Articoli & Ritagli di stampa - Rassegna 1977



Indice degli avvenimenti importanti nel 1977

Marzo 1977 Franca Faldini pubblica il suo libro «Roma Hollywood Roma. Totò, ma non soltanto»

Aprile 1977 Viene ricordata la figura di Totò in occasione del decennale della morte

Giugno 1977  Esce nei cinema «Kolossal - I magnifici macisti», film di montaggio, con alcuni spezzoni del film «Totò contro Maciste»

Ottobre 1977 Esce nelle librerie il libro di Franca Faldini e Goffredo Fofi: «Totò: l'uomo e la maschera», Ed. Feltrinelli 1977, pag. 272, lire 3000.

 

Continuano le proiezioni dei film che hanno reso famoso Totò, numerosi i dibattiti e le retrospettive Si moltiplicano le iniziative.


Altri artisti ed altri temi


Totò

Articoli d'epoca, anno 1977

Totò: uno, nessuno, centomila

Totò: uno, nessuno, centomila Si può tentare una definizione del più popolare comico italiano 10 anni dopo la morte? Il grande successo che continuano a riscuotere i suoi film sta facendo giustizia di tante polemiche sulla loro «qualità». Ed è…
Alberto Farassino, «La Repubblica», 15 aprile 1977
911
24 Nov 2021

Paolo Villaggio: «abbiamo imparato tutti da lui»

Paolo Villaggio: «abbiamo imparato tutti da lui» Antonio De Curtis, principe di Bisanzio non l’ho mai conosciuto di persona, nè, purtroppo, l'ho mai visto in teatro. Quando sono arrivato a Roma io, dieci anni fa, Totò moriva. L'ho visto mille volte…
Paolo Villaggio, «Paese Sera», 17 aprile 1977
1147

Rievocazioni: il mio Totò

Rievocazioni: il mio Totò Rievocazioni: il mio Totò Il divano-alcova del camerino. Le idee politiche. Semicieco sul palcoscenico. L’incontro con Pasolini. La filosofia. Franca Faldini, la donna che gli è stata al fianco per 15 anni, racconta un Totò…
Autori Vari, «Panorama», 18 ottobre 1977
1432

E adesso ascoltiamo la Faldini

E adesso ascoltiamo la Faldini Ricordo di Totò nel decennale della morte. Dopo i memoriali della nipote e della moglie, ecco la testimonianza della donna che fu accanto all’artista…
Angelo De Robertis, «Gente», anno XXI, n.50, 17 dicembre 1977
1159
10 Apr 2014

Kolossal - I magnifici macisti (1977)

KOLOSSAL - I MAGNIFICI MACISTI (1977) Titolo originale Kolossal - I magnifici macisti Produzione: Euro International Film - Durata 90'La regia è di Antonio Avati mentre la scelta delle…
Daniele Palmesi, Federico Clemente
4500

Totò, la gaia sapienza

Totò, la gaia sapienza Punto e a capo. Franca Faldini e Goffredo Fofi hanno scritto un libro su Totò. Giriamogli un po’ intorno Franca Faldini e Goffredo Fofi: «Totò. L’uomo e la maschera».…
Ruggero Guarini, «Il Messaggero», 26 ottobre 1977, Franca Faldini, Goffredo Fofi
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Prima di diventare la compagna del principe De Curtis l'attrice visse un anno a Hollywood. Un'avventura narrata in un libro. Le serate con Rock Hudson, gay solo in privato La simpatia di Bob Hope, la delusione per divi come Jerry Lewis e Marilyn Monroe.

Paolo Conti, «Corriere della Sera», 19 marzo 1977


Aprile 1967-1977 Dieci anni dalla morte di Totò


MILANO

Peppino De Filippo, tuttora a Milano dove è venuto in tournée con L’avaro di Molière, non è avaro di parole nel ricordare l'amico Totò, compagno di strada e compagno di lavoro, gli anni passati insieme, l'infanzia della carriera a Napoli quando tutti e due erano giovani e poveri e felici, poi la Roma del dopoguerra. Cinecittà, il primo film fatto insieme e l'ultimo: insomma, la vita intera.

De Filippo ricostruisce con ordine. Il primo flashback è nella giovinezza: «Conobbi Totò quando cominciava a lavorare nel "varietà” periferici di Napoli. piccoli teatrini sgangherati. Che anno era? Ma, il 1915, il 1916... chi si ricorda? Totò, che aveva allora sedici o diciassette anni, faceva l’imitazione di un artista che si chiamava Gustavo De Marco e godeva allora di grande fama: era un trasformista, il suo numero consisteva di contorcimenti marionettistici, macchiette, gags. Ricordo ancora dei manifesti per le strade col suo nome scritto grande, anzi grandissimo, e sotto, tra parentesi e in lettere piccolissime: "imitato da Totò". Il fatto è che la stella di De Marco era ormai in declino e sulla sua scia sorgeva invece questo guaglione .

La seconda tappa è Roma. Qui approdano i De Filippo e qui approda, fatalmente, Totò. A Roma c’è il cinema, fioriscono i telefoni bianchi, la fantasia è in letargo per ordine del regime: «Neanche in gioventù — ricorda De Filippo — ho mai lavorato con Totò in teatro. Siamo stati insieme solo sul "set". Totò cominciò a fare del film nel ’38-’39: "San Giovanni decollato" di Angelo Musco, "Totò nella fossa dei leoni"... e altro. Ma non avevano successo. Il successo sarebbe venuto dopo, nel dopoguerra. La gente aveva fame d’evasione, eh sì! C’era bisogno di svago, e la gente correva al cinema, a teatro. Anche noi De Filippo beneficiammo di questo clima, naturalmente. Ma, poi, col passar degli anni, passò l’entusiasmo, i film di Totò non avevano più quel richiamo. Insomma, una sera, nel '54 o '55, me lo trovai, in camerino, al Teatro delle Arti di Roma. Era piuttosto abbacchiato. A tu per tu, in un momento di confidenza, mi disse che le cose non gli andavano più bene. Volevo fare un film con lui?».

Il film, primo di una lunga, vittoriosa (allora) serie pilotata da questo tandem di commedianti partenopei, s’intitolava: "Totò, Peppino e la malafemmina”. La regia era di Mastrocinque; «Bisognava farlo in fretta — dice Peppino — perché io dovevo partire per la America. Ma non avevamo un copione. Totò non arrivava mai sul "set" prima delle due. E le scene si giravano e si inventavano cosi, di volta in volta. Il film incassò un miliardo».

Totò era monarchico: «Eh sì, eccessivamente. Infatti una volta, durante un’elezione, cercò di convincermi a votare per "Stella e corona". La monarchia andò piuttosto male e. ad elezioni compiute, mi chiese a chi avessi dato il voto. "Ho votato comunista gli dissi. Stavamo mangiando sul set, lo ricordo bene. Buttò via tutto. cartocci e bicchieri, gridandomi addosso: "Questo proprio non me lo dovevi fare "».

Totò era un fanatico del sangue blu: «Nell’ambiente, allora, si diceva che Totò avesse come amministratore un marchese decaduto e che da questo marchese si fosse fatto "legittimare".

Poi, pazientemente e con gran dispendio di denaro, andò in cerca delle sue origini e arrivò fino ai turchi. Si scoprì principe, altezza reale. Un giorno mi disse: " Ma tu lo sai che se la Regina d'Inghilterra m’invita a pranzo a me, m'ha da mettere vicino a essa? ". Gli piaceva nominare cavalieri e commendatori, ma a me disse: "A te non ti faccio, pecché mi sfotti "».

Totò era un grande attore, ma spendaccione e principesco, il cinema era il suo pozzo di San Patrizio: «Ha fatto cose bellissime. come Guardie e ladri, come Uccellacci e uccellini, e la sua maschera era e rimane inimitabile. Ma aveva bisogno di denaro e ricordo che spesso mi diceva: "Peppì, pochi e subito". Faceva cinque o sei film all'anno. Il suo cachet era sui trenta milioni. Il fisco lo inseguiva, lo tartassava, pare che a un certo punto Totò gli dovesse 450 milioni. "Peppì — mi diceva — quelli non si pigliano manco quattro soldi". Forse è l’ultima cosa che gli ho sentito dire. Giravamo l’ultimo film insieme. La cambiale, poi non l'ho visto più».

Nell’aprile di dieci anni fa, Peppino De Filippo è a Salsomaggiore con la seconda moglie quando gli arriva la notizia: «Mi telefonarono da Roma — ricorda —: dobbiamo darle una triste notizia: Totò è morto. Fu come una pugnalata al cuore. Rimasi lì muto mentre dall’altra parte del filo continuavano a ripetere: pronto? pronto? Non mi vergogno di dirlo: piangevo nella cornetta e mia moglie che era entrata in stanza in quel momento mi guardava sgomenta e voleva sapere perché piangevo e cos’era quella telefonata. Poi a piangere eravamo In due».

Ettore Mo, «Corriere della Sera», venerdi 15 aprile 1977


Lavorare con Totò era un piacere, una gioia, un godimento perché oltre ad essere quell'attore che tutti riconosciamo era anche un compagno corretto, un amico fedele e un'anima veramente nobile. Ogni giorno il nostro incontro in teatro, mai prima delle 13 (Totò era più nottambulo che mattiniero, mentre io pur rincasando tardi mi svegliavo presto; lui arrivava fresco fresco, leggero leggero, ed io che avevo già sforchettato, pesantino pesantino, dovevo ricorrere a doppi caffè antipennichellistici), dicevo, il nostro incontro avveniva sempre con un abbraccio sinceramente affettuoso e due bacetti, uno di qua, uno di là.

Nel breve tempo che ci preparavamo per la scena da girare, c'era il solito scambio informativo a base di «come te senti?», «hai dormito?» e altre domandine e relative rispostine personali.

Arrivati davanti alla macchina da presa, cominciavamo l'allegro gioco della recitazione prevalentemente estemporanea che per noi era una cosa veramente dilettevole. C'era soltanto un inconveniente, che diventando spettatori di noi stessi ci capitava frequentemente di non poter andare più avanti per il troppo ridere.

Il guaio, però, era che la cosa non finiva lì poiché bastava una battuta nuova, un gesto impreveduto, una reazione inaspettata per dover interrompere nuovamente il dialogo con disappunto di noi stessi che, pur lieti e felici per il divertimento nostro e dei presenti, ci davamo complimentosamente la colpa l'un con l'altro.

Se il regista, visti gli inutili tentativi di sottrarci a queste crisi di fanciullesca irresponsabile ilarità, proponeva di girare due primi piani in controcampo, per utilizzare i pezzi buoni, noi ci impegnavamo solennemente di farIa per l'ultima volta senza interruzione, come si addice a due professionisti seri e consapevoli del costo della pellicola.

Però, non convinti di quanto promettevamo, scoppiavamo in una irrefrenabile risata, cercavamo di giustificare all'attonito regista che il nuovo attacco era soltanto uno sfogo per scaricarci da ogni eventuale pericolo di ricaduta.

Tuttavia, prima di girare cercavamo di rattristarci nominando la nostra età, le nostre tasse e, se in quei giorni era avvenuta la dolorosa scomparsa di un nostro amico, mancato all'affetto dei suoi cari, ricorrevamo anche a questo luttuoso freno. Ma dopo un'espressione di concentrato cordoglio, purtroppo sbottavamo vergognosamente a ridere prima del ciak.

