A proposito di politica, ci sarebbe qualche cosarellina da mangiare?

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Votantonio... Votantonio... Votantonio... Italiani! Elettori! Inquilini, coinquilini, casigliani! Quando sarete chiamati alle urne per compiere il vostro dovere, ricordatevi un nome solo: Antonio La Trippa. Italiano! Vota Antonio La Trippa! Italiano! Vota La Trippa!Votantonio... Votantonio... Votantonio... Italiani! Elettori! Inquilini, coinquilini, casigliani! Quando sarete chiamati alle urne per compiere il vostro dovere, ricordatevi un nome solo: Antonio La Trippa. Italiano! Vota Antonio La Trippa! Italiano! Vota La Trippa!

Sì, ar sugo!

Quando andrete alle urne per compiere il vostro dovere votate la lista PNR, Partito Nazionale Restaurazione. Scegliete un numero solo che è tutto una garanzia, tutto un programma: 47...

...morto che parla!

E fesso chi non sta zitto! Ma guarda che numero che mi hanno dato...

La politica, un noioso passatempo

Come uomo, egli era un controsenso. Se sotto certi aspetti (la curiosità per i nuovi corsi della società, l’irriverenza verso i politici che volutamente chiamava politicanti, l’insofferenza nei confronti di alcune ipocrisie) era di una freschezza sorprendente, libero e folle quanto e più dei giovani, per certi altri restava un tipico esponente della sua generazione; un uomo, insomma, abbarbicato a una visione antica di alcune faccende della vita, che a volte assumeva atteggiamenti da Gran Muftì rendendosi abbastanza insopportabile con i suoi: «Non si deve! Non si può! Non si fa! »
Politicamente, non era un impegnato, e anzi era quasi impossibile puntualizzare il suo pensiero. Non perché propendesse al nostrano banderuolismo ma perché in ogni corrente politica trovava una cosetta o due da salvare e il resto da gettare schifato nella pattumiera. Cosi aveva elucubrato un suo credo personale: non so come si materializzasse in sede elettorale, ma so per certo che in sede umana raggruppava in un unico polpettone un certo numero di ingredienti disparati: un pizzico di nostalgia molto romantica per la monarchia, un nonnulla di consenso per la rispettosità centrista di alcune istituzioni, una dose di ammirazione per l’intransigenza destrorsa a certe trasgressioni, una spolverata di propensione per l’idealismo alla Cristo di un determinato socialismo, un pugno di consenso per le promesse sinistrorse di un benessere generale purché scevro da un vero livellamento sociale perché "le differenze di ceto tanto esisteranno sempre, se non altro per un fattore biologico, e si vedono lampanti, come nei cani di razza e non, ad esempio su una spiaggia dove tutti seminudi indossano uno straccetto eppure fisicamente noti subito le origini di uno anziché di un altro."
Era convinto, inoltre, che, magari a rotazione, una categoria un tantino superiore a un’altra sarebbe sempre esistita perché l’ambizione di migliorare faceva parte della natura umana e sradicarla era un compito arduo e neppure troppo equilibrato, poiché, come conseguenza, avrebbe smidollato l’uomo togliendogli il pungolo per mettercela tutta. Esempio vivente ne erano tutti coloro che, conquistato dal nulla un briciolo di benessere, si tramutavano automaticamente in piccoli borghesi parecchio attaccati alle loro proprietà. E altrettanto avrebbero fatto gli ex poveracci di domani. Era convinto, inoltre, che, magari a rotazione, una categoria un tantino superiore a un’altra sarebbe sempre esistita perché l’ambizione di migliorare faceva parte della natura umana e sradicarla era un compito arduo e neppure troppo equilibrato, poiché, come conseguenza, avrebbe smidollato l’uomo togliendogli il pungolo per mettercela tutta. Esempio vivente ne erano tutti coloro che, conquistato dal nulla un briciolo di benessere, si tramutavano automaticamente in piccoli borghesi parecchio attaccati alle loro proprietà. E altrettanto avrebbero fatto gli ex poveracci di domani. Forse, a giudicare da un episodio accaduto a Cerignola, vicino a Foggia, durante la lavorazione di Gambe d'oro, quando un comizio superaffollato era stato disertato con un fuggi fuggi generale non appena si era sparsa la voce che lui girava una scena poche strade appresso e il parlamentare di turno si era ritrovato sul podio con il discorso preparato e la piazza vuota mentre il suo disperso uditorio si accalcava per vedere Totò, bene avrebbe fatto a fondare un partito tutto suo, come infatti gli fu offerto.
A tutto commento dell’episodio di Cerignola, Antonio aveva borbottato: "Beh, come buffone, si vede che batto l’Onorevole." Sosteneva anche che "l’attore ha oltretutto il dovere di essere apolitico poiché campa al servizio del pubblico che, si presume, ha un suo credo, e deve divertirlo sfottendo questo o quello senza urtargli la suscettibilità come accadrebbe fatalmente se, essendo militante in un determinato partito, prendesse per il culo il personaggio di un partito opposto."
Comunque, tra le pareti di casa nostra, molti politici dell’epoca avevano un soprannome e con questo erano sempre indicati da lui. Giovanni Gronchi era Piede ’e Papera, la coppia Einaudi la Gatta e il Volpe, Gava e Zaccagnini, che a quei tempi venivano ripresi invariabilmente in coppia, i Fratelli De Rege, De Martino ’O Cane ’E Presa, ovverossia il molosso napoletano, Berlinguer Stanlio, Nilde Jotti la Pacchiana, Andreotti l'Aspirante Sagrestano, Leone 'O Paglietta, Preti, che stangava con le tasse e affermava di vivere con poche centinaia di lire al giorno, Panza ’e Broccoli, la Merlin, a cui attribuiva la recrudescenza dei crimini sessuali, La Signora Omicidi, Fanfani Centocervelli, Emilio Colombo, sempre azzimato e studiatamente inappuntabile, Cacabene. Paolo VI, che puntuale la domenica e ogni due per tre si affacciava benedicente al balcone, era l’Orologio a Cucù.


Franca Faldini e Goffredo Fofi


Intervista a Totò

« ... sono un attore. Io debbo piacere a tutti. Destre e sinistre per me non contano. Non sono né ambidestro né mancino. Il teatro è composto di tutti gli attori, di tutte le idee. Io sono uno che rispetta le leggi dello Stato, e basta. Se domani l’altro venissero i rossi, i blu, o i verdi a comandare, io mi assuefarò. E’ chiaro? ».

D.: E’ stato mai iscritto ad un partito?

R.: « No. Mai iscritto. Mai! »

D.: Se però la obbligassero con la forza ad iscriversi ad un partito politico, quale sceglierebbe?

R. : « Tutti e nessuno ».

D.: Se le prossime elezioni per il Presidente della Repubblica fossero fatte veramente dal popolo a chi darebbe la preferenza?

R.: « A Macario ».

D.: Perché?

R.: « Ma non sarebbe meglio parlare di donne? »...


L'attore è al servizio solo del pubblico

Politicamente Totò era eclettico e comunque non amava discutere di politica, essendo convinto che le discussioni tra persone che hanno idee diverse, non servono a niente. Consapevole che nessuna dottrina politica e quindi nessun partito possedesse tutta la ragione, la sua visione dei problemi sociali e dei partiti organizzati per risolverli affondava le radici in un presupposto condiviso, in fondo, anche con Pulcinella: le sofferenze - fame, mancanza del lavoro, dell’amore e degli affetti - sono intrinseche alla natura umana e si abbattono sugli individui come la pioggia o i terremoti, e soprattutto non possono trovare una soluzione attraverso l’azione concreta di un partito. In sostanza, gli esseri umani devono risolvere i loro problemi sociali attraverso la semplice loro iniziativa individuale, ossia, proprio come sosteneva Pulcinella, arrangiandosi.

