Italia con stroncature al limite del linciaggio razzista.

In Italia i migliori talenti buffi si difendono col teatro, il mitico varietà di cui restano ormai solo leggendarie memorie. Vengono invece adottati alcuni venerati (ma a parer mio non sempre venerabili) gigioni per palcoscenico meno scapigliato come Armando e Dino Falconi o Angelo Musco. Stentano a trovare il loro film anche i vecchi e i giovani della scuola napoletana, dall’amaro Raffaele Viviani (La tavola dei poveri di Blasetti è però tra le cose da ricordare) all'emergente trio dei fratelli De Filippo.

Il sospetto è che una storia generale del cinema comico italiano, ancora da scrivere, sarebbe una documentazione dolorosa di sprechi e ingiustificati rifiuti. Personalmente avrei una gran voglia di vedere all’opera Guido e Giorgio De Rege (Allegri masnadieri, 1937) che conosco solo grazie alle brillanti citazioni della travolgente coppia Chiari-Campanini negli anni Cinquanta. E sarebbe anche istruttivo ricostruire pazientemente le carriere di alcuni intrepidi caratteristi, che forse avrebbero potuto dare di più. Cito nel mucchio, Nino Besozzi, capostipite dei commendatori da commedia, il «maggiordomo» Franco Coop, il dispettoso Ernesto Almirante, il flemmatico Enrico Viarisio («Ullallà, è una cuccagna!») e naturalmente Sergio Tofano, dolcissimo Bonaventura.

Per ora comunque la situazione degli studi non autorizza clamorosi ribaltamenti critici. Il miglior autore di commedie, il meno convenzionale, quello che nei momenti di grazia più si avvicina agli estri surreali del comico puro, è Mario Camerini. Oltre all'inevitabile (e meno importante) Gli uomini che mascalzoni del 1932 sono assolutamente da non perdere tra le proposte di Pesaro Darò un milione (1935) e quel Signor Max (1937), che ha costituito il modello per tanti comici italiani del dopoguerra da Alberto Sordi a Diego Abatantuono. Resta la curiosità di immaginare cosa sarebbero stati questi ottimi film con un attore più duro e selvaggio rispetto all’elegante, e bravo, Vittorio De Sica.

Ma i due comici che segnano con la loro personalità la fine degli anni Trenta sono Totò e Macario. Totò debutta nel 1937, con un film abbastanza sconnesso, anche per colpa della latitante regia di Gero Zamb-to, Fermo con le mani! Le sue mosse da marionetta snodabile e i suoi travestimenti al femminile (massaggiatrice in un istituto di bellezza) sono già da antologia. Le sue opere successive (Animali pazzi scritto da Achille Campanile del ’39 e San Giovanni decollato del ’40, non incluse a Pesaro) sono per la verità più complete; e la vera esplosione del cinema di Totò avverrà nel dopoguerra, con le scatenate parodie di Mario Mattoli. Ma il debutto del principe napoletano sullo schermo resta un evento storico da onorare.

Il miglior film comico del decennio Trenta mi sembra però Imputato alzatevi! (’37) con Macario diretto per l’appunto da Mattoli. Erminio Macario aveva una faccetta tonda da clown triste con occhi furbi, molto somigliante a Harry Langdon, che peraltro lui non conosceva. Non per niente nei giorni della Liberazione gli americani ribattezzarono Macario «Moon Face» e lui stava al gioco accentuando col trucco il suo naturale pallore. Dopo aver debuttato nel '33 con una novella un po’ troppo lirica e chapliniana (Aria di paese di Eugenio De Liguo-ro), Macario, prima stella del varietà, trova la sua occasione con Imputato alzatevi!, storia di un piccolo infermiere amante degli animali coinvolto in un brutto pasticcio giallo. Il film è unico e importante perché segna il tentativo di portare la sottovalutata cultura dell’umorismo metafisico e surreale (la scuola del Marc’Aurelio e del Bertoldo) nel cinema. Collaborano alla sceneggiatura originalissimi «gagman» come Metz, Giovannino Guareschi e Carlo Manzoni. Erano tutt’altro che «risate di regime»: la storia del grande scialo (ancora in atto) del cinema comico italiano comincia anche da qui.

Claudio Carabba, «L'Europeo», 21 giugno 1991


Grazia
Claudio Carabba, «L'Europeo», 21 giugno 1991