Aldo Fabrizi, «Corriere della Sera», venerdi 15 aprile 1977


Eroe comico d'un Paese che non ha il senso dell'umorismo, erede d'una tradizione popolare in cui la risata è esorcismo, difesa, reazione alla miseria e all’impotenza sociale, faticatore dello spettacolo in trentadue anni di teatro e quasi cento film, adesso Totò conosce un destino curioso. Continua ad avere successo, e comincia ad essere rispettato come un grande. I critici della giovane élite intellettuale ne lodano la gestualità e corporalità, la composizione semantica di contenuti ironici e beffardi, la sublimazione del popolate a metafora e via dicendo. Per i ragazzi è espressione d'una comicità primaria, semplice, antiquata, fisica, incolta: trovano belli i suoi film per gli stessi motivi per cui trovano belli gli zoccoli di legno o le tute da lavoro del passato operaio e contadino.

Prima, Totò era semplicemente un genio del divertimento. Lazzi, sberleffi, macchiette, travestimenti, barzellette, gags, equivoci, situazioni esilaranti, scurrilità, gesti da burattino disarticolato, movimenti scomposti, collo e mento dislocati, piede raspante la terra come un cane che nasconda le vergogne, occhi arrotondati, labbra arricciate, mimica vistosa: i suoi mezzi d espressione, la sua forma comica erano quelli popolari classici.

Il suo contenuto era l'antica fame. Fame eterna di quattrini. Fame di cibo: freneticamente addentava uno sfilatino lungo mezzo metro imbottito con dieci uova sode, un salame, tre bistecche, sei supplì e un mazzo di ravanelli; illusoriamente si preparava, in mancanza d'altro, un panino che era una spugna tagliata in due, farcita di sapone e condita di salsa dentifricia.

Fame di donne: le ragazze al suo fianco erano le sontuose e pastose Isa Barzizza, Franca Marzi, Gianna Maria Canale, Franca Faldini, Elvy Lissiak. Tamara Lees, che rappresentarono per tanti ragazzi degli Anni Cinquanta la prima rivelazione d'una macrofemminilità quasi caricaturale, e che lui fingeva d'accostare stupefatto, abbagliato, incredulo, goloso, in realtà manesco e spicciativo: «La serva serve».

Fame di rispettabilità sociale: ma questa Totò la coltivava soprattutto nella vita privata, facendosi principe e benefattore di bambini o animali, viaggiando su una lunga auto solenne come su un cocchio regale, frequentando «bene», abitando ai Parioli, circondandosi di camerieri e autisti in livrea, amando le onorificenze e i titoli, nutrendo idee reazionarie. E scrivendo poesie malinconiche sulla morte, canzoni, sonetti sentimentali: «Timidamente voi mi prodigate / dell’amor vostro tutta la dolcezza / vent’anni avete, o cara giovinezza / mentr’io ho il doppio della vostra età».

Come tutti i comici, nella vita voleva essere «un signore». Come Charlot, nei personaggi era pavido, prepotente coi deboli, bugiardo, ladro, crudele, rivoltoso. A contrastare le istituzioni gli bastavano uno sberleffo, una battuta. «Siamo uomini o caporali?»: e addio retorica sull’esercito. «Ah, pesciaccio democristiano!», inveiva contro l’orata che gli impediva di spiare attraverso un acquano il sedere nudo della Barzizza: e addio partito di governo. La magistratura? Ecco Totò, falso testimone in tribunale, che all’esortazione del giudice «dica, cos’è accaduto il 24 maggio?», attacca a cantare: «Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio...». I ricchi? Ecco Totò a Capri ridicolizzare con l’anarchia demente dell'imitazione le scemenze mondane e la volgarità milionaria. I potenti? Nel celebre sketch del vagone letto, ecco il morto di fame Totò trattare l’onorevole Trombetta con la diffidenza riservata ai lestofanti, difendere sospettoso il portafogli, rinfacciargli «lei non sa chi sono io», minacciarlo «in galera ti mando»: invertendo i ruoli e rivelandone col paradosso la falsità.

Nei suoi quasi cento film (tra i quali il primo film italiano a colori, appunto Totò a colori), la realtà era presente, ma resa surreale e stravolta dalla comicità. A scorrerne i titoli, si ripercorre certo il costume dell'epoca: Totò cerco pace. Totò cerca casa, Totò al Giro d'Italia, Totò e Peppino divisi a Berlino, Totò Peppino e la dolce vita, Totò sulla Luna, Totò Fabrizi e i giovani d'oggi, Totosexy.

Ma il costume era un pretesto, com'era un pretesto l'appiglio a successi altrui: Totò sceicco, Totò le Moko, Totò Tarzan, Totò terzo uomo. Totò e Marcellino, Totò e Cleopatra. Al di là del pretesto, trionfava la comicità assoluta. Anche nei suoi film migliori, Uccellacci e uccellini di Pasolini, Guardie e ladri di Steno e Monicelli scritto da Brancati e Flaiano, Napoli milionaria di Eduardo De Filippo, I soliti ignoti di Monicelli, Totò non era né si sentiva mai personaggio subordinato: conscio del proprio valore, era certo che la sua presenza bastasse a farne soprattutto « un film di Totò ».

Brutti o meno brutti che fossero i film, il protagonista era lui, e i registi ubbidivano al suo modo di lavorare: non cominciava mai prima di mezzogiorno, non imparava la parte, mai e specialmente negli ultimi anni di scmicecità, recitava a braccio con infallibile sicurezza. Superbo, anche altezzoso, in qualche rarissimo momento d’abbandono si autocriticava: «Sono un venditore di chiacchiere». E aveva torto.

Lietta Tornabuoni, «Corriere della Sera», venerdi 15 aprile 1977


Eravamo coetanei, ci conoscevamo sin da ragazzi. Totò aveva appena due anni più di me, ci stimavamo e ci volevamo bene. Lo chiamai a «Napoli milionaria» il film col quale si affermò definitivamente: avevo spezzato in due la mia parte, la parte che ho nella commedia omonima, per dargli un ruolo adatto. Era cosi felice di venire a lavorare con me, che venne per niente, gratis (i film allora, nel 1950, noi potevamo farli soltanto in grande economia).

Una volta che mi ammalai, mi sostituì, permettendo alla nostra compagnia di mantenere gli impegni. Eravamo a Palermo, nel '21-'22 io recitavo al Teatro Olimpia, un teatro in legno, che ora non c’è più, sulla via Roma, allora abbastanza importante e frequentato; Totò lavorava in un Varietà al Kursaal; stavamo ad abitare in una stessa pensione, in via Camperio, mi ricordo ancora. A quell’epoca mi ero comprato per duemila lire una pelliccia di castoro, col grande bavero lungo e l’interno di castorino, l'avevo acquistata dalla padrona di una pensione, che se l'era tenuta come pegno di un cliente che non si era fatto più vivo dagli anni della guerra. Ce l'avevano anche Ruggero Ruggeri, Antonio Gandusio e i più famosi attori del varietà. La voleva anche Totò, una pelliccia del genere, ma non ce l'aveva. Se la voleva comperare da me e mi propose di darmi in cambio mille lire e il suo cappotto, un bel cappotto di vigogna blu con le maniche a forchetta, come usava.

Io allora, che non avevo cappotto, presi il suo, me lo misurai, stava bene, e gli proposi di scambiarci gli indumenti: quando gli prestavo la mia pelliccia lui mi dava in cambio il suo cappotto, e facevamo enetrambi bella flgura.

Proprio in quel periodo mi ammalai di reumatismi, e Totò che aveva finito il suo ingaggio al Kursaal, mi sostituì al Teatro Olimpia nella commedia napoletana che stavamo recitando. E quando la notte ritornava in pensione dopo lo spettacolo, mi faceva le pezze calde col ferro da stiro, e poi con quelle mi fasciava le braccia colpite dal reumatismo. Poi recitava e cantava le «macchiette» solo per me, me ne ricordo una in particolare. «Il portavoce»: allungava il collo, si dimenava nella mossa del cavallo: io ero veramente un suo ammiratore e distinguevo bene, oltre lo straordinario allucinante personaggio, la precisa intensa satira mimica muta.

Eduardo De Filippo, «Paese Sera», 17 aprile 1977


Sono dieci anni che Totò ci ha lasciati, ma non c’è bisogno di riesumarlo: Totò è vivo; vivo perché i suoi film vivono di eterna giovinezza e sono continua» mente riproiettati. Totò. nel corso della sua esistenza. conobbe due momenti magici: negli anni Quaranta sul palcoscenico del teatro di rivista; negli anni Cinquanta sugli schermi.

Ma, all'inizio degli anni Settanta, sembrò che godesse di un terzo momento magico, invero eccezionale, poiché si trattava di un momento magico «post mortem», che contraddiceva tutte le tradizioni del commercio cinematografico. In base al quale gli attori defunti hanno immediatamente una misteriosa caduta di popolarità.

Quello che sei anni fa non avevamo capito, era che non si trattava di un terzo momento magico, di una folata destinata a passare. Sono trascorsi sei anni e i film con Totò tengono tuttora il cartellone. Ci sono imprenditori che hanno impostato la loro vita su di essi: distributori che si limitano a noleggiare vecchi film di Totò: esercenti che si imitano a proiettarli. Il «Mignon» di Roma è andato avanti in questo modo per anni, tanto vero che sarebbe stato giusto cambiargli il nome e chiamarlo il «Totò».

Solo da un po’ di tempo, infatti, ha smesso, ma rimanendo sempre nel circondario; proiettando cioè film italiani degli anni Cinquanta e Sessanta. Interpretati da altri comici. Tuttavia si tratta di breve licenze, dopodiché torna a Totò, come succede in questi giorni.

Cosi Totò è divenuto un caso anche per la crìtica. Diciamo pure che l’ha messa in crisi. Ricordo che nel 71, quando la stella dell'attore tornò allo zenith, andai a rivedere una di questi pellicole. Si trattava di «Totò al Giro d'Italia», diretto da Mario Mattoli, in cui egli era attorniato dai più famosi ciclisti del 1949: Bartali, Coppi e poi Magni, Kubler, Bobet, Cottur e altri. Oltre al divi del pedale vi apparivano: Isa Barzizza, la maggior soubrette dell'epoca: un Walter Chiari ancora alle prime armi: alcuni esperti attori di teatro, quali Carlo Ninchi, Carlo Mlcheluzzi e Giuditta Rissone.

La genesi di questo film era chiara. Era il momento in cui le vittorie dei nostri assi del ciclismo riuscivano ad allentare le tensioni politiche: Bartali al Giro di Francia gettava acqua sul fuoco appiccato dall'attentato a Togliatti. Magari non era vero, ma si diceva che così fosse ed era questo che contava. Si era cercato, quindi, con un'operazione abituale nel cinema, di sommare due popolarità — quella di Totò e quella dei pedalatori — per ottenere il massimo successo con la minima spesa economica e, possibilmente, anche intellettuale.