In Totò convergevano, in una visione politica più di natura sentimentale che pragmatica, l’ideale monarchico e quello socialista, anarchia e ordine, pace e guerra, secondo un’unità dialettica che superava le opposizioni in una sintesi originale, anche se scarsamente elaborata.
Quando veniva interrogato in proposito, amava definirsi, con un certo compiacimento, «monarchico, anarchico, centrista, socialista e idealmente cristiano»: insomma tutto e il contrario di tutto. All’interno di questa esibizione volutamente qualunquistica, Totò, anche per la sua adesione alla massoneria, aveva due punti fermi: era sinceramente antifascista e anticomunista.
Alberto Anile nel libro 'Il cinema di Totò', che racconta Totò dal 1930 al 1945, 15 anni durante i quali girò solo sei film, un'inezia rispetto ai 91 del dopoguerra, spiega la circostanza della foto, scattata nel 1943, al teatro 10 di Cinecittà trasformato in una giungla per le riprese di 'Due cuori fra le belve' di Giorgio Simonelli, una commedia sconclusionata nella quale Totò, contemporaneamente impegnato al Valle con la rivista Orlando curioso, si barcamenava tra due pericoli mortali, forzuti cannibali (nel cast fu coinvolto Primo Carnera) e belve feroci (serpenti, iene, leoni autentici, tenuti a bada da Angelo Lombardi). L' Italia era oppressa da una guerra ormai perduta, ma a Cinecittà il regime si sentiva. Anile racconta la visita negli studi di un eroe di guerra, esaltata con retorica fascista, e, 'se sul palcoscenico della rivista Totò non esita a lanciarsi in qualche temerario sfottò all' indirizzo di fascisti e tedeschi, il contesto di Cinecittà annulla decisamente ogni velleità di ribellione. Totò è costretto a farsi fotografare con la 'cimice' fascista all' occhiello, per essere così eternato, nel mezzo di un' impacciata smorfia comica, sul retrocopertina della rivista Film'. Il fotografo si chiamava Eugenio Haas, che in seguito sarà definito 'ufficiale delle SS' e 'spia della Gestapo' . 'Mettersi un distintivo all' occhiello poteva essere questione di sopravvivenza in certi momenti', dice De Concini.
Nel 1943 l'Italia è in guerra. Un periodo storicamente drammatico, per Totò la lavorazione del film "Due cuori fra le belve" è molto difficile: è la prima volta che è impegnato contemporaneamente per il cinema e il teatro. La mattina è al lavoro a Cinecittà o nella giungla ricreata sul lago di Fogliano, e la sera è al teatro Valle, sempre impegnato nell'Orlando curioso. Oltre che stressante la situazione è schizofrenica: a teatro sfotte la censura ministeriale, sul set è costretto a farsi fotografare con la cimice’ fascista all’occhiello; la foto, scattata dal tedesco Eugenio Haas, sarà pubblicata a tutta pagina come quarta di copertina dalla rivista “Film” del 26 giugno 1943, disperato tentativo del regime, ormai a un passo dalla caduta, di annettersi il comico più popolare d’Italia.

Abbiamo ritrovato un'altra immagine apparsa su un periodico musicale del 1943 che ritrae Antonio de Curtis, impegnato in un'esibizione radiofonica, dove indossa la tradizionale cimice del PNF. Purtroppo in quel difficile periodo per gli artisti era difficile lavorare, se non impossibile, qualora non fossero stati iscritti al partito.


Non c'è mai stata relazione né alcun altro tipo di rapporto tra il Partito Fascista e Totò. Anzi. Numerose testimonianze parlano di un Totò che, attraverso la sua pungente ironia, manifestava pensieri non proprio allineati col regime, soprattutto durante l'occupazione nazista ma non solo. Per esempio, durante la campagna di abolizione del Lei, Totò, nel corso di un monologo, costruì una gag trasformando Galileo Galilei in Galileo Galivoi. Un gerarca seduto in platea denunciò il comico. Il procedimento contro Totò verrà archiviato per volere di Mussolini che, a proposito della denuncia del gerarca, commentò: "fesserie".


Era fascista il marchese de Curtis?

Il distintivo fascista all’occhiello della giacca e la partecipazione alle manifestazioni di beneficenza per le Forze armate sono le uniche tracce sui rapporti fra il marchese de Curtis il regime fascista. Il distintivo prova soltanto che era iscritto al Partito nazionale fascista, ma non risulta che abbia fatto dichiarazioni pubbliche o private a favore del Duce, neppure nelle occasioni solenni e celebrative, come la conquista dell’Impero, quando persino Benedetto Croce donò la medaglia di senatore alla patria in guerra. Invece divennero frequenti i riferimenti alla Storia in guerra nei copioni delle riviste scritte da Michele Galdieri, che Totò interpretò insieme ad Anna Magnani, con grande successo, fra il 1940 e il 19444.

A cominciare da Quando meno te l’aspetti, che debuttò a Natale del 1940: il titolo alludeva alla imprevedibilità della Storia. Infatti, I'Italia era in guerra da sei mesi, e la guerra immaginata breve si stava prolungando, senza nessuna vittoria italiana. Gli inglesi l’8 dicembre avevano bombardato la base navale di Taranto, e vincevano in Africa orientale e settentrionale, mentre i greci avanzavano in Albania. Le sconfitte mutarono l’opinione della gente, che si era illusa d’una rapida vittoria dell’Asse: ora invece prestava credito a qualsiasi voce inquietante, che circolava rapidamente.

Nella rivista di Totò c’era un quadro, Il fatto è successo a San Babila, che faceva la satira delle vociferazioni allarmiste che la gente diffondeva. Un tizio riferisce a Totò: «Radio Londra ha comunicato che stamani alcune squadre di fascisti [cittadini] requisivano e bruciavano le copie d’un grande giornale... [che pubblicava un articolo favorevole al nemico]». Totò replica che sono fesserie e all’insistenza del tizio, che gli dice «Non ci credi eh? Vuoi saperlo meglio tu che gli informatori di Radio Londra?», Totò risponde: «Si capisce che lo so. Nessuno può saperlo meglio di me! Perché il fatto successo a San Babila è un fatto che è successo proprio a me!». E racconta che le voci erano nate da un malinteso, per cui concludeva smentendole: «Il fatto successe a San Babila [...] è tutto un gran fiume di chiacchiere [...] Ma che il Signore vi fulmini/ se non può convincerci/ a non parlarne più!».

Alla fine del 1940, la satira di Totò non era ancora rivolta contro il regime.

«Quel pagliaccio di Totò»

Eppure, i personaggi impersonati da Totò nei primi film erano quanto di più diverso poteva esserci, per fisico, carattere e comportamento, dall’italiano nuovo che il Duce voleva forgiare con fanatica determinazione. Inoltre, nelle riviste, Totò prendeva in giro le manie di riforma del costume, come la sostituzione del “lei” con il “voi” imposta da Achille Starace, segretario generale del Pnf. Al potente capo del regime totalitario e al segretario del partito unico Totò non piaceva. Lo prova la trascrizione, fatta dagli intercettatori governativi, di una conversazione telefonica fra Mussolini e Leopoldo Zurlo:

Mussolini: Zurlo, ho davanti a me un mucchio d’intercettazioni, nonché «veline rosa» del Partito, le quali commentano in maniera esilarante delle battute di quel pagliaccio di Totò, in una rivista al Quattro Fontane. Poi sottolineano l’inopportunità delle battute stesse, che prendono inequivocabilmente in giro l’operato del massimo organo del regime, che quelle disposizioni ha emanato!

Zurlo: Duce, ho capito l’inopportunità delle battute stesse, ed ho sotto gli occhi l’originale del copione, al quale ho dato, personalmente, il visto, dopo averlo esaminato.

Mussolini:E allora?

Zurlo: Evidentemente si è esagerato...

Mussolini: Non ci sono dubbi sul riferimento!

Zurlo: Esatto, ma bisogna tener conto che un teatro di rivista non è certamente la direzione del PNF. La satira, quando è fatta con intelligenza e contenuta nei giusti limiti, non può e non deve considerarsi offensiva; e ciò proprio in base alle intelligenti e spregiudicate direttive impartitemi personalmente dall’E.V.

Mussolini (con evidente orgoglio): Questo è vero: sono stato proprio io a dirvi di essere, in un certo senso, di manica larga quindi...

Zurlo: Appunto, Duce. Io pensavo a quelle parole quando, dopo gli opportuni tagli, mi son deciso a concedere il visto. Poi vi assicuro che, se leggeste il copione, ridereste anche Voi...

Mussolini: Ma a Palazzo Littorio la pensano diversamente...

Zurlo: Le battute erano due, la prima diceva: «Se tornasse Galivoi...», «Galivoi?...», a cui Totò rispondeva: «Sì, il “lei” è abolito». L’altra riguardava il cambiamento della moneta rumena da lei in voi [...] (ridono)... e poi, non bisogna ignorare i commenti al provvedimento. Solo in tale maniera potevo dare la sensazione di non essere sempre con il fucile spianato.

Mussolini: E' giusto.

Tuttavia, almeno fino al 1937, non c’era stato accanimento della censura nei confronti dell’attività teatrale di Totò. I tagli nei copioni riguardarono soprattutto le allusioni sessuali! Quanto alla stampa propriamente fascista, nei confronti di Totò si esprimeva come la stampa fascistizzata: vi erano critici che apprezzavano e persino elogiavano il comico, e altri che, pur apprezzandolo come attore di teatro, stroncarono le sue interpretazioni cinematografiche. Come fece la rivista fascista di critica cinematografica «Bianco e Nero», che iniziò le pubblicazioni nel 1937, in coincidenza con l’inaugurazione di Cinecittà da parte del Duce all’insegna del bellicoso motto mussoliniano: «Il cinema è l’arma più forte». In uno dei primi numeri, il 31 maggio 1937, la rivista pubblicò una recensione anonima di Fermo con le mani che lo definiva «bruttissimo», «un attentato alla società artistica e morale del cinematografo», e concludeva: «Fermo con le mani è un film che fa venire la voglia di menare le mani». Ma nei confronti del protagonista l’anonimo stroncatore non fu altrettanto animoso: al contrario, attribuì al film come unico pregio quello «di aver mostrato le possibilità di Totò che, certo, non sono poche se egli è riuscito ad avere qualche spunto buono anche in questo lavoro assolutamente negativo sotto tutti gli aspetti».

Era antifascista il marchese de Curtis?

Probabilmente, il marchese de Curtis fu fascista solo per distintivo, non per convinzione. In un’intervista rilasciata nel gennaio del 1966, il principe de Curtis fece alcuni accenni alla sua attività artistica nel periodo fascista:

Facevo della satira, e con successo, perché l’italiano ama vedere preso in giro questo o quel personaggio. L’italiano è un po’ come il bambino: ha continuamente bisogno della favola di Cappuccetto rosso, col quale si identifica, come identifica il governante del momento col lupo cattivo. Ma siccome per quest’ultimo personaggio manca sempre il cacciatore buono che lo fa fuori, allora Cappuccetto Rosso ama sentire dire cattiverie sul lupo, sui figli del lupo, sul nipote e sul pronipote del lupo. Il fascismo permetteva che lo si prendesse in giro, e noi lo facevamo con garbo e senza essere mai triviali. Perciò ogni sera facevo divertire il bravo Cappuccetto rosso.

Le battute satiriche sul fascismo nelle riviste di Totò durante gli anni Trenta furono comunque innocue o vagamente allusive. Per esempio, nella rivista Se fossi un Don Giovanni, di cui Antonio era autore, presentata nel gennaio del 1938, potrebbe essere una parodia della concisione retorica mussoliniana il modo di esprimersi del personaggio del Commendatore, che a un certo punto manifesta con tono perentorio la sua volontà d’azione, scandendo frasi brevi: «Ho preso una decisione. Io sono l’uomo delle grandi decisioni. Quando ho preso moglie l’ho presa in tre giorni. L’ho conosciuta, mi sono fidanzato e l’ho sposata. Ora da sette anni sono vedovo. Ho bisogno di una donna vicino a me». Non risulta che queste frasi siano state tagliate.

Ma dal 1939 in poi, gli interventi censori sui copioni delle riviste di Totò divennero frequenti. A cominciare da L'ultimo Tarzan o le 199 disgrazie di Tarzan, scritto da Antonio e andato in scena all’inizio del 1939. Il personaggio di Tarzan, inventato nel 1912 dallo scrittore americano Edgar Rice Burroughs, era diventato popolare nel mondo come protagonista cinematografico, incarnazione del buon selvaggio di razza bianca, allevato nella giungla dalle scimmie, forte e sano di corpo e di animo. Nella sua rivista, Antonio trasferisce Tarzan a New York, dove lo conducono Mary e due esploratori americani dopo averlo catturato nella foresta, per esibirlo fra le loro amicizie. La signora Dorotea, quando Totò Tarzan finisce di recitare una versione della Vispa Teresa che gli era stata insegnata da Mary, con doppi sensi sessuali, esclama estasiata: «Bravo! Siete un Virgilio redivivo!», Totò risponde di conoscere Virgilio e suo fratello Redipuglia, nome che la censura sostituisce con «Redimorto», ritenendo offensiva l’omonimia col sacrario militare della Grande Guerra.

Nel seguito del dialogo furono soppresse le battute giocate sul termine “autarchico”, col quale il Duce aveva denominato il nuovo corso della politica economica per rendere l’Italia meno dipendente dai paesi stranieri per le materie prime. Nella rivista c’era poi una scena in cui a Tarzan appariva il fantasma di Napoleone, e il censore si sostituì al regista: «L’attore reciterà in modo da dare al pubblico la sensazione che è uno scherzo», evitando di fare una imitazione di Napoleone, che era protagonista del dramma Campo di Maggio scritto dal Duce in collaborazione con Giovacchino Forzano, il quale appariva come autore.

Durante la guerra, Antonio fece riprendere a Totò la via del cinema. Nel 1941 fu protagonista del film L'allegro fantasma, una farsa dove Totò impersonava tre fratelli gemelli, con l’unico scopo di divertire un pubblico afflitto dalla guerra, e senza evidenti riferimenti all’attualità. Invece, nelle riviste, scritte dal napoletano Michele Galdieri, l’attualità era presente con battute satiriche. Antonio si avvalse così di Totò per commentare, a suo modo, la Storia in guerra e lanciare frecciate umoristiche al regime totalitario.