Mi domandai perché quella farsa sbeffegglata dal critici, nel '71 venisse ripresentata in una sala d'essai. Credetti di ravvisarne i motivi nella componente assurda, delirante del soggetto (si era ricorsi addirittura al «Faust» di Goethe) e nella stessa rozzezza della fattura, nel suo disprezzo per la grammatica e la sintassi del cinema «professionale», che lo rendeva paradossalmente molto moderno. Scrissi allora testualmente: «Senza offesa per nessuno, a una visione superficiale Mattoli potrebbe apparire un Godard ultima maniera: quello di "Vento dell'Est", per intenderci, dove si diffida dell'immagine e, tanto, la si combatte con tutti i mezzi (Solo che Mattoli non diffida dell'immagine, né la combatte: piuttosto la ignora. Inutile perciò sperare di vedere Totò battere Coppi e Bartall: si dice che li ha battuti e basta: si sentono i due ciclisti ripetere, come uno slogan: "Come si fa? E' troppo bravo: vince sempre!”)».

Oggi andrei più in là e mi schiererei decisamente dalla parte di Mattoli, «rivelato» da Totò. Cosi come del Carmine Gallone dei «Due orfanelli» e dello splendido Carlo Ludovico Bragaglia di «Totò-le-Mokò», tanto superiore alla sua fonte d'ispirazione, il «Pepè-le-Mokò» di Duvivier, cosi come Totò è più bravo di Jean Gabin. Vorrei però approfittare dell'occasione per lanciare un appello. C’è un capolavoro con Totò, mai rivisto, perché non si ritrova il negativo, dicono. Si chiama «Totò e i re di Roma», è diretto da Steno e Monicelli, sceneggiato da Dino Risi e Ennio De Concini sulla traccia di due novelle di Cechov: «La morte dell’impiegato» e «Esami di promozione».

Un Totò molto travet che, quando muore, non avendo soldi per il funerale, si mette un fazzoletto in testa e s'incammina verso il cimitero a piedi, attorniato dai quattro figli, ciascuno con un cero in mano. Stupendo! Chi ne sa qualcosa: chi possiede una copia positiva del film, si faccia vivo: nell'interesse suo e del cinema.

Callisto Cosulich, «Paese Sera», 17 aprile 1977


«Paese Sera», 17 aprile 1977


«L'Unità», 17 aprile 1977


Peppino Armentano, callista, decide di cambiar casa e finisce in un ex bordello tra le risate dei vicini; un domestico sgomina una gran quantità di agenti segreti per mettersi in contatto con lo sceicco El Buzur; un ladruncolo ruba una valigia alla stazione e vi trova dentro un cadavere; un reduce dalla Russia dato per disperso ritorna e trova il letto matrimoniale occupato ma si l'assegna a trasformarlo a tre piazze. Le avventure di Totò riproposte in una breve retrospettiva di quattro film al cinema Rivoli offrono da alcuni giorni ai giovani «e a chi giovane non lo e più» l'occasione di scoprire (o di ritrovare) il nocciolo della comicità di quest’attore morto dieci anni fa dopo avere interpretato la bellezza di centoventiquattro pellicole.

1977 05 09 Corriere della Sera Retrospettiva Toto f1Totò in «Arrangiatevi» di Mauro Bolognini. film girato nel '59 dopo la famosa legge Merlin che aboliva le case chiuse. E' appunto in una ex casa di piacere che Totò va ad abitare, a sua insaputa, dando il via a una divertente serie di equivoci. Girato da Bolognini, il film e interpretato anche da Peppino De Filippo, Franca Valeri, Laura Adani, Vittorio Caprioli.

1977 05 09 Corriere della Sera Retrospettiva Toto f2Totò in «Che fine ha fatto Totò baby», altra parodia di un film di successo. Nei panni di un ladruncolo. l'attore ruba una valigia alla stazione e vi scopre un cadavere che decide di portare in campagna per abbandonarlo. Incontra però due autostoppiste con una valigia uguale. Accanto a Totò ritroviamo un altro comico napoletano Pietro De Vico.

Oltre ad «Arrangiatevi» (1959) di Mauro Bolognini che ha aperto la rassegna, sono in programma nell’ordine «Totò d’Arabia» (1965) di Antonio Della Lama, «Che fine ha fatto Totò Baby?» (1965) di Ottavio Alessi, «Letto a tre piazze» (1960) di Steno. Il prezzo di 1500 lire fa pensare, come si accennato prima, che l’iniziativa sia rivolta in particolar modo ai giovani, oggi molto attratti dall’ormai mitico attore dopo che i critici hanno aggiustato il tiro sulla sua importanza «politica» finora sottovalutata o apertamente negata.

1977 05 09 Corriere della Sera Retrospettiva Toto f3«Totò d'Arabia», secondo film della rassegna al Rivoli, è una parodia di un famoso film di David Lean. Totò deve at traversare una serie di peripezie nel deserto infuocato per raggiungere lo sceicco El Buzur, circondato da trenta mogli gelose e da seducenti spie. Diretto nel '65 da Antonio Della Lama, il film ha tra gli interpreti. Nieves Navarro e Mario Castellani.

1977 05 09 Corriere della Sera Retrospettiva Toto f4«Letto a tre piazze» (1960) di Steno e il film che concluderà la rassegna dedicata a Totò. E' la storia di un reduce dalla campagna di Russia che al ritorno trova la moglie sposata e si adatta al compromesso suggerito dal titolo. Con Totò recitano Peppino De Filippo e Nadia Gray. Nella foto l'attore posa accanto a un ritratto di Stalin.

Goffredo Fofi, uno dei maggiori esperti italiani di Totò, ha spiegato che i film del principe De Curtis erano «anarcoidi» dal momento che egli si permetteva di scherzare su tutto, dal bambini ai soldati, dalle mamme ai morti. Secondo Fofì, autore di un libro dedicato al comico, quella di Totò è una riscoperta che nasce da ragioni sociologiche, politiche ma anche artistiche. «I Totò di oggi ha scritto — anziché ridere fanno piangere. Gassman è sempre il solito piccolo borghese aggressivo e reazionario. Manfredi l’esaltatore di un passato agreste e bucolico con velleità bergmaniane. Sordi l’identikit della piccola borghesia romana. Villaggio e Pozzetto lo squallore televisivo.

R. S., «Corriere della Sera», 9 maggio 1977


«L'Unità», 1 luglio 1977


1977 06 05 La Stampa Kolossal R intro

Roma, 4 giugno.

In principio era Cabiria, tanta cartapesta e i muscoli di Bartolomeo Pagano, detto Maciste. Poi i bicipiti sullo schermo ebbero una lunga crisi ideologica. Le braccia possenti e gli sguardi fermi, generosi, si misero a servizio del «regime» trasformandosi in eroi di guerre antiche o contemporanee, meno preoccupali dell'ampiezza del torace che dell'esaltazione dei principi nazionalistici e dei destini imperiali nell'Italia fascista.

I nipotini diretti di Maciste ricomparvero soltanto negli Anni 50, in pieno boom economico, post bellico. Arrivavano in massa dall'America come i dollari del Piano Marshall. Si chiamavano Steve Reeves, Gordon Scott, Lex Barker, Mike Hargitay, Gordon Mitchell, Ray Danto», non contava che sapessero recitare: la scrittura era un problema di sviluppo anatomico. Un autentico trionfo di «plasmoniani» modellati sull'immagine di «Superman». Ai muscoli che venivano d'oltreoceano, noi contrapponemmo i seni prorompenti e le solide natiche di una nuova generazione di attrici mediterranee. Diventarono presto popolari i nomi di Sophia Loren, Gina Lollobrigida, Rossana Podestà, Daniela Rocca, Chelo Alonso, Sylvia Lopez e tante altre figuranti dal futuro meno brillante. Avevamo inventato le «maggiorate». La cornice spettacolare dove agirono queste rotonde incarnazioni delle speranze e della fantasia popolare fu fornita dal kolossal storico, in costume, sul ricordo di Cabiria. Mentre lo slancio della speculazione edilizia stava mostruosamente allargando le periferie delle grandi città secondo disumani piani urbanistici di sfruttamento, Cinecittà allestiva a getto continuo sofisticate architetture di cartapesta con eleganti colonnati, portali sbalzati, interni ampi e luminosi, affreschi, statue, scalinate, piazze, templi, stadi secondo una visione di grandiosità e bellezza classiche da offrire in gratificazione al pubblico prima del ritorno all'abitazione-alveare. Ercole è il più impegnato; sforna avventure in serie.

Ma ci sono anche Maciste, Sansone, Ursus, gli eroi omerici, i centurioni romani, i martiri cristiani, i gladiatori, i condottieri, gli imperatori, i faraoni e gli apostoli. I temi sono quelli della forza, del coraggio, dell'audacia, in una concezione ottimistica del mondo dove l'amore e i buoni sempre trionfano, anche tra catastrofi sconvolgenti. Sono i miti di un benessere gonfiato come i muscoli degli eroi cinematografici, che dopo un breve periodo di grande successo (kolossal autentici e minikolossal di recupero se ne fanno a decine), scomparvero ai primi cenni di una crisi che imponeva un atteggiamento più realistico anche nel campo dello spettacolo. Dalle Fatiche di Ercole a Elena di Troia a Gli ultimi giorni di Pompei ad Arrivano i Titani, il prolifico filone offre ai sociologi un ampio materiale di studio ed agli appassionali di cinema prelibate occasioni di indagine sull'impiego degli stereotipi. Spinto da questi due propositi e dall'incasso (due miliardi) del suo primo film di montaggio Un sorriso, uno schiaffo, un bacio in bocca, Enrico Lucherini, press-agent romano di prima grandezza, sta lavorando ad una nuova antologia cinematografica ricavata dall'esame di almeno cento pellicole storico-spettacolari-fantastiche. «Il titolo sarà Kolossal, gli eroi di Cartapesta — spiega Lucherini —. Dopo C'era una volta Hollywood i film antologici stanno attraversando un momento di moda.

1977 06 05 La Stampa Kolossal R f1

A Cannes ne è stata presentata un'intera rassegna con il titolo di " Il passato prossimo ". Alcuni erano prodotti raffinatissimi per una élite di intenditori: tutti i pugni del cinema americano, le scene più famose del western. Io ho cercato di dare al lavoro un taglio storico oltre che specialistico. Con gli spezzoni dei film, monteremo anche brani di cinegiornali d'epoca e una voce fuori campo come commento ironico e realistico. Dopo tre mesi di ricerche ho raccolto ma¬ teriale per circa sei ore di proiezione: si dovrà ridurlo ai novanta minuti classici di un film. Mi aiutano Antonio Avati, fratello del regista Pupi, e Maurizio Costanzo che curerà il parlato. Il costo complessivo si aggira intorno ai 200 milioni». Il viaggio tra i supermuscoli del nostro cinema parte cronologicamente da Scipione l'Africano e risale fino ad Arrivano i Titani di Duccio Tessari (1962), dove già si avvertono i primi forti segni critici della parodia del genere.

Ci saranno i primi esempi di cinema catastrofico (Pompei, Troia, Ercolano, Gomorra), le danze in veli maliziosi di Chelo Alonso, Belinda Lee e Anita Ekberg, le orgie consentite dalla censura d'epoca, il seno nudo di Clara Calamai nella Cena delle beffe, i discorsi antifemministi delle amazzoni e delle matrone, da Maria Fiore a Dorian Grey a Joan Collins che volevano soltanto maschi dalla forza bruta. In contrappunto, dalla fantasia del colore al realismo del bianco e nero, appariranno i brani dei cinegiornali: Mussolini che fa agli italiani lo stesso discorso di Scipione l'Africano, il Concorso per Messalina vinto da Maria Felix, la rassegna dei costumi della Loren per il Cid, Andreotti in visita sul set di Cleopatra con Liz Taylor. «I film più brutti sono i più irresistibili — dice Lucherini — Ce ne sono di Gallone, Freda, Cerchio, Sergio Corbucci, e anche di Blasetti. Ho visto quattro pellicole al giorno per tre mesi.