Il principe de Curtis condannava il fascismo, che aveva elevato il caporalismo a organizzazione statale e sociale. Il Duce è bersaglio frequente nella parodia di Totò specialmente quando impersona un gerarca, un ufficiale o addirittura un condottiero nell’Egitto dei faraoni, parlando sempre col vocione stentoreo e la cadenza ritmata di Mussolini. Tuttavia, la rappresentazione del fascismo non va oltre la caricatura ridicola, mentre scarsa è la satira, che pure era pregnante nelle riviste di Totò durante gli ultimi anni del fascismo al potere. In ciò è evidente un adeguamento della comicità satirica di Antonio all’immagine del fascismo negli anni Sessanta: un’immagine storiografica e pubblicistica, che lo «defascistizzava», privandolo degli attributi di regime totalitario, per rappresentarlo come un’opera buffa, anche se attuata da famigerati caporali che esercitavano la loro prepotenza con uniformi grottesche e rituali militareschi.

Emilio Gentile

Una delle tante partecipazioni radiofoniche di Totò, il quale indossa la cimice del Partito Nazionale Fascista.

La foto scattata da Eugene Haas sul set del film "Due cuori fra le belve" nel 1942, vede Totò indossare la cimice del Partito Nazionale Fascista.


Dopo l'8 settembre, in piena occupazione nazista, Totò in teatro prese in giro il Fascismo e i conformisti paragonandoli satiricamente a delle pecore:

Io penso alle mie pecore / che tirano a campar! / Io penso alle mie pecore / che fanno tutte... mbè... / Io penso alle mie pecore / che han smesso di belar! / Io penso alle mie pecore / che son stanche di belar!

Ne seguì una denuncia seria, alla quale l'attore si sottrasse in modo rocambolesco, prendendosi poi una rivincita dopo la liberazione di Roma, nel giugno 1944, con una scena in teatro, nella quale Hitler impartiva ordini in una grande sala e poi si ritirava in stanze sempre più piccole, fino a entrare in un misero cesso, dove trovava la fotografia di Mussolini attaccata al muro. Irritato, Hitler staccava la fotografia e la gettava nel water.
Le sue simpatie monarchiche, da inquadrarsi in un contesto romantico e nell’ambito di una consolidata tradizione napoletana, divennero manifeste nel 1958 nel corso della popolarissima trasmissione televisiva “Il musichiere”, determinando un vero e proprio incidente che occupò le prime pagine dei giornali. Durante una breve conversazione con Mario Riva, Totò si lasciò infatti scappare l’esclamazione non prevista nella scaletta «viva Lauro!», entusiastico apprezzamento per Achille Lauro, armatore e politico napoletano a capo del Partito Monarchico Popolare.

Ennio Bìspuri

Antonio ebbe un grosso contrasto con la RAI per il Musichiere. Si lasciò sfuggire questa frase, «Viva Lauro!», frase che - posso testimoniarlo fino alla fine - aveva detto non perché fosse un sostenitore del comandante Lauro ma perché era il momento in cui Lauro dava la pasta, i pacchi dono, sembrava che facesse qualche cosa per la popolazione di Napoli. L'aveva detto in questo senso. Successe l'ira di Dio e la RAI non lo cercò più per molto tempo.

Franca Faldini

«La mia tendenza politica? Liberal-social-democratico-monarchico-repubblicano!»

 

Il necrologio apparso sui quotidiani del 18 aprile 1967 col quale la massoneria italiana partecipava la scomparsa di «Fr. Antonio de Curtis 30» non mi colse di sorpresa. Sapevo che Antonio era massone. Lo avevo appreso per caso verso la fine degli anni Cinquanta. Fu a Napoli, al bar dell’Hotel Excelsior, dove lo vidi scambiare strani segni con un tale seduto al bancone e gliene chiesi il motivo. Mi disse che quella era la gestualità convenuta, appunto, fra i massoni per riconoscersi ovunque. Che essendolo era da tempo «in sonno», poiché riteneva che questa associazione si fosse distaccata dai presupposti etici su cui si fondava; ossia, tra l’altro, la lotta all’ignoranza, la liberazione da ogni pregiudizio o fanatismo religioso, l’aspirazione alla fratellanza universale. E quindi aggiunse: «Però, anche “dormendo”, il così detto sacco della vedova pro diseredati io lo colmo lo stesso per i fatti miei». Mi risulta difficile, comunque, immaginarlo appartenente a qualunque consorzio perché, come soleva dire e dimostrare, egli non si faceva mettere «il ferro in capo» da nessuno, dedicando ai politici, ai prelati e a coloro che riteneva «caporali» la stessa feroce irriverenza, mentre tutt’altro atteggiamento aveva nei confronti della magistratura, per la quale nutriva grande rispetto. Diceva anzi che, se lo avesse avuto, un figlio magistrato sarebbe stato il massimo dei sogni. Poteva essere un allineato l’Antonio che, vedendoli nei telegiornali, paragonava senza distinzioni «a cani intorno a un osso» i deputati che trascendevano nelle zuffe a Montecitorio? O quello della sera, in una via di Cerignola per degli esterni di Gambe d’oro, nella stessa data e ora in cui nei paraggi si svolgevano un paio di comizi elettorali, che esclamò: «Evidentemente come buffone batto gli onorevoli!» apprendendo come, al fatidico «Azione! » urlato in un megafono, i politici giunti da Roma si fossero ritrovati ad arringare il vuoto dall’alto dei rispettivi palchi perché gli astanti si erano precipitati in massa a vedere Totò nelle riprese?
Altrettanto improbabile mi sembra il suo impegno monarchico che in molti danno per certo; perché, da quanto torna a me, monarchico lo fu solo fumosamente e in sporadici momenti: quando, ossia, parve che Lauro si proponesse di essere «una vera mano santa per la mia città». Ma appena dedusse che, dopo tante promesse, egli si stava rivelando «una ennesima mano che tira l’acqua al suo mulino», il suo slancio si smorzò. E quando confondeva la nostalgia per il regno con quella per la propria giovinezza a Napoli dove, al passaggio dell’allora ventenne erede al trono, le popolane urlavano: «Si’ troppo bello per essere di carne». O a Torino, con il principe di Piemonte più volte nel palco ad applaudirlo e ad applaudire Milly, la sua soubrette dalla voce alla Marlene Dietrich cui il giovanotto Savoia aveva dedicato una attenzione tanto eccezionale da suscitare sdegno e apprensione nel seguito.
Mai, infatti, gli ho udito dire: «Peccato che Umberto non torni». Neppure quando a Parigi fummo ricevuti da lui in una udienza privata all’Hotel Lancaster dove era sceso provenendo da Cascais. Era più o meno il 1956 e l’appuntamento era stato predisposto dal conte Raimondo Olivieri, il gentiluomo di corte cui Antonio si era rivolto per rivedere colui che abbandonando mestamente l’Italia all’avvento della Repubblica aveva assunto il titolo di conte di Sarre. Io non volevo andarci. Dei Savoia continuavo e continuo a ricordare tanto la firma in calce alle leggi razziali del 1938 quanto la fuga del settembre 1943, quando lasciarono gli amati sudditi a divertirsi con i tedeschi in casa e Salò alle porte e chi s’é visto s’è visto. Dissi: «Perché devi costringermi? Vacci per i fatti tuoi! » Quella volta, però, egli fu irremovibile. E quando si impuntava era impossibile svicolare. Entrambi in pompa magna raggiungemmo il Lancaster e, dopo breve attesa in un salotto sobriamente lussuoso, ci trovammo al cospetto di Umberto. Sotto lo sguardo di Antonio che volentieri mi avrebbe fulminata, evitai la riverenza perché personalmente trovo ridicolo inchinarmi di fronte a un altro essere che, sia chi sia, in quanto tale ha le mie stesse magagne terrene. Però, che uomo affascinante era, e di quale semplicità di tratto era capace nel porre i suoi interlocutori a proprio agio! Parlarono a lungo, lui e Antonio, quasi fossero due conoscenti che, incontrandosi dopo qualche tempo, si informano su questo e quello. La conversazione prese un avvio così spontaneo che io stessa mi trovai a raccontare di Rosa Grasso, l’anziana ostetrica alla quale devo la vita, che si era occupata dei piccoli Savoia alla nascita; e di quanto fossi amica di Mimmina, la nipote del conte Quirico che per anni era stato il medico personale di Sua Maestà Vittorio Emanuele III. «Ah», esclamò Umberto, «il “dottur”, come lo si chiamava da piemontesi a piemontese! Vede anche Gigi, il figlio? E così simpatico!»
Nel congedarsi, Antonio mi sembrò commosso. Ma l’emotività non lo indusse ad altre affermazioni. Disse soltanto, quasi si rivolgesse a un padre di famiglia: «Saluti i ragazzi, e si usi riguardo, mi raccomando!»

Franca Faldini

Il film “Gli Onorevoli” del 1963 e riassume in poche righe tutto il ‘pensiero politico’ di Antonio de Curtis, ben rappresentando il Totò-politico tout court. Che c’entra un attor comico -per quanto grande- con l’arte di governo? C’entra, c’entra eccome. Anzi, meglio, c’azzecca e ci sta tutto fin dai tempi del commediografo greco Aristofane [1], altrimenti non si capirebbe nemmeno come mai oggi coloro che praticano satira politica siano tra i maggiori oppositori dell’establishment, i più temuti critici della società, i più strenui dissenzienti rispetto a una sempre più diffusa uniformità di pensiero.

Si pensi ai comici teatrali e televisivi come Maurizio Crozza e Daniele Luttazzi, passando per Corrado e Sabina Guzzanti, per non parlare di Antonio Albanese che, con il suo Cetto La Qualunque, ha preconizzato la strampalata odissea di un indegno candidato elettorale dalle promesse esilaranti (“Chiù pilu pe tutti!”). Anche i giornalisti d’inchiesta non disdegnano i toni sarcastici e mordaci, dall’arguzia alla beffa: il direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, tiene una rubrica il lunedì che s’intitola Ma mi faccia il piacere, in omaggio al comico napoletano. Per non parlare dei vignettisti, deputati a confezionare per immagini strali contro la cattiva politica; un cimento in cui si esercitano quasi quotidianamente artisti come Altan e Vauro, Elle Kappa e Staino, per fare solo qualche nome.

Trasformatosi nel prototipo dell’aspirante deputato, Totò incarna magistralmente in questo film dei primi Anni Sessanta lo spirito post fascista nel solco che fu dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini, non a caso anche lui partenopeo [2]. Mentre ai giorni nostri il riferimento più immediato che viene in mente è piuttosto all’Italiano Medio del film di Maccio Capatonda [3]. Libero da remore morali e pensieri troppo faticosi, che rappresentano un carico pesante e superfluo, pertanto, assai poco consono alla sua schietta semplicità, Antonio La Trippa è tutto nel suo nome (e cognome).

Un appellativo, quello riferito al grasso, che comporta oneri e onori, indicando perfettamente quale metamorfosi negativa avvenga, talvolta, nel difficile passaggio da cittadino ad amministratore e per giunta della specie più vorace: quella di colui che magna e fa magna’. E che, di conseguenza, tira anche a campa’, come si dice a Roma, chiudendo un occhio e forse tutt’e due su quello che non vuole vede’, avrebbe aggiunto un altro grande delle comicità italiana, l’Albertone nazionale.

« Ignobile portinaio da strapazzo! Come ti permetti di chiamarmi in tale guisa? Io sono il neo-onorevole La Trippa, Cavaliere Antonio! Capito!? ». Così il pochissimo onorabile La Trippa richiama all’ordine il portinaio dello stabile, ristabilendo fuor di metafora quella distanza siderale che esisteva -e tuttora esiste- tra politica e società civile. Nonché ribadendo l’intoccabilità dovuta al proprio considerevole rango, come se il parlamentare fosse iscritto a un ordine particolare di superuomini a seguito dell’esercizio di un mandato elettivo. Di quanti Antonio La Trippa traboccano anche oggi le liste elettorali? Di sicuro troppi.

« Votantonio, Votantonio, Votantonio, Votantonio! » è lo slogan che il nostro ripete per tutto il film come un mantra. Ci si appiglia come a un sortilegio magico, alla recitazione sconnessa di un rosario per scongiurare la sconfitta, l’indifferenza, per allontanare il nulla, ma anche per ribadire, con ostinazione pervicace e quasi cieca, la bontà della propria iniziativa. E’ il metodo del ‘lavaggio del cervello’, termine che adesso chiamiamo più elegantemente persuasione occulta, attuata magari mediante stimoli subliminali che vanno a sollecitare l’inconscio (qualcosa che attiene a… laggiù, insomma, che vellica stomaco e pancia).

Il discorso politico è -per sua stessa natura- suadente e persuadente, come vuole la retorica. Tutt’altra cosa del discorso comico, che qui entra in azione grazie a degli strumenti del tutto inadeguati, usati da Totò come armi improprie: un imbuto di latta trasformato in megafono (evviva il tecnicismo!) e luoghi altrettanto inadatti, la finestra del bagno di casa al posto del balcone di altri -ben più grandi e potenti di lui- che gli fanno da contraltare. Una legge del contrappasso (meglio forse del contrabbasso, tanto per essere più vicini al lessico immaginifico del principe de Curtis) che vuole il contrasto stridente tra l’alto della politica -il comizio alato- e il basso del basso napoletano -il comizio dal cesso casalingo- condito dagli aromi familiari di trippa e sugo, che sentiamo salire ai piani superiori.

Una vera epifania della democrazia di pancia o del mal di pancia, provocato dalle tante abbuffate nostrane più vicine al copione di un film, che alla realtà. Del resto, chi può dimenticare l’incredibile festa “Olympus”, nomen omen, organizzata al Foro Italico, nel 2010, in cui alcuni membri del consiglio regionale del Lazio si sono travestiti da maiali, ancelle e ninfe, tra giare di vodka e mojito, nell’era della presidenza di Renata Polverini [4]? Come sarebbe piaciuta a Totò quella coreografia così vicina alle assurdità di tante scene che ha calcato.

Il futuro onorevole viene immediatamente ‘scoperto’, ancor prima della sua resistibile ascesa, e additato come il re che “è nudo”. Perciò, altrettanto immediatamente, è sfottuto dai suoi simili, gli inquilini e coinquilini del palazzo da cui si affaccia per i comizi preelettorali. Che non è il Palazzo, ma è un palazzo qualsiasi, simbolo dell’italianità media e contro-simbolo di quel luogo deputato della politica dove si svolgono affari spesso oscuri, che tuttavia sono fin troppo chiari a tutti. Perfino a lui, perfino agli italiani e agli elettori, ossia agli inquilini e coinquilini che abitano la realtà di tutti i giorni.

Un mondo senza commistione alcuna rispetto a quello che orbita di solito intorno alla politica, tranne che in un caso particolare, la truffa. Che viene esperita tanto di qua, quanto di là, in tutte le possibili sfumature e varianti: dal millantato credito alla fregatura bella e buona; dalla ruberia di ciò che è pubblico all’appropriazione indebita e così via. Secondo una logica semplice ed efficace che distribuisce equamente ‘a ognuno il suo’: se sei un turista ti vendo il Colosseo, se sei un romano ti vendo una patacca amerikana.