La maggior parte appartiene alla Euro che produce " Kolossal ". Un materiale eccezionale. Bisognerebbe riproiettarli tutti nei circuiti normali, penso che il pubblico si divertirebbe alla follia». Ci sono i primi Sondokan con Steve Reeves, la Lollobrigida nella Regina di Saba, Ornella Vaironi in Romolo e Remo, Virna Lisi, Tina Louise, la Podestà con Sernas e la Bardot in Elena di Troia, Alberto Lupo con la Panaro in Le Baccanti e Edy Vessel, ora signora Crociani, che dice al muscoloso compagno «Patroclo, scappa, scappa, perché lo scandalo ci travolgerà». E il commentatore: «Ora è scappata lei». Non c'è pericolo di querele? «Se è gente di spirito non dovrebbe offendersi. Comunque sono allenato a questo tipo di inconvenienti. Per Un sorriso uno schiaffo un bacio in bocca ho dovuto sostenere 36 cause fatte da attori che vedevano il loro prestigio professionale intaccato dal film. Le ho vinte tutte». La prima di Kolossal è annunciata per l'inizio della prossima stagione. Lucherini ha in mente di lanciarlo con una festa nello stile della materia trattata. Proiezione in una grande palestra romana, pranzo con camerieri in costume romano ed esibizione di alcuni cuulturisti italiani che esporranno i loro supermuscoli al confronto con i loro colleghi di vent'anni fa.

s. cas., «La Stampa», 6 giugno 1977


KOLOSSAL (film di montaggio, cinema Colosseo). La nostra pagella. Realizzazione di Antonio Avati (7) da un'idea di Enrico Lucherini (7). Commento di Maurizio Costanzo (7). Giudizio complessivo: 7.

Se è vero che una società fa il cinema che più le assomiglia, com'era fatta l'Italia che ha partorito negli anni Cinquanta e ancor prima (durante il regime) gli ercoli, i centurioni, i templi di cartapesta e gii altri ingredienti dei kolossal? Scegliendo fior da fiore tra 115 pellicole appartenenti a questo inesausto filone, Enrico Lucherini e Antonio Avati hanno lasciato intendere — e il commento di Maurizio Costanzo non manca di sottolinearlo qua e là — che gli italiani avevano trasferito sugli schermi una voglia matta e inconfessata di grandezza e di prosperità.

Lo si capisce fin dalle prime sequenze. L'identificazione tra cinema e società è esemplificata benissimo nelle sequenze di «Scipione l'Africano»", nel parallelismo tra gii sproloqui di Annibale Ninchi vestito da antico romano e la facondia dei duce al fatidico balcone Dai ventennio si salta in fretta agli anni Cinquanta con le Gianna Maria Canale, le Tina Louise, le Chelo Alonso, le Dorian Gray poppute e sensuali che prefiguravano gli anni del «boom» o addirittura ne erano un simbolo palpabile. Salvo ritornare repentinamente alle star degli anni 30 o 40 Elisa Cegani, Clara Calamai (a seni scoperti nella storica «Cena delle beffe», Isa Miranda.

Il procedere di questo «Kolossal» è dunque un pò tortuoso, a zig zag. Anziché in ordine cronologico si e preferito andare per accostamenti suggestivi. Niente di nuovo, s'intende. Già una cinquantina d'anni fa Esenstein aveva inventato il «montaggio delle attrazioni» e Dziga Vertov dimostrava che si poteva creare un racconto coerente montando insieme frammenti ripresi in luoghi ed epoche differenti.

Il divertimento in tal modo è (quasi sempre) assicurato. Le informazioni che ci vengono date su questo o quei film sono invece pochine. Alcune pellicole erano, già all'epoca in cui vennero girate, dichiaratamente parodistiche. Il commento dissacratorio di Costanzo non sembra distinguere con chiarezza tra ciò che è volutamente ridicolo e ciò che non lo è. La parodia della parodia lascia un pò frastornati, il concetto di kolossal si dilata e kolossal anche Agostina Belli in lacrime ne «La sepolta viva»? E' kolossal anche Totò alle prese con il Corsaro Nero? La materia è vasta, e tutta da scoprire, il seguito potrebbe arrivare con la prossima puntata se, com'e probabile, questo film di montaggio viaggerà col vento in poppa nelle classifiche degli incassi

Roberto Serafin, «Corriere della Sera», 27 agosto 1977


«L'Unità», 30 agosto 1977


Cesare Zavattini ricorda l'attore in un volume a lui dedicato.

Tutto il periodo del teatro degli anni Trenta, direi che non mi interessava — certo non quanto da ragazzo, mi aveva appassionato il variété. Qualche rivista, certo... C'era Galdieri, che ne faceva un sacco, ma non le condividevo. La rivista alla Galdieri contraddiceva tutta la creatività del variété italiano. Galdieri, se faceva prendiamo «Orlando furioso» con Totò, con le ballerine, le scene, questo e quello, e tante filastrocche poeticistiche... reggeva; ma questo non vuol dire niente, era superficiale, piccolo-borghese.

Vassoio stemmato

Come si salvava Totò? Si salvava perché inseriva sempre dentro lo spettacolo qualche suo testo. Questo ha un’importanza non comune, perché non c'è pericolo, erano brutte cose, e quando più non sembravano brutte, tanto più lo erano. Pareva che si elevassero a un certo tono che dava a Totò un valore che altrimenti non avrebbero avuto, mentre invece il suo valore lo aveva intatto laddove respingeva tutto quest'altro materiale. Il suo sketch era lì, si poteva sempre dire: «facciamo tre sketch di Totò, e siamo a posto» ; ma l’immaginazione di quelli che lo manipolavano era un vero disastro.

Io avevo cominciato a contattare Totò, e poi siamo diventati amicissimi, ma Totò non era trattabile in quanto non aveva logica... Stava volentieri a chiacchierare con me chissà di che cosa (mi ricordo che quando in viale Parioli 41 ci serviva vino o caffè, lui in persona, su un vassoio d’argento stemmato, poi lo riponeva sull’étagère pulendolo con il gomito), ma poi usciva e se Guglielmo Giannini gli offriva una cosa la faceva perché seguiva certi criteri pratici, senza mai amministrarsi mentalmente, culturalmente, intellettualmente. Ma era di tale qualità che tutti lo volevano, perché funzionava sui pubblico, e cosi lo prendevano mescolando il buono e il cattivo, in un gran casino, cosi che non era facile scegliere il loglio dal grano.

A Milano feci una grossa campagna per Totò, nei primissimi anni Trenta, perché i miei amici mal andavano a vedere questi spettacoli, mai andavano al Trianon, io invece ci andavo per via dei residui del mio vecchio amore per il variété. Insomma, a un certo punto dico: «Totò, tu sei il mio uomo!» e scrivo Totò il buono. E sarebbe andato magnificamente bene, ma non c'era rispondenza effettiva nell’ambiente per prendere Totò in forza in quel modo li. Ho avuto forse la più grande occasione della mia vita, quando Capitani mi offerse di fare il regista di San Giovanni Decollato con Totò, perché il povero Zambuto non era più in grado. Ma io non ne ho avuto neanche per scherzo il coraggio. Dio sa cosa sarebbe accaduto!

Per avere Totò con me me lo sono associato, mi sono fatto rilasciare una sua dichiarazione, per avere anche verso la produzione una carta in mano. Questo nel ’35, già per Darò un milione di Camerini. Ma la produzione non se la sentì, io feci di tutto, e il soggetto era un bel soggettino, una cosa molto cinematografica, con una buona idea in cui si mescolavano dentro da Frank Capra a Charlot e a Clair e alle comiche e alla mia natura. E anzi avevo proposto a Camerini anche Keaton, ma Camerini non li volle, né l’uno né l’altro. Voleva la commedia senza rischi.

Era l’ambiente intorno che preferiva un Totò di un certo genere, e lui. pur rendendosene spesso conto, si lasciava però preferire cosi. Preso in un’isola deserta. senza le influenze dell’ambiente, capiva tutto, e si sarebbe riusciti a fare certe cose. Ma ci voleva l'isola, le circostanze. E a un certo punto non lo vidi neanche più, perché fu preso nel vortice dei film e degli spettacoli. Quando ci fu la possibilità del San Giovanni Decollato, non osai farlo io, subentrò Palermi. e ci sono in quel film una cosettina o due, si intravvedono delle possibilità di Totò che potevano essere sviluppate. Palermi, intendiamoci, era bravissimo, ma nel suo ordine di idee.

In un certo senso c’era in me una polemica aperta, sempre, tra il mondo della rivista e il mondo del variété. Io ero sempre dalla parte del variété, e era quello il Totò che preferivo. Restava l'avanspettacolo con attori ancora straordinari: i De Rege, per esempio. Macario era molto mediocre, Camerini era bravissimo, ha fatto due o tre film di una compitezza... commediole equilibratissime. ma tendeva alla commedia, mentre io alla «comica finale» portata in grande.

Il timbro

Per Darò un milione oltre Vittorio De Sica prese Almirante per fare Blim, si figuri... mentre io vedevo per quella parte un Macario, che valeva dieci Almirante, perché era meno realistico. Taranto mi piaceva, siamo stati molto amici, ma si fermava presto, gli nuoceva una napoletanità un po' scoperta, provinciale. Totò non era provinciale. era un fatto astratto, irripetibile. Ho visto due o tre sketch, che non credo siano raccogligli neanche nei testi perché erano tutti inventati, a soggetto. Penso al Pazzo... Totò vi camminava come le mosche, quasi sui muro. Totò nel Pazzo faceva cose che solo un pazzo può fare. Si arrampicava su una quinta oltre ogni legge fisica. E nel Timbro inventava ogni volta un modo di timbrare un foglio di carta contro tutti quelli, in crescendo, che glielo volevano impedire. Per esempio il capufficio per sottraiglielo definitivamente si metteva il timbro nei taschino; Totò. con una mossa fulminea, sbatteva il foglio di carta contro la testa del timbro che sporgeva.

Gli spettacoli di Galdieri, invece, si salvavano solo con gli Inserti fuori copione di Totò. [...] L'umorismo italiano non era poi che nascesse da una pietra, improvvisamente. C’era nel mondo questo po' po' di fatti, che intanto si chiamavano Charlot, e le comiche anche prima di Charlot, con valori inventivi che sono stati o abbandonati o male adoperati o non sviluppati, ma che contengono già i filoni nel quali dobbiamo dire che noi abbiamo più o meno assorbito. E c’era in Italia la grandissima tradizione del variété, che e-ra un terreno di sperimentazione innovazione continua, mentre nel teatro «ufficiale» c'era la noia dei Novelli... Anche da noi, la collusione varietà-letteratura-cinema, avrebbero potuto dare molto di più di quello che ha dato, perché avevano qualcosa di comune su cui lavorare. Pensiamo a un Bontempelli e a un Savinio, legati con un loro cordone ombelicale a certe sperimentazioni dello spettacolo, a Petrolini stesso, che si fotté quando si avvicinò al teatro borghese, credendo di diventare più bravo, con un errore che fanno quasi tutti.

Cesare Zavattini, «Corriere della Sera», 14 ottobre 1977


(Dal nostro invialo speciale) Roma, 19 ottobre.

Totò diceva che di mattina non si può far ridere e faceva mettere sui contratti che sarebbe arrivato sul set dei film alle due del pomeriggio. Pigrissimo, dormiva di giorno e la notte andava a spasso o girava per casa a chiudere i rubinetti del gas e a spegnere gli interruttori della luce. Il più grande avvenimento della sua vita fu quando lo riconobbero principe. Lo angosciava la sua faccia brutta, lo ossessionava la paura del tetano e della «congestione»: sosteneva che non bisogna avere rapporti sessuali prima di quattro ore dai pasti se no «il sangue viene richiamalo da altre bande e si rischia brutto». Superstizioso e pieno di pregiudizi, sensibilissimo e timido, non leggeva un libro, non viaggiava mai. «Io ricordo Antonio de Curtis — scrive Franca Faldini — ogni volta che ad una riunione di "signori", mi accorgo che lo sono solo di nome e non di fatto, come lo era lui».

Benché credesse poco alla propria grandezza, previde che un giorno lo avrebbero «riscoperto». In mezzo al fiume di parole che costituisce adesso il suo revival, c'è da oggi fresco in libreria, per l'Universale Economica di Feltrinelli, un «Totò, l'uomo e la maschera», collage di vecchio e nuovo firmato da Goffredo Fofi, uno dei suoi più attenti studiosi, e dalla Faldini che racconta i propri «quindici anni con Antonio De Curtis» in ottanta pagine singolarmente ricche di umiltà e discrezione.

Perché le ha scritte? «Per la grandissima rabbia di quello che si è detto di lui e anche di quello che non si è detto». E perché a tanti anni di distanza? «Appena ho potuto raccontare quello che volevo e come lo volevo. Dal '67, quando è morto, mi hanno offerto cifre favolose solo perché "vendessi" "La mia vita con Totò". Non lo avrei fatto a nessun prezzo anche se avevo bisogno».

Poiché non era mai stata sua moglie, la «vedova» di Totò non toccò nulla del patrimonio «non poi così grande di Antonio che amava spendere, era tallonato dal fisco e nei lunghi anni delia cecità potè lavorare poco». Avevano fatto credere di essersi"sposati quando aspettavano il bambino che subito mori; erano stanchi di sentirsi tenuti ai margini, respinti. «Perché allora la società, a qualsiasi livello, non accettava certe unioni senza reagire. E' cambiato poco anche adesso». Ragion per cui Franca Faldini, qualche anno fa, si è sposata davvero con Nicolò Borghese, ancora un principe, con cui vive serenamente tra una casa di campagna vicino ad Arezzo ed un pied-à-terre a Roma.

Quando Totò morì aveva 36 anni, era molto bella e lo è tuttora. Si mise a lavorare sfruttando l'inglese, americanizzato a Hollywood quando a diciotto anni era andata con un contratto della Paramount e in seguito ad un sondaggio tra i soldati in Corea l'avevano eletta «Miss Torta di Formaggio». Cominciò a fare traduzioni, diventò giornalista e continua. «Fu un periodo duro, soprattutto perché avevo il vuoto attorno, scomparso Totò tutti scapparono. Mi criticavano perché non ero piombata nel lutto. Ma è proprio da lui che ho imparato a rimettermi in cammino. "Quando un dolore ti piomba addosso, perché distruggersi? — diceva —. Nessuno ha il diritto di diventare una caricatura nel monumento alla memoria di qualcuno"».

Vivo, non avrebbe ammesso distrazioni: chi stava con lui, doveva dedicarsi a lui. Si conobbero che Franca aveva 22 anni, Totò 55 e gli era fallito un matrimonio. «Mi affascinò trovare una "persona" invece di un "personaggio". Cominciammo subito a parlare; così continuò per quindici anni, il nostro fu un lungo, interminabile colloquio». Fece un po' l'attrice «ma non sapevo prò- N prio recitare ed era avvilente stare con un grande artista essendo un'artista cane, mi sentivo una specie di accattone sullo stomaco di tutti quando Antonio mi fece fare qualche porticina nei suoi film. In palcoscenico sono salita un paio di volte, solo quando c'era bisogno di sostituire qualcuno». Un sacrificio completo della propria vita, strano per una donna che poi ha trovato giusto e irrinunciabile lavorare e sentirsi indipendente. «Il problema allora non si pose poiché c'era già abbastanza da fare per stare dietro a lui. Certo Antonio aveva una concezione vecchia e assurda dei rapporti con le donne, eppure la nostra vita di coppia fu bellissima e anche aperta. La sua immagine preferita sarà stata la donna oggetto, la bellezza da addobbare e portare a spasso come un fiore all'occhiello ma poi si interessava e voleva bene a chi gli teneva testa; io polemizzavo di continuo, cominciò a chiamarmi Ravachol, un nomignolo inventato che suonava vagamente anarchico. Sapevo che, in fondo, mi ascoltava e aveva stima di me».

Vennero poi gli anni della malattia agli occhi, lunghi e dolorosi, ma che Franca Faldini non rimpiange perché, «Ira le molte cose che devo a Totò c'è una filosofia dell'esistenza, un modo di accettarla che ho imparato proprio in quel periodo difficile». Sarà stata questa saggezza, la serenità distaccata di un uomo quasi vecchio che sapeva e voleva distinguere tra «le chiacchiere del guitto» e le responsabilità della vita, a «tener» così a lungo una ragazza giovane, sana, intelligente e dagli occhi blu? Ride: «Ma no, per quanto assurdo possa sembrare, a me Totò è sempre piaciuto moltissimo come maschio». Forse con il passare del tempo ha dimenticato quanto era brutto? «Era brutto — acconsente con tenerezza — ma solo se lo guardavi da un tato. Dall'altro aveva un profilo regolare, normale, sembrava addirittura bello. Glielo dicevo, qualche volta». Franca Faldini è stata davvero una buona compagna.

Mirella Appiotti, «La Stampa», 20 ottobre 1977


La vita del comico e i testi degli sketch.

Franca Faldini e Goffredo Fofi: «Totò: l'uomo e la maschera», Ed. Feltrinelli, pag. 272, lire 3000.

In questi ultimi dieci anni, dopo la scomparsa di Totò, c'è stato un vero e proprio revival della sua straordinaria arte mimica, che ha toccato sia una parte della critica (che invece era stata molto severa, lui vivente, nei suoi confronti), sia più ancora un vasto settore del pubblico cinematografico, soprattutto giovanile. Cicli ampi e articolati di film interpretati da Totò sono stati immessi di forza nei programmi dei circoli del cinema o delle sale d'essai, riedizioni frettolosamente approntate di vecchi film sono comparse nelle sale cinematografiche normali, la stessa televisione si è occupata del caso.

Fra coloro che con maggiore attenzione e profondità si sono interessati all'analisi crìtica dell'arte di Totò troviamo Goffredo Fofi, il quale già nel 1972 aveva da.to alle stampe un bel libro di documenti e testimonianze su Totò, da tempo esaurito, e nel 1976 aveva curato una interessante antologia di suoi testi teatrali (Il teatro di Totò, ed. Il Piùlibri, Milano, L. 10.000), che ebbe purtroppo poca diffusione. Ora, in questo nuovo libro edito da Feltrinelli, Fofi riprende il discorso critico di cinque anni fa, lo arricchisce di qualche nuovo documento, riproduce i testi teatrali più significativi, e lo fa precedere da un lungo scritto biografico-memoriale di Franca Faldini, che per quindici anni visse al fianco del grande comico. Ne risulta un volume sostanzialmente rinnovato, che si legge con grande diletto e consente di riaprire un problema critico di non facile soluzione: la vera natura dell'arte comica di Totò e le ragioni suo successo popolare duraturo, anche in campo cinematografico, attraverso una abbondantissima produzione di film di scarsissimo valore artistico e spettacolare.

Il testo della Faldini, che si intitola «Quindici anni con Antonio de Curtis», vale essenzialmente come testimonianza diretta sull'uomo, il carattere, le abitudini, i pensieri, le manie, persino l'ideologia (o l'assenza di ideologia); quello di Fofi prospetta invece una serie di proposte interpretative suggestive, anche se non tutte accettabili, che, ripercorrendo dall'interno la carriera cinematografica di Totò, ne mettono in luce alcune caratteristiche fondamentali. L'uno e l'altro. pur essendo semplicemente accostati, interagiscono fra loro nel senso che si illuminano reciprocamente, fornendo sull'uomo e sull'artista una vasta massa di dati d'estremo interesse per la definizione d'un attore, nella cui attività arte e vita parvero fondersi e invece rimasero sostanzialmente separate. Conservatore e piccolo-borghese, ancorato a una visione reazionaria, o forse solo qualunquistica, dei rapporti sociali, amante del «buon tempo antico» e critico severo d'ogni novità, Antonio de Curtis fu un uomo del passato, chiuso in se stesso e nel suo piccolo mondo provinciale. Totò invece, nella disarticolata frenesia della sua recitazione asintattica, nel gusto irridente per lo sberleffo, nel piacere della beffa o anche soltanto del riso aperto e canzonatorio, fu una maschera dei tempi nostri, il cui potere distruttivo nei confronti dell'assetto sociale borghese fu grande, nonostante i limiti obiettivi in cui fu costretto ad agire (soprattutto nel cinema). Questa antinomia fra la vita e l'arte, fra il perbenismo della prima e la positiva volgarità della seconda, rimane un problema aperto, che questo libro non riesce a risolvere appieno.

Anzi, dalle varie pagine autobiografiche raccolte, il dissidio appare ancor più evidente, ed è lo stesso Totò non soltanto a rendersene conto ma a dichiararlo esplicitamente. Ma un altro problema critico desta la nostra attenzione: come sia rimasta intatta la sua straordinaria vis comica negli oltre cento film da lui interpretati, quasi tutti superficialissimi e bassamente commerciali, e come questa vis comica, pessimamente servita da testi qualunquistici e rivistaioli, si riscatti sul piano d'una critica non superficale del comportamento umano e sociale. E' questa l'arte di Totò, questo il superamento di quell'antinomia arte-vita, che fa di lui uno dei massimi attori del teatro e del cinema italiano.

Gianni Rondolino , «La Stampa», 28 ottobre 1977


Dice Franca Faldini: fu un uomo misantropo, geloso e dispotico

Franca Faldini e Goffredo Fofi TOTÒ: L'UOMO E LA MASCHERA Universale economica Feltrinelli, Milano 289 pagine, 3000 lire

Totò lo conoscono tutti. Ma come fosse fuori dalla scena e dallo schermo il principe Antonio De Curtis, a metà discendente dalla famiglia Griffo Focas Comneno di Bisanzio e metà dal rione Sanità di Napoli, a pochissime persone è stato consentito di saperlo. Solo il cugino Edoardo Clemente, la prima moglie Diana Bandini, la figlia Liliana, la Castagnola (un'attrice che si suicido per lui), un paio di amici blasonati, forse la sua «spalla» Castellani certamente Franca Faldini, che fu compagna inseparabile del grande comico napoletano negli ultimi quindici anni della sua vita, dal 1952 al 15 aprile 1967, giorno della morte. Franca Faldini, quarantaseienne, ora principessa Borghese, ha deciso, dopo 10 anni, di raccogliere in una specie di diario fantastico l'esperienza privata, domestica, intima con l'attore.