Uno di questi casigliani di toscanissima memoria -perché Totò è sempre molto colto sotto la maschera da Sommo Ignorante, nel senso di colui che ignora, il finto idiota che smaschera le balle vere del suo interlocutore- risponde infatti all’appello megafonato di Antonio La Trippa. “Sì, (la trippa) al sugo!!!”. Riportando subito a terra lo scambio verbale in un quadro che più preciso non si può, neanche con il pennello. Per la serie del parla come mangi, ma anche del mangia-mangia delle corruttele e dei fenomeni di cattivo governo che tengono sempre banco sulle pagine di cronaca italiana.

Il dialogo in due battute, anzi quattro battute, come quello dei suoi illustri predecessori commediografi e teatranti, da Petrolini ad Achille Campanile, è davvero fulminante. Orchestrato con tempi comici rapidissimi di botta e risposta: non si sbaglia, non si sgarra. A ‘uno’ corrisponde ‘due’, in unò-duè, unò-duè da marcetta. Un doppio movimento scandito che ricorda il suono secco di un meccanismo che scatta. E’ la declinazione del comico del discorso e l’articolazione del discorso comico, in cui è premiante soprattutto la sorpresa e la velocità.

Bisogna parlare prima ancora che l’altro dialogante comprenda, fino in fondo, quello che stiamo dicendo e, in specie, ciò che si accinge a dire lui stesso! E quando ha appena finito di dirlo, ahimé, è ormai troppo tardi… La trappola è scattata, dopo che è stata spinta la molla fino allora segreta, nascosta subito sotto la superficie di una conversazione stucchevole e inconsistente.

D’improvviso ci si ritrova prigionieri del senso comune e, contemporaneamente, della stupidità propria e altrui. Se la propria era voluta, per cui ne siamo consapevoli, l’altrui era celata e ci risulta sorprendente. Il contrasto corrisponde a un doppio passo di danza, come in un elegante minuetto. Parte la risata perché quella doppia imbecillità viene rivelata davanti a tutti come una scoperta improvvisa. Signori, su il sipario!

Si ride, liberandosi dalla paura, ci si affranca da se stessi, dai comportamenti errati, dal timore di quella piccola morte che il riso incentiva e, subito dopo, sapientemente occulta. Assecondata dal detto popolare che parla in maniera esplicita di “morir dal ridere” o anche di “ridere a crepapelle”. [5]

E gli altri onorevoli intorno a Totò? Sono alla sua altezza, o quasi. Degni compari che formano il ritratto a tutto tondo di un’Italietta nostrana contenente gli esiti del Ventennio, mescolati ai germi nuovisti del boom economico incipiente. Una foto di gruppo che riesce perfino a essere predittiva. C’è tutto l’entourage tipico della politica di quegli anni, squadernato nel film: la democristiana Bianca Sereni, femminista ante litteram che finisce per invaghirsi di un bellimbusto pagato dagli stessi compagni di partito per fotografarla in atteggiamenti compromettenti e screditarla (la macchina del fango è sempre in funzione). Scoperto l’inganno deciderà di ritirarsi e mettersi insieme proprio a quell’uomo.

Poi c’è il senatore del Partito Liberale Italiano, Rossani Breschi, che si fa propaganda invitando i ricconi nel suo lussuoso salotto. Un comizio di piazza da lui tenuto finirà sabotato da una banda di ragazzini, rivale di quella del figlio. Avevano provato a emulare i grandi, giocando ‘a fare i politici’. Segue in questa galleria di piccoli mostri lo scrittore comunista Saverio Fallopponi, che si scaglia contro gli Stati Uniti, ma non disprezza affatto i dollari. Vengono in mente certi cachemire eleganti di Fausto Bertinotti o l’anelito alla barca e ai vitigni in produzione del novello vigneron, Massimo D’Alema. Fallopponi sarà costretto a ritirarsi, una volta che la cosa vien fuori.

Il professor Mollica del Movimento Sociale Italiano, invece, è truccato in maniera esagerata (indimenticabile il cerone di Silvio Berlusconi) dal regista della Tribuna elettorale, col risultato che il suo comizio televisivo sarà sospeso dopo pochi secondi. Il candidato tenterà comunque di tenere il discorso in un varietà tra le piume delle soubrette (i nani e le ballerine della felice definizione di Rino Formica, usata per gaudenti e cortigiane di epoca craxiana). Tanto che alla fine viene da chiedersi: ma -mutatis mutandis, ossia come potrebbe sostenere Totò, cambiate le mutande- si è davvero trasformata la politica italiana negli ultimi cinquant’anni? Cari signori, anzi cari casigliani, domandatevelo anche voi e datevi una risposta.

Antonio La Trippa, nato a Roccasecca (Fiano Romano nelle riprese cinematografiche) è monarchico come Totò (di simpatie monarchiche) e non si discute. Oggi chissà cosa sarebbe, viene da chiedersi: un pentastellato, un non votante in aristocratico ritiro? Forse per questo, memore del bel tempo andato di casa Savoia, tormenta militarmente i condomini suonando la carica e urlando i suoi sciocchi slogan. Ma quando si avvede dei loschi fini dei dirigenti del suo partito rivela alle persone che assistevano al comizio le losche trame, mandando a monte anche la propria elezione.

Perché l’onestà potrà anche non pagare, però serve. Almeno nel caso di Totò, la cui candida ingenuità (scusate, ma “a che serve la serva se non serve?” come vuole un celebre scioglilingua da lui recitato a menadito) riscatta qualsiasi tentativo preventivo di raggiro, qualsiasi meschinità e piccineria anche solo accennata all’origine. Lo fa grande in virtù di meriti speciali.

Un grande ingenuo, un fesso: così ama definirsi il principe De Curtis; però sincero e di buon cuore come buona parte degli italiani. Lavoratore e onesto. Basterà questo ad assicurargli un posto in Paradiso? Pensiamo di sì, se non altro per gratitudine. Perché ci ha insegnato a essere più liberi, a esercitare il nostro spirito critico senza timori e servilismi. La sua non è la lezione gattopardesca dell’è cambiato tutto/non è cambiato nulla, i tempi sono sempre uguali, la politica è una cosa sporca.

La comicità e lo stile inimitabile di Totò sono da iscriversi piuttosto nel segno della perenne disubbidienza, della mancanza di allineamento, dello sfottò, del pernacchio sonoro e fatto di (cattivo) gusto. Invitano a ragionare con la propria testa. Non sempre si tratta solo di “semplice buon senso”, ma spesso è anche solo “puro buon senso”.

Oggi affermeremmo che Totò è di destra, nella continua diatriba che tanto ci appassiona da anni, pur avendo -nel frattempo- smarrito quasi ogni orientamento su ciò che è di destra e ciò che è di sinistra, e forse proprio per questo. Oppure che è un qualunquista, pescando da un altro tipo di ragionamento, quello populista, proposto da alcuni rappresentanti del M5S, della Lega e dell’estrema destra. Però qualsiasi schema di pensiero politico in cui tentiamo di infilare Totò resta riduttivo, senza spiegare a sufficienza né lui, né la sua arte.

“La mia tendenza politica? -afferma lui stesso risolvendo ogni incertezza al riguardo- Liberal-social-democratico-monarchico-repubblicano”. Cioè, potremmo sintetizzare, un po’ di tutto fuorché comunista. Seppure, in virtù dello spirito di bastian contrario che lo spinge di continuo in avanti, è il primo a commentare, strizzando l’occhio furbetto: “Poi dice che uno si butta a sinistra!”.