Divisa in quindici capitoli immaginari, uno per ogni anno di convivenza, appare l'altra faccia, l'altra anima, di Totò. Non è un'indagine, privilegiata dalla familiarità, del personaggio artistico e della sua potente vis comica, ma la radiografia interna, sincera e un po' impietosa, della persona Antonio De Curtis. Chi viveva dentro la maschera di Totò, che cosa c'era sotto l'involucro pirotecnico detta marionetta che si esibiva sulle scene? La risposta detta Faldini è pura, precisa: Antonio era un misantropo, piccolo borghese, maschilista, donnaiolo, pigro, pantofoliere, spaventato dotto spettro detta povertà che conobbe amara nella gioventù e per reazione generoso donatore di quattrini, introverso, orgoglioso, diffidente, geloso, dispotico, insicuro, privo di una cultura nozionistica che gli creava non piccoli complessi Il principe De Curtis, in privato, non amava troppo la maschera plebea di Totò e forse non ne capiva tutta la grandezza e la profondità, anche critica, dell'Italia di allora. Disdegnava i salotti, la mondanità e più di ogni altra cosa le persone che, fuori dal palcoscenico, gli chiedevano di far rivivere Totò.

Cera un forte distacco tra l'uomo e il «suo alter ego scenico» e «sempre lo scisse da sé» come fosse un estraneo invadente. Soltanto di rado gli capitava di ammettere: «Beh, si bisogna proprio convenire, Antonio De Curtis è il magnaccia di Totò. Lo tratta come un fetente e lo costringe alla fatica, ma certo se non fosse per quel povero pupazzo, U prìncipe avrebbe l'acqua perennemente nella pipa e si e no si permetterebbe il lusso di un panino». Il rione Sanità e Bisanzio lo spaccarono a mezzo, lascandogli una forma di alienazione che spesso gli causava stati depressivi e di ipocondria. Passava la notte insonne a fumare, bere caffè e scrivere poesie in dialetto napoletano. La mattina dormiva sempre; nei contratti cinematografici chiedeva di cominciare il lavoro solo il pomeriggio. Quando non aveva impegni sul set o in teatro, passava intere giornate in casa, magari vestendosi di tutto punto, ordinando all'autista di tenersi pronto e rinunciando poi sulla soglia alla passeggiata. Il capitolo con le donne è ricco, vario, forse il più, negativo.

Egoisticamente latino, le trattava come animaletti di lusso, con scarsa stima e scarso rispetto. Salvo poche eccezioni, come la lunga unione con la Faldini, il «diario» offre al lettore una carriera di libertinaggio tumultuosa e poco edificante. Rispettava le donne che sapevano tenergli testa e polemizzavano con lui; pare, però, che ne abbia incontrate pochissime. Il dottor Jekyll e mister Hyde si sono invertiti i ruoli: qui il personaggio inventato era positivo, la persona reale negativa, o almeno con i difetti di tanti uomini comuni Totò-De Curtis fu veramente così? Lo sdoppiamento, la scissione che avveniva dentro di lui tra la casa ai Parioli e il palcoscenico furono proprio tanto nette? Franca Faldini in quindici anni di vita comune fuori dall'esplosione dello spettacolo lo ita visto così e nessuno, forse, più di lei ha mezzi per verificare o discutere questo «ritratto in un interno familiare». La bombetta di Totò continua a rimanere il segno di una grande e generosa comunicazione comica, ma la corona principesca di Antonio De Curtis sbalza fuori con cupe e poco simpatiche ossidazioni Il libro, insieme con un interessante repertorio fotografico, raccoglie anche un saggio di Goffredo Fofi, «totologo» ormai senza rivali, un repertorio del teatro di Totò, alcune sue poesie, articoli e canzoni, un'antologia di giudizi sull'arte del comico napoletano. Ma si tratta di materiale quasi già tutto edito.

Sandro Casazza, «La Stampa», 29 ottobre 1977


«Tra le pareti di casa nostra, molti politici della epoca avevano un soprannome, e con questo erano sempre indicati da lui», riferisce Franca Faldini in Totò, l'uomo e la maschera, il bel libro scritto insieme a Goffredo Fofi sul comico indimenticabile con cui visse tanti anni. Totò, pare, dava soprannomi ispirati all’aspetto fisico a Berlinguer, detto Stantio; ad Andreotti, detto l'Aspirante Sagrestano; a Francesco De Martino, detto 'O cane ’e presa, «ovverosia il molosso napoletano». Il soprannome più bonariamente irrispettoso era per il Papa: «Paolo VI, che puntuale la domenica si affacciava benedicente al balcone, era l'Orologio a cucù». Il soprannome più eccentrico era per la senatrice Lina Merlin, promotrice della legge che aboliva le case di tolleranza: «Attribuendole la recrudescenza dei crimini sessuali, Totò la chiamava Signora Omicidi».

«Corriere della Sera», 15 novembre 1977


Il quarto personaggio dell'altra sera a Bontà loro è stato Totò. Da vivo, probabilmente, malgrado una reciproca affettuosa amicizia, avrebbe declinato l'invito, tanto era schivo e poco incline a mostrarsi in pubblico invece, attraverso le parole di Franca Faldini, la donna che gli è vissuta accanto quindici anni, ha comunque partecipato alla trasmissione. Persino Gassman che a dirla tutta, non è incline al turbamento, su Totò ha mostrato qualche cedimento.

Vittorio Gassman è arrivato puntualmente, come sua abitudine, con un abito fumo di Londra da cerimonia. Baglione, il piccolo imprenditore piemontese (dodici operai e una squadretta di calcio), era in velluto a coste larghe e senza cravatta. L’aveva buttata sul disinvolto. La Faldini mostrava grande paura e lo diceva. «Ho sempre paura anch'io — incoraggiava Gassman, galantemente — Alla “prima” di Affabulazione non ho mai smesso di avere tensione ed è una cosa che non mi era mai capitata». Baglione forse aveva la stessa paura, ma occupandosi per destino di cementi refrattari non riteneva giusto far entrare il suo disagio in quello, più artistico. della Faldini e di Gassman. Probabilmente pensava, con qualche ragione, che l’unico ad avere un po' d'angoscia dovesse essere proprio lui, disabituato al riflettore e alla telecamera.

Nello studio accanto si stava registrando qualcosa con Carmelo Bene. L’attore si aggirava nei corridoi «Dovrebbe venire a Bontà loro — ha suggerito Gassman — i farebbe una riuscita sicura». E' intervenuto il cameraman Forconi: «Si, e quando la finiamo la trasmissione?. E’ vero, l’imprevedibilità di Carmelo vanifica gli orari di chiusura. Comunque, sarà bene pensarci.

Gassman era accompagnato dalla moglie e da Carlo Molfese, l’accorto organizzatore del Teatro Tenda. Durante le prove delle telecamere, mezz’ora prima dell’inizio, l’ospite che lo ritenga opportuno può guardarsi nel monitor per giudicare la propria immagine, magari per star seduto in un modo o in un altro. Piacentini, il playboy, si era osservato con scrupolo e affetto. Gassman ha rifiutato la prova, come aveva rifiutato un po’ di trucco per attutire il bianco dei riflettori. «Le rughe della vecchiaia aiutano e fanno simpatia», aveva spiegato alla truccatrice. Nel ricordo conservava la partecipazione a Bontà loro di Marcello Mastroianni. Me ne ha parlato prima di cominciare. «Una bella puntata, e poi Mastroianni era sincero, era vero: arriva l’età nella quale bisogna cominciare a parlare». Non ho capito se era un giudizio sull'intervista a Mastroianni o se, piuttosto. un incitamento a se stesso ad imboccare la stessa strada. E ancora: «Due parolette vanno dette, parole che non appartengano però al repertorio consueto, perché la televisione è diversa, non è né cinema né teatro, in teatro il pubblico tl incoraggia comunque quando appari, ma alla televisione con questa macchina sulla faccia che ti fruga...» Non ha proseguito il discorso, non era tranquillissimo. Conclusa la trasmissione, Baglione, l’imprenditore, andava offrendo Gattinara a tutti. I tecnici hanno molto apprezzato. Anche la Faldini che continuava però a raccontare episodi della vita di Totò. Ancora sulla porta di via Teulada si parlava di certe pellicole girate in quattro settimane; del sogno mai raggiunto di Totò di girare un film muto: nessun produttore in quegli anni gli diede credito.

Il lunedì si registra in altro studio una trasmissione per i giovani che amano la musica, il ballo e quelle cose lì. Mentre noi indugiavamo al cancello hanno cominciato ad uscire a gruppi ragazzi vestiti e truccati come noi immaginiamo i giovani quando ascoltano una certa musica in certi locali. Al confronto sembravamo archeologi alta ricerca di amicizie, sensazioni, atmosfere sopite. Il primo allarme lo ha lanciato proprio Gassman dicendo: «Attenti diventiamo macchiette». Un incubo che lo ha accompagnato spesso nella puntata, che è entrato sovente nei discorsi. Mi rifiuto di credere che Gassman tema la giovinezza altrui ma sono proprio convinto (e poi c’è poco da esser certi, lo ha dichiarato) che sia angosciato dalla propria vecchiaia. Un malessere da superare con il bicchiere, come ha detto. Flaiano spesso ripeteva: «Da vecchio sarò l'onta del quartiere...».

Maurizio Costanzo, «Corriere della Sera», 16 novembre 1977


Altri artisti ed altri temi

1977 Radiocorriere TV Carlo Croccolo intro

A colloquio con Carlo Croccolo, conduttore alla TV (Rete 2) del programma di quiz «Il borsacchiotto». Dopo l’exploit cinematografico di Pinozzo, che fini alla lunga per danneggiarlo, ha lavorato oltre dieci anni all'estero. Ora à tornato al teatro e al cabaret

Roma, maggio

Nella sigla finale del lo spettacolo di varietà del sabato Bambole, non c'è una lira, di Antonello Falqui stilavano, quasi una ideale passerella finale, le immagini che in un certo periodo furono quasi emblematiche per quel tipo di teatro che per comodità di comprensione si definisce «leggero». Insieme ad Anna Magnani, Fabrizi, Totò ed altri, inquadrati negli atteggiamenti più significativi di qualche loro personaggio di successo, ad un tratto si scorgeva un soldatino quasi grottesco, ai limiti del reale, con i pomelli arrossati e lo sguardo non certamente dell'aquila; la foggia della divisa piuttosto abbondante non gli conferiva la marzialità che la fantasia è solita attribuire all'eroe coraggioso vincitore di cento battaglie, tutt'altro; ricalcava invece all’apparenza quel timido, sfortunato marmittone, che dalle pagine del Corriere dei piccoli ci tenne compagnia negli anni nostri verdissimi.

Chi ha già parecchie primavere sulle spalle, chi per intenderci, visse in età di ragione guerra o dopoguerra, ricorda quel soldatino imbambolato che invece della baldanza offriva fiori e chiedeva qualche sorriso, uscito com'era da un mondo senza generali che muovevano all'attacco. Si chiamava Pinozzo ed il volto, sono ormai trascorsi circa trent'annni, glielo prestò Carlo Croccolo. E con molto successo a giudicare dai numerosi film che immediatamente conquistarono il mercato, poiché i produttori, scoperto il fortunato filone, ci proposero in tutte le salse l'imbranato fantaccino.

Oggi, smessi da tempo gli abiti di Pinozzo, ritrovo Croccolo negli Studi del Centro di produzione di Napoli: è il conduttore-presentatore di Il borsacchiotto, il nuovo programma di giochi a premi di Chiosso e D'Ottavi.