A una più attenta rilettura, dunque, Totò dimostra come l’uomo-e-l’attore, tutt’uno in questo caso, siano stati a loro modo ‘rivoluzionari’. E non loro malgrado. Il messaggio di Totò, attraverso il suo continuo sberleffo a ogni potere costituito, al vedere il mondo attraverso gli occhiali (rosa) del mainstream, è come un sasso lanciato in uno stagno, in grado di creare dei cerchi sempre più ampi. Oppure come la pietra che Davide lancia con la fionda contro Golia. Un’arma piccola ma potente, in grado di colpire e perfino abbattere qualcosa di dimensioni molto superiori alle proprie. Perché apre una crepa in una visione compatta e scontata, insinua un dubbio talmente profondo nel conformismo imperante che non ci abbandona più.

Totò fa politica del dissenso, dissentendo da tutto fuorché dalla propria arte, e fa ancor di più politica del dis-senso, nella duplice accezione di controcorrente e di una disarticolazione del senso comune che contiene un plus, una vera e propria eccedenza di significato. Riuscendo, in tal modo, a conferire una pregnanza inaspettata a frasi e parole altrimenti assolutamente banali, trite e viete. Sesto senso e sensibilità non gli fanno certo difetto anche nei momenti più surreali, quando si esercita nella comicità dell’assurdo, irriverente e maramaldo oltre misura, innescando una girandola di puro dispendio emotivo e creativo.

Basti per tutti ricordare uno dei grandi interrogativi teleologici che ci ha lasciato in eredità: “Insomma, siamo uomini o caporali?”. E la risposta è che siamo uomini e caporali [6]. Occorre solo decidere quale parte di noi vogliamo far prevalere.

——–
NOTE

[1] Aristofane (Atene 450 a.C.) uno dei principali esponenti della Commedia antica. Tra i suoi lavori più celebri, le Nuvole, le Vespe, Lisistrata e le Rane, in ognuna delle quali non risparmia critiche e strali agli aspetti incongrui della democrazia ateniese.

[2] Il Fronte dell’Uomo Qualunque (UQ) un movimento e, successivamente, un partito politico italiano sorto attorno all’omonimo giornale (L’Uomo qualunque) fondato a Roma, nel 1944, dal commediografo e giornalista Guglielmo Giannini. Il suo motto era « Questo è il giornale dell’uomo qualunque, stufo di tutti, il cui solo, ardente desiderio, è che nessuno gli rompa le scatole ».

[3] L’Italiano medio è un film comico di successo del 2015, diretto da Maccio Capatonda al suo debutto cinematografico. La pellicola riprende il celebre fake trailer (un promo contraffatto) Italiano medio, parodia del film americano Limitless del 2012 all’interno del programma Ma anche no su La7.

[4] Il party scandalo del Pdl, organizzato nel settembre del 2010 da Carlo De Romanis (all’epoca consigliere e vice capogruppo Pdl alla regione Lazio), doveva in realtà rimanere segreto. Il tema era “Ulisse torna a casa e sfida i nemici”, ma vi parteciparono circa duemila persone, tra cui la stessa Polverini, e mantenere la riservatezza non fu possibile. Secondo Franco Fiorito, ex capogruppo PdL nella regione Lazio, la megafesta fu pagata con i fondi del partito e dei contribuenti.

[5] Sul riso si sono succeduti numerosi studi tra Ottocento e Novecento, anche di genere scientifico, che hanno investito la fisiologia del riso e la sua psicologia. Si è esaminata a fondo la risposta percettiva della risata e quella di tipo umanistico-filosofica da Bergson a Freud, da Nietzsche a Pirandello.

[6] “Siamo uomini e caporali. Psicologia della disobbedienza” è il titolo di un saggio dello psicologo siciliano, Salvatore Cianciabella, uscito nel 2014 (Franco Angeli Editore). L’autore è stato anche impegnato, presso alcuni istituti scolastici di Prato, nella realizzazione di corsi sull’Heroic Imagination Project del professor Philip Zimbardo. Il noto psicologo è l’ideatore dell’“esperimento carcerario di Stanford” in cui studenti modello furono indotti a comportamenti aggressivi a causa di una situazione di prigionia forzata. Cianciabella ha inserito, nella versione italiana dell’iniziativa di Zimbardo, sketch cinematografici tratti proprio dall’opera di Totò.

MicroMega online, 5 aprile 2017


Così la stampa dell'epoca

Napoli, 12 gennaio

Antonio De Curtis, in arte Totò, che ha ieri sera debuttato a Napoli con la sua compagnia di riviste, è stato ricevuto stamane a Palazzo San Giacomo dal sindaco Lauro. Totò ha chiesto ad Achille Lauro la iscrizione al partito monarchico popolare e il sindaco di Napoli gli ha concesso la tessera «ad honorem».

«Gazzetta del Popolo», 13 gennaio 1957


1957 01 13 Il Messaggero Toto Lauro intro

Napoli, 12 gennaio

Il principe Antonio De Curtis in arte «Totò» si è iscritto al partito monarchico popolare.

«Il Messaggero», 13 gennaio 1957


Napoli, 14 gennaio.

Il principe Antonio de Curtis (Totò) ha smentito la notizia, pubblicata da parecchi giornali, che egli avrebbe chiesto al comandante Lauro la tessera del partito monarchico popolare e che il comandante gliel'avrebbe concessa «ad honorem». «Nessuna tessera è stata da me richiesta nè a me concessa», ha dichiarato il popolare attore.

«Corriere della Sera», 14 gennaio 1957


1957 01 14 Il Messaggero Toto Lauro intro

Napoli, 13 gennaio

Il principe Antonio De Curtis in arte Totò ha inviato ai giornali la seguente precisazione: «Molti giornali hanno pubblicato che lo avrei chiesto al comandante Lauro la tessera del partito monarchico popolare e che il Sindaco me l’avrebbe concessa ad honorem. Devo precisare, per la verità, che lo ho avuto l'onore di essere ricevuto dall'illustre Sindaco della mia città, ma che nel corso del nostro colloquio non si è parlato di politica e che pertanto nessuna tessera è stata da me richiesta né a me concessa».

«Il Messaggero», 14 gennaio 1957


Roma, lunedi sera.

Il principe antonio de Curtis, «Totò», ha fatto ieri la seguente dichiarazione: «Molti giornali hanno pubblicato che io avrei chiesto al comandante Lauro la tessera del partito monarchico popolare e che il comandante l'avrebbe concessa ad honorem. Devo precisare per la verità che ho avuto l'onore di essere ricevuto dall'illustre sindaco della nia città natale ma che nel corso del nostro colloquio non si è parlato di politica e che pertanto nessuna tessera è stata da me richiesta nè a me concessa».

«La Stampa», 14 gennaio 1957


«Ha sentito che Totò ha ufficialmente negato di presentare la sua candidatura alle elezioni?». L. S.

Beh, io ricordo di averlo sentito gridare «Evviva Lauro», qualche tempo fa alla TV, durante il «Musichiere». Ma non mi sorprende questa sua smentita alla possibilità di un comico deputato. Immaginiamoci un po' se, col «grano» che regolarmente si becca, il principe De Curtis deve correre il rischio di essere bocciato, e tutto per tre o quattrocentomila lire al mese...

Tanto più che a Montecitorio, malgrado mentone e mossette, finirebbe per essere uno qualunque: c'è un mucchio di deputati che, quanto a comicità, lo lasciano indietro di un pezzo.

Dedo Amellone, «Il Biellese», 20 febbraio 1958


Roma 19 febbraio, notte.

Il popolare attore Totò, al secolo principe Antonio De Curtis, ha smentito oggi di avere intenzione di presentarsi candidato alle prossime elezioni. A un redattore dell’agenzia «Italia» che gli chiedeva se fosse vero che un partito di destra gli aveva offerto una candidatura alla carica, ha dichiarato: «Io dovrei diventare un uomo politico? E chi l’ha detto? Sono un attore e basta. Non ho mal pensato alla politica, nè intendo pensarci. La mia politica è il lavoro; non mi interessano le carriere politiche. E poi, non conosco la politica e non la voglio conoscere; sono un cittadino come tutti gli altri, pago le tasse come tutti gli altri e lavoro per vivere. Quindi perchè dovrei darmi alla politica? Sapete che rispondo a chi mi domanda se ho un colore o preferisco un determinato partito? Sono come il medico: vado dove mi chiamano, al capezzale di tutti, indistintamente ».

«Corriere della Sera», 20 febbraio 1958


Totò non andrà al parlamento

La notizia che il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, non si presenterà candidato alle prossime elezioni, come era stato ritenuto da qualcuno, ha provocato un certo disappunto in un noto pittore specialista in «affiches». «E' una magnifica occasione perduta» — ha detto — «nessun candidato farà sui manifesti lo spicco fisionomico che avrebbe fatto Totò».

«Corriere d'Informazione», 20 febbraio 1958


Altezza, perdoni il sentito sfogo di un Suo antico e tenace ammiratore. Io la seguo, Altezza, dagli anni di Clely Fiamma (Bologna, Teatro Manzoni) o di Paola Orlova (Bologna, Teatro Verdi). Bei tempi. Altezza. Io facevo il cronista, Lei faceva l'avanspettacolo. Lei si chiamava semplicemente Totò, io ero semplicemente il « Vice » (cioè, non mi chiamavo affatto) di E. Ferdinando Palmieri. Quanti anni sono passati? Secoli, sembra: ma Lei adesso è Principe e io non ho strappato al destino e ai ministri nemmeno una croce di cavaliere. Lasciamo stare i bilanci e gli odiosi confronti: io, Altezza, sono anche ingrassato.

Pensi, Altezza, che quando le mie figliole ridono alle scadenti trovate della Via del successo in me si scatena una struggente tenerezza : « Le infelici piccine » dico « ignorano cos’era Totò quando io e la mamma eravamo fidanzati. Quella scenetta dell’Orapronobisse che scatenava nella pomeridiana platea del Verdi convulse reazioni; e Totò e Castellani in scena per un'ora senza che neppure il sensibile pubblico della mia gloriosa città invocasse l’apparizione delle 6 Girls 6 ».

Altezza, Lei appartiene ai miti della mia generazione: noi rimpiangiamo ancora canzonette come La bambola rosa o La carrozzella, noi citiamo con devozione Spadaro e Lotte Menas (compagnia Schwarz: i grandi impresari viennesi lasciarono in deposito qualche ragazza a distinti e stimati professionisti e a facoltosi uomini d'affari).

Ricordiamo Macario e « le gocce cadono, ma che fa », guai a chi ci tocca il Zavattini di Parliamo tanto di me e il Marotta di Strattamente confidenziale; ci piacevano, pensi, Cronin e Kormendi, spasimavamo per i film di Duvivier, capivamo il disertore Gabin che impazziva per gli occhi chiari di una ragazza: Michèle Morgan. Il « gabardine » e il basco di Michèle diventarono per noi una bandiera, come le storiche calze nere di Marlene che richiamavano sempre i cultori del « cinema classico » nella saletta del Cine-guf. (I reggipetti della Lollo e della Mansfield appartengono appena alla cronaca.)

Altezza, Lei non deve più deludere questi signori dai capelli grigi che, per volerle bene, non hanno aspettato le pellicole di Mattoli o di Simo-nelli. Lei non deve lanciare, davanti alle telecamere, grida di « Viva Lauro » e nemmeno di « Viva Fanfani » o di « Viva Nenni », grida che possono anche esprimere i sentimenti del Principe De Curtis, ma che non si addicono, almeno in quella sede, al comico Totò.

Lei è un invitato: che ne direbbe, Altezza, se, ospite nei suoi saloni, approfittando di una favorevole occasione, allungassi i baffi all’immagine di qualche suo antenato guerriero, mettendogli al posto della spada la mazza del « Pazzariello », un personaggio da Lei cosi finemente interpretato? Che scherzo. Del genere di quello che Lei ha fatto agli autori del Musichiere, inneggiando, con estemporanea e non prevista battuta, al « Comandante ».

Faccia, se lo crede, dei comizi in piazza : tanto noi Totò lo andiamo a cercare a teatro. Siamo - come le ho detto -suoi antichi ammiratori e, per ridere, vogliamo fare come sempre. Noi pagheremo il biglietto.

Enzo Biagi, «Epoca», anno IX, n.385, 16 febbraio 1958


La satira della politica, oggi impossibile perché la realtà va già oltre ogni immaginazione farsesca (neppure Dario Fo, anche se Franca Rame gli avesse somministrato LSD a pranzo e a cena, avrebbe scritto il copione dell’Italia di questi anni), ebbe una sua commedia di facili costumi satirici, ma rimasta nella «vendetta» popolare della gente comune. Come accadde in una serie di titoli molto commestibili dei primi 60, molto sintonizzati nel gusto pop, vedi Gli onorevoli, che Sergio Corbucci diresse nel 1963 e che coniò il famoso slogan «Vota La Trippa...» cui voce anonima aggiungeva; «Sì, al sugo...». Evidente che il linguaggio era molto più alto di oggi, epoca di raffinati diti medi alzati e di insinuanti mani nelle tasche degli italiani: ma allora sembrava fanta politica.

Il simpatico Corbucci, che nella sua brillante carriera fece commedie ma anche gialli, melò e western, non aveva paura di sporcarsi le mani con il qualunquismo che induce alla morale del tutto da buttare. Ma questi cinque ritratti di candidati sono da ricordare, memento storico che il peggio non è mai giunto: trattasi della disfida elettorale tra l’impagabile democristiana Franca Valeri, il senatore Gino Cervi liberale d.o.c., lo scrittore comunista Aroldo Tieri, un trionfo di stereotipi. I due pezzi grossi sono però Totò e Peppino, il primo il monarchico La Trippa che si candida al partito della Restaurazione cui s’oppone il missino De Filippo, in preveggente sintesi di scontro di popoli della libertà. Ma quando uno viene coinvolto in uno scandalo, molla tutto: capita la differenza? Chiarito che un film così oggi nessuno lo scriverebbe e specificato che non si tratta di un capolavoro d’ironia inglese, c’è da dire che si sguazza nel costume con brio e ritmo.

Totò era un vero principe ma non praticante, molto attivo in rivista negli anni '40 nella satira anti Mussolini, con la Magnani. Ancora una volta vedendo questo spaccato di prima della rivoluzione del centro sinistra, viene da pensare che il nostro cinema era una grande compagnia di rivista: Totò, De Filippo, Chiari, Carotenuto e Billi, oltre a Salce e Valeri (due ex fantastici Gobbi), Mario Castellani, storica spalla di Totò, lo stesso Corbucci che appare come un albergatore.

«Corriere della Sera», 29 agosto 2010


Riferimenti e bibliografie:

  • "Totò in 100 parole" - (Ennio Bìspuri) - Gremese, 2014
  • "Caporali tanti, uomini pochissimi: la storia secondo Totò", Emilio Gentile, Editori Laterza, 2020
  • "Totò, l'uomo e la maschera" (Franca Faldini - Goffredo Fofi) - Feltrinelli, 1977
  • "Roma-Hollywood-Roma" (Franca Faldini) - Baldini & Castoldi, 1997
  • «Corriere della Sera» e «Corriere d'Informazione», 20 febbraio 1958
  • Dedo Amellone, «Il Biellese», 20 febbraio 1958
  • Enzo Biagi, «Epoca», anno IX, n.385, 16 febbraio 1958
  • MicroMega online, 5 aprile 2017