Non è cambiato molto da come lo ricordo ai tempi del Liceo Vico, quando Luigi Compagnone lo «iniziò» ai misteri del microfono e noi tutti un poco stupiti ma anche ammirati per il «collega» che faceva l'attore a Radio Napoli. Gli stessi capelli rossicci, scarse le tracce degli anni trascorsi e forse solo lo sguardo un poco più pensoso sebbene non sia mal stato quello che a Napoli si definisce un «ammuinatore». In fin dei conti — mi precisa — quel lontano exploit cinematografico. anche se lo convinse a lasciare Napoli per dedicarsi esclusivamente alla nuova attività, non si rivelò del tutto propizio, il personaggio era senza dubbio genericamente qualunquistico. «Ma una cosa è certa: per chi era passato attraverso certe esperienza: di distruzioni (ricordi che andando a scuola il biancore calcescente delle case sventrale ci feriva gli occhi?), di morti, di tedeschi, l'unica esigenza pressante era di dimenticare le guerre e le divise e perciò allora cercai di addolcire la difficile necessità di sopravvivere».

1977 Radiocorriere TV Carlo Croccolo f1

— Ma dopo non si è sentito più parlare di Carlo Croccolo.

— In realtà sono stato lontano dall’Italia. Pei circa dieci anni in America ho fatto teatro d’avanguardia, teatro naif, il produttore e il regista alla televisione canadese. Ho fatto i commercial (i nostri Carosello) e finanche il fotografo. E non ho dimenticato Napoli, quella vera, non quella delle cartoline: ho realizzato in maniera quasi onomatopeica l'atto unico di Ernesto Murolo O mercoledì d'a Madonna do Carmine. Mi capivano tutti, finanche i cinesi! Rientrato in Italia ho partecipato a degli spettacoli televisivi e qualche anno fa, nel ‘67, ho messo su una società di produzione televisiva per western spaghetti.

— Sebbene mi sembri notevole il bagaglio di esperienze che per tutto questo tempo hai accumulato nel campo dello spettacolo, non credi che oggi qualsiasi modo di contatto con la platea richieda un impegno che comprenda la problematica dei nostri giorni?

— Chiamami pure qualunquista, ma se impegno vuol dire dilettantismo o poltrona sicura io sono contro l'impegno. Pensa poi se c’è la malafede o la strumentalizzazione’ Guardo certi intellettuali che dopo aver predicato restano sempre in una situazione di comodo. Per quanto mi riguarda voglio ricordarti che alla radio ho esordito sul Terzo Programma col Teatro dell'usignolo di Franco Rossi e più recentemente, oltre agli spettacoli di cabaret alla Campanella, ho interpretato al Belli di Roma Elogio della pazzia di Erasmo da Rotterdam con la regia di José Quaglio, L'impegno! Una cosa poi che per me è fondamentale e sintomatica è che noi le nostre esperienze anche brucianti le abbiamo vissute mentre alcuni giovani di oggi le teorizzano soltanto.

— Torniamo al Borsacchiotto: sai bene che le trasmissioni a quiz finiscono sempre col legarsi ombelicalmente al loro presentatore. Cosa li proponi di ottenere con questa tua?

— Solamente divertire e ristabilire il contatto con il pubblico che ne è anche protagonista: sento di potergli dire ancora molto, forse chissà anche da dietro la macchina da presa.

s. b., «Radiocorriere TV», 1977


«La Stampa», 5 gennaio 1977


7 gennaio 1977 - La scomparsa dell'impresario Remigio Paone - Tutta la cronaca in rassegna stampa


1977 06 01 La Stampa Giuditta Rissone morte intro

Roma, 31 maggio.

1977 06 01 La Stampa Giuditta Rissone morte f1Giuditta Rissone è morta verso le 10 di stamane, in una clinica di Roma dove era ricoverata da qualche giorno. Le era vicina la figlia Emy, nata dal matrimonio con Vittorio De Sica. Accanto alla sorella, sono accorsi Manuel e Christian, i figli che De Sica ebbe da Maria Mercader. La Rissone era nata a Genova il 28 agosto 1895 da una famiglia di attori di antichissime origini. Oltre che nel teatro di cui fu una protagonista, ebbe un suo posto, sia pure non di primo piano, anche nel cinema, partecipando tra il '50 e il 40 a film di successo, da La segretaria per tutti a Ore nove lezione di chimica, a Teresa Venerdì. Nel dopoguerra le sue apparizioni sullo schermo furono saltuarie, Fellini la volle nella parte della madre di Mastroianni in 8 1/2, Totò in un suo film. Ultimamente aveva accettato di interpretare un cortometraggio diretto da Manuel De Sica: fatto questo che sta a sottolineare il rapporto affettuoso che si era instaurato con la nuova famiglia di De Sica, con il quale era rimasta in ottimi rapporti fino all'ultimo. I funerali si svolgeranno o nel pomeriggio di domani o giovedì mattina in San Lorenzo fuori le mura, nella stessa chiesa cioè dove furono celebrati i funerali di De Sica.

Usiamo pure la retorica di circostanza e diciamo che Giuditta Rissone aveva respirato la polvere di palcoscenico sin da bambina. Era figlia d'arte e non a caso suo fratello minore, Checco, diventò attore pure lui. La biografia parla chiaro: a poco più di dieci anni già recitava, con la Borelli; e sul finire della Prima guerra mondiale faceva parte, come acclamata attrice giovane, del Teatro del Soldato che poi si trasformò in «Compagnia di propaganda per le Terre Redente» e fu una tournée trionfale, tra applausi, lacrime e garrire di vessilli tricolori. Ma subito dopo la parentesi patriottica, trovò il suo posto autentico nella compagnia Vera Vergani - Luigi Cimara - Gigetto Almirante. La sua scuola, quella che la plasmò e le diede un indirizzo dal quale in pratica non si staccò mai per il resto della carriera, fu questo complesso diretto da Dario Niccodemi che era considerato il non plus ultra dell'eleganza di recitazione (e di abbigliamento). Niccodemi non bisogna vederlo solo come l'autore rugiadoso de La maestrina o strappasinghiozzi de La nemica: fu anche un direttore teatrale di primissimo ordine e in questa attività — fu, com'è noto, allestitore di Pirandello — dispiegò le sue doti di «uomo di scena», di profondo e astuto conoscitore dei gusti del pubblico. Sapeva «istruire» alla perfezione gli attori, e la Rissone, a distanza di anni, gli era grata e di ceva: «Se so prendermi un applauso a scena aperta senza mezzucci, lo devo al grande Dario». Nel 1927 eccola prim'attrice al fianco di due attori affermati del calibro di Sergio Tofano e Almirante. Il repertorio comprendeva Molnar, Achard, Shaw e anche la fiaba per ragazzi di Sto, cioè di Tofano, Qui comincia la sventura del signor Bonaventura dove la Rissone, in panni buffoneschi, in stravaganti travestimenti, dava dimostrazione di saper giocare su una comicità estrosa, tutta inventata di sera in sera.

Fu chiamata da Mattoli negli spettacoli «Za-Bum» e qui la troviamo per la prima volta a fianco di De Sica con cui fece compagnia nel 1933, prima associando Tofano e poi Umberto Melnati. A questo punto affidiamoci a ricordi diretti e personali. Chi a quell'epoca frequentava i teatri come può non rammentare Due dozzine di rose scarlatte di De Benedetti? Lasciamo stare la debole consistenza della commedia che pure aveva un suo garbo. Era l'interpretazione che valeva e che faceva accorrere un pubblico strabocchevole. La Rissone, in questo piccolo e fortunato testo, era impareggiabile: la sua intesa con De Sica, un'intesa che da tempo esisteva anche in privato e che sarebbe stata ufficializzata dal matrimonio nel 1937, era perfetta, e tra i due s'insinuava, strizzando gli occhi e bofonchiando, Melnati. L'abbiamo ancora davanti, la Rissone, in quella commedia: sorniona, tenera, ironica, e poi, nel finale, capace di mettere nelle battute un'ombra di melanconia e una vibrazione drammatica che riconduceva la rosea farsetta sentimentale ad una dimensione umana. Era valida anche in testi impegnati, da O di uno o di nessuno di Pirandello a Volpone di Ben Johnson, da Volo a vela, l'ultima commedia scritta per lei da Gino Rocca alla Scuola della maldicenza di Sheridan.

Ma il suo repertorio è stato quello cosiddetto «borghese» degli Anni 30, da Gherardi a Cantini, da Fodor a Bus-Fckete: copioni fragili distensivi, patetici e sorridenti che aiutavano — se mai potevano aiutare — il pubblico nella grande illusione di dimenticare la bufera che si stava per abbattere sull'Europa: copioni in cui c'erano sempre personaggi femminili salottieri ma non privi di un loro dramma interiore, di un loro smarrimento, di una loro femminile trepidazione che Giuditta Rissone sapeva esprimere con straordinaria finezza, con misurati toni crepuscolari, spesso con sottile ironia, sempre con la comunicatività e la sicurezza che le venivano dalla sua pratica, e dal suo amore, antico, di palcoscenico. Nel dopoguerra diminuì molto e poi troncò del tutto prestazioni che pure erano egregie (Giorni senza fine di O'NeiI). Oggi cosa resta di lei?

Nella memoria degli appassionati resta un'attrice non grande ma — quello che conta — un'attrice vera, al cento per cento, attrice dalla testa ai piedi, nata e vissuta tra le quinte, con una professionalità scria e assoluta, con una sua personalità (in teatro e anche in un cinema di quarant'anni or sono che di quel teatro ripeteva esattamente i moduli): una personalità spiccata ed energica che nemmeno la maggior fama di De Sica era riuscita ad oscurare.

Ugo Buzzolan, «La Stampa», 1 giugno 1977


1977 06 04 La Stampa Roberto Rossellini morte intro1

Roma, 3 giugno.

1977 06 04 La Stampa Roberto Rossellini morte f1E' morto oggi a Roma all'età di 71 anni il regista cinematografico e televisivo Roberto Rossellini. Il decesso è avvenuto nel suo appartamento di via Panama, al Parioli, dal quale alle 12,30 il regista aveva telefonato alla sceneggiatirce Suso Cecchi d'Amico dicendole di sentirsi molto male. Immediatamente la donna si è precipitata in via Panama, dove è anche accorso un medico che ha tentato di rianimare Rossellini praticandogli il massaggio cardiaco. Ma ogni cura era vana, Rossellini moriva per infarto. Al momento della morte era presente la prima moglie de] regista, Marcella De Marchis, col figlio Renzino. Subito dopo è accorsa Sonali Das Gupta, ultima consorte dello scomparso e poi le gemelle Isabella e Isotta, nate dal matrimonio con Ingrid Bergman.

Ambiguo, sincero, geniale, distratto, capriccioso, ostinalo: Rossellini era un maestro, soprattutto quando meno credeva di esserlo. Ogni tanto teneva banco, è vero, seguendo le sue fissazioni, ma almeno con Un filo di ironia e un provocante senso del dovere. Al Festival di Cannes, pochi giorni fa, si spartì in un doppio lavoro, durissimo, dietro « il sorriso da abate settecentesco». Come presidente della giuria, impose con tatto le sue scelte e la suo visione poetico-didascalica del cinema dopo l'avvento della tv. Come decano degli autori e padre putativo dì tanti giovani registi, non si risparmiò in tavole rotonde e dibattiti. Gli avevano affidato un compito e lui lo svolgeva, forse senza curarsi delle sue forze, facendo con gli uni il professore, con gli altri il testimone: le vetrine dei librai erano piene di copertine col suo sguardo da saggio ammiccante.

La storia artistica di Rossellini comincia con uno stupore, con i critici e il pubblico intrigati all'improvviso da quel Roma città aperta che fondava idealmente (lo si seppe dopo) il neorealismo cinematografico. Da lui, che aveva diretto anche film ufficiali sotto il fascismo (Un pilota ritorna, soggetto di Vittorio Mussolini, L'uomo della croce,) non ci si aspettava la spallata decisiva. Magari si puntava su Visconti o sul De Sica populistico, che invece si alzarono sull'onda neorealistica dopo di lui.

Rossellini non era un teorico, ma una salamandra: passò negli anni duri tenendosi intatto; era uno che vedeva la gente. La vedeva, la capiva; magari non l'amava, nel senso del populismo italiano, così pasticciato e compromesso con la retorica. Alcuni dicono: « E' stato fin dagli inizi un regista cattolico». Cioè.- L'uomo pietosamente cinico, insieme disperato e catechistico. Il suo sodalizio con la tv ha dato Gli atti degli apostoli; ha diretto recentemente Il Messia. Una volta ha scritto: « Il cristianesimo non è per me una presa di posizione intellettuale, ma una questione di temperamento».

Ma, insomma, quando scoppiò « Roma città aperta» non erano in molti pronti a riceverlo, dopo tanti film evasivi o tesi sulla metafora o, al massimo, sulle righe del melodramma veristico. Anghelopoulos, il miglior regista greco, ha osservato: « Non sapete quanto :1 neorealismo ha insegnato al cinema europeo, agli intellettuali europei. E' un segno che dura ancora». Il film fu realizzato nel 1944, poco dopo la liberazione di Roma. Doveva essere un film muto, non c'era denaro a sufficienza per sonorizzare la pellicola. E gli alleati avevano posto un vincolo: fate un documentario, non una storia a soggetto.

Sulla nascita di quel nuovo cinema italiano c'è una aneddotica pertinente. In un caseggiato popolare di Roma, mentre ancora durava l'occupazione nazista, stavano nascosti Rossellini, lo sceneggiatore Amidei e Celeste Negarville. Videro tutto, le perquisizioni, le retate, gli arresti, e se l'appuntarono fisso nella memoria per raccontarlo, dopo. C'è anche una leggenda sui primi capitali impiegati. Ricordava Rossellini: « Vendetti il letto, un cassettone, un armadio». E poi aggiungeva: « Forse anche con quel film tornammo nel giro delle nazioni civili». E' vero, contro la polemica di alcuni patrioti in ritardo, il neorealismo portò nel mondo l'immagine di un'Italia credibile. Non solo: di un'Italia intelligente e autocritica. Al fondo del nuovo stile c'era anche la furbizia istintiva di Rossellini, il suo « matricolato candore». come lo definì Gianni Puccini. Cominciò l'epica degli attori presi dalla strada. « Nel '46, quando iniziammo a girare Paisà. non c'era sceneggiatura. Andavamo in un posto c la folla dei curiosi si raccoglieva intorno. Sceglievamo i personaggi tra la gente».

E successivamente arrivò Germania anno zero. Non facciamo qui la storia dei suoi film, delle sue svolte (dal cinema «neoromantico» a quello didascalico). L'abbiamo detto: non era un teorico, era un istintivo. Scelse spesso di sbagliare; seppe essere, nei difetti, geniale e corrivo, allo stesso tempo. Dopo la conversione al verbo televisivo, diresse un capolavoro come La presa del potere di Luigi XIV e un film agiografico su De Gasperi, quasi un ritorno, distratto o interessato, ai modelli del film di propaganda. Ha scritto un critico detrattore: « Rossellini ha sempre cercato lo stesso alibi mistico, da Mussolini alla democrazia cristiana». E altri, più immaginativi: « Era un Cagliostro, con una capacità infernale di cambiare e di essere sempre protagonista». Tutto giusto, tutto falso. Ambiguo e sincero, Rossellini aveva anche il genio dei difetti. Appunto, un maestro italiano.

Stefano Reggiani, «La Stampa», 4 giugno 1977 - Tutta la cronaca in rassegna stampa


1977 07 16 L Unita Age Scarpelli intro

Ammettiamo che con l film, gira e rigira, ci si muove sempre nel gran campo del già veduto: ma forse per la prima volta in questo ciclo è il punto di vista che tenta d'essere diverso, richiamando l’attenzione non sul regista o sul protagonista. ma su uno o più collaboratori senza volto, che molto spesso sono quelli che in fase preparatoria danno voce, fisionomia, umore e sfondi all’azione. fino al punto di diventare direttamente corresponsabili e. pertanto, co autori. Sono i soggettisti e gli sceneggiatori del cinema. Vanno dalla semplice manovalanza al talento inimitabile (Zavattini per tutti). Dall’esperienza, traggono uno stile che a lungo andare l'appassionato di cinema comincia a distinguere, affiancato o incorporato in quello del regista. Per non dire dei molti casi in cui lo sceneggiatore fa tesoro della sua pratica, diventando regista a sua volta.

La Rete 1 della nostra TV sta compiendo alcuni esercizi pratici su quanto andiamo dicendo, in un ciclo di otto film appena iniziato, lunedi scorso, a cura di Claudio Giorgio Fava e di Paolo Valmarana. Ha scelto per la sua trattazione una coppia prolifica e fortunata, Age e Scarpelli, sulla breccia dell'immediato dopoguerra e creatrice di alcune sceneggiature che toccano primati d’incasso. Age si chiama, in realtà, Agenore Incrocci, ed è nato a Brescia; Scarpelli si chiama Furio ed ha conservato il vero nome. E' nato a Roma. Il fatto d’essere coetanei, tutti e due del ’19. comincia subito a rendere le loro vite parallele: la guerra, la prigionia. il tirocinio alla radio, nelle riviste umoristiche e nel giornalismo. In questa veste iniziano a lavorare per il cinema, e il numero del copioni da loro firmati (o nemmeno firmati) è oggi pressoché Incalcolabile. Sulla loro attività, comunque, Age e Scarpelli raccontano qualcosa in due interviste già registrate che figurano nel ciclo stesso.

Dapprima, i due vennero messi al servizio degli attori più popolari del momento, per fornire presto e bene i testi necessari. Eravamo nel 1947, e il cinema stava lanciando su larga scala Totò, che girava un film dopo l’altro. Non gli serviva neppure un soggetto vero e proprio, e quasi non gli serviva un regista. Aveva bisogno di una valanga di battute, trovate. scenette, giochi di parole che lui poi s’incaricava di concatenare In un unico ameno spettacolo. L’incarico era congeniale ai due giovani sceneggiatori, grazie ai loro trascorsi nei settimanali umoristici e tra le quinte del varietà. Abbiamo avuto un saggio di tale collaborazione in Totò e le donne (1952) di Steno e Monicelli. Allegria sbrigativa, naturalmente, ma quando il loro prestigio fu consolidato sullo schermo. Age e Scarpelli scrissero per Totò almeno una sceneggiatura ben diversa, cosi spregiudicata da passare i suoi guai con la censura e da essere falla sparire dalla circolazione a tult’oggi in pieno clima di revival e di recuperi più o meno fanatici. Era Totò e Carolina (1955) di Monicelli. sull’eccessiva indulgenza di un agente della celere per una ragazza di vita. E’ chiaro che questo film non si vedrà nemmeno in occasione del presente ciclo.

Il programma, del resto, non è garantito in ogni sua parte. Diamo qui. di seguito. I titoli che i curatori ci dicono quasi sicuri. Vi è un piacevole Cinema d'altri tempi (1953) di Steno, con Lea Padovani che fa il verso a Francesca Bertini e Lyda Borelli insieme, ma la corda della parodia non è forse quella che Age e Scarpelli sentono di più. Il terzo lunedi prevede Nata di marzo (1958) di Antonio Pietrangeli. una schermaglia di amori giovani che ebbe il suo quarto dora di fortuna. Ma nello stesso anno giunge per la coppia il successo incontrastato: siamo ai Soliti ignoti di Mario Monicelli, questa grande ballata di poveri ladri, di vernacoli a contrasto, di gerghi carcerari e di scassi che si concludono in pasta asciutta. Nasce qui la cosiddetta commedia all'italiana: prima c'era solo la commedia alla romana. La commedia all'italiana, invece, si dilata in un lavoro di autentica ricerca linguistica, e diviene sulla pagina qualche cosa di attentamente elaborato e concertato, prima di farsi una forma espressiva sulle labbra degli attori. Si comincia a notarlo in un film che non rientra In questo ciclo ma già ripetutamente sfruttato sul video. La Grande Guerra (1959) di Monicelli. in cui protagonista è in primo luogo quel gruppo di dialetti e sottodialetti che forma l'Italia.

Intanto, ha avuto termine il periodo di stretta collaborazione con Totò, e si è aperto quello non meno fruttuoso con Vittorio Gassman. Tutta la seconda parte del ciclo si sofferma sul nome dell’irrequieto mattatore, proponendogli occasioni di diverso livello e qualità. Appuntiamo comunque i titoli dati «quasi» per sicuri: Il mattatore (1960) di Dino Risi. I mostri (1963, Age e Scarpelli hanno scritto solo il soggetto) e Il tigre (1967) sempre di Risi, Brancaleone alle crociate (1970) di Monicelli.

Con i suoi vivaci Interessi di cultura e di rinnovamento e con la sua raffinata attenzione per una nuova via critica e mistilingue da sperimentare nel teatro e nel cinema. Gassman ha inteso il valore dell’opera che Age e Scarpelli faticosamente portavano avanti, e più volte la ha sviluppata anche sulla scena. La complessa galleria di personaggi che vediamo nel Mattatore, portato appunto dal teatro allo schermo, ne reca qualche segno. E cosi, pure frammentato e spezzettato in cento capitoletti tragicomici. In una gara davvero mostruosa di trasformismo dove Tognazzi dà la mano a Gassman con pari bravura e disinvoltura, abbiamo I mostri, nel quale un'Italia becera o salottiera si esprime tutta con la terminologia dei fumetti o dei teleromanzi. Infine, la serie televisiva annovera Tra le maggiori fatiche di Age e Scarpelli quel Brancaleone alle crociate, fratello minore del celebre l'armata Brancaleone, nel quale le gesta pseudo storiche di un gruppo di cavalieri scalcinati si snoda nella parlata «volgare» (in tutti i sensi volgare) del primo millennio, con un maccheronico goliardismo e possanza gassmanaiana. Degli otto film In programma, almeno in questo risalta chiarissimo anche allo spettatore meno attento che la sceneggiatura prevale su ogni altro elemento di realizzazione.

Dal che una possibilità: organizzare di tanto in tanto altri cicli di film italiani, ristudiandoli attraverso i loro sceneggiatori. I nomi non mancano. e non mancherebbero nemmeno le sorprese. Ci piacerebbe che la iniziativa, nata forse per l naufraghi del luglio e l'agosto, si rinnovasse opportunamente anche nella stagione televisiva più piena.

Tino Ranieri, «L'Unità», 16 luglio 1977


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