Maurizio Arena canta e dipinge

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1963 08 31 Tempo Maurizio Arena intro

Rifiutato clamorosamente e anche inspiegabilmente dal cinema, Maurizio Arena si è visto costretto a tentare nuove vie per non farsi dimenticare. Di questo suo dramma verrà girato un film di cui egli stesso sarà il protagonista

Roma, agosto

Ciak, si gira, «Imputato Maurizio Arena, siamo qui per giudicarvi». Il processo comincerà, ma non interrogheremo lui, l’invecchiato ragazzo della Garbatella, che il caso tirò fuori dalla mota per buttarlo dentro lo champagne francese. Sarà, invece, come se l’imputato avesse già ammesso tutto, ricostruendo per i giudici, davanti alle macchine da presa, la sua stramba avventura durata sei anni. Sarà come se gli avvocati difensori avessero già perorato le sue disperate ragioni e ora il verdetto spettasse alla giuria, cioè alle cinquecento donne.

«Ma perchè solo le donne? Voglio anche gli uomini. Se un giudizio ci dev’essere, che sia almeno universale». Maurizio Arena apre e chiude una scatola di mentine, ritmica-mente. Ogni tanto prende una mentina e la mangia. Vuole un giudizio universale. Forse ha capito che in questo processo, ossia in questo film che Zavattini e Partesano stanno preparando, lui non è il vero imputato. Gli imputati siamo tutti. Se il ragazzo della Garbateli dovrà tornare alla sua mota, pochi si salveranno. Saranno giudicate le madri, quelle che lo incontravano per la strada e gli tendevano i figli gridando: «Maurizio, toccali», come fanno col Papa.

«Ero in un rotor e giravo. Sa i rotor delle fiere? — spiega Maurizio Arena, e si tiene le tempie fra le mani, come se ancora sentisse tutto girare. — C’era un gran chiasso e io non ne potevo più. Ogni tanto chiamavo: "Ahò, me fate seenne?”. "No, sta lì bbono. Scendi dopo”. E io a girare, frastornato. inscemito. Poi un giorno m’hanno fatto scendere. Credevo che fosse per un momento, e invece mi sono trovato fuori. A terra. Steso come un manifesto».

Fuma quattro pacchetti di sigarette il giorno. In un'ora, coi suoi mozziconi m’ha riempito il portacenere. Stasera ha rinunciato alla solita scopa col sor Paolo, il pioniere dell’Infernetto. un quartiere nuovo giù verso Ostia. E m’ha portato un fascio di poesie, le sue. Sono dentro una cartella verde. battute a macchina. Le tiene in mano con delicatezza. «Forse prendevo troppo posto. Ma non lo avevo scelto io il posto che dovevo occupare, m’era andata così. In Italia la gente sta in poco spazio: un metro e settanta altezza, quarantasette centimetri di larghezza. Io occupavo venti centimetri in più, in lungo e in largo».

1963 08 31 Tempo Maurizio Arena f1Maurizio Arena con i nastri delle canzoni che ha inciso in questi ultimi tempi. Fra poco partirà per il Sud America - San Paulo, Rio de Janeiro, Buenos Aires, Caracas - dove presenterà una serie di dodici canzoni di cui sei sono sue, e sei sono successi italiani come ”Il cielo in una stanza” e "Amo solo te". Arena è uno degli attori italiani che ha lavorato di più: dal 1953 al ’60 ha interpretato sessantaquattro film fra cui: "Poveri milionari”. "Appuntamento a Capri” e "Vacanze a Ischia”.

«Forse, signor Arena, lei era anche ingrassato». «Ingrassato? Crede che questo sia grasso? Senta qua. Sono tutti muscoli». Sono tutti muscoli, davvero. «Del resto mia madre me lo dice sempre: "Maurizio”, dice, "io te dovevo fa’ venti centimetri più basso e venti più stretto. E la faccia te la dovevo impasta pe’ storto. Ma te dovevo mette dentr’ar core un pizzico de cattiveria”. Se conoscesse mia madre capirebbe me».

«Finché non trovo una donna come mia madre, è difficile che mi sposi», dice Maurizio. Apre la scatola, mi offre una mentina. Gli chiedo se vuole del whisky ma dice che non beve perchè s’ubriaca subito. «Sì, c’è stato un tempo che bevevo. Come no. E mi sbronzavo. Pigliate uno com’ero io e dategli tutto quello che io ho avuto. Volete che non si sbronzi?».

E ora, dopo la grande sbronza, dopo l’ultimo film. Marcia o crepa, dopo un lungo digiuno di lavoro, ecco un nuovo personaggio da interpretare: Maurizio Arena. E’ un’idea di Zavattini, Dino Partesano sarà il regista, e il film, che dovrebbe chiamarsi La cavia, si girerà in autunno. Sarà un processo agli sbagli di Maurizio Arena, ma anche alla società che glieli ha fatti commettere. L’ultima inquadratura ci mostrerà lui con lei, che è una povera randagia da marciapiede, su un letto disfatto, nella villa di Ostia, vuota, in disarmo. «A Ni’ — dice lui — ma secondo te che potrei fa’? Che potrei fa’ pe’ ripijamme?». «Boh». Carrellata all’indietro, dissolvenza, musichetta e FINE.

Zavattini ha sceneggiato, pari pari, la vita dell’attore fusto. Maurizio, riconoscente, gli ha dedicato una poesia: «Lesse alcune - mie aspirazioni -racchiuse con modestia - in otto paginette. - Scopri un tessuto - umano valido - e riuscì a modificarne - il disegno. - Mi parlò come un padre - e con una sensibilità -quasi materna per paura - di essere frainteso, - umanamente. Mi invitò a parlargli - di me: dei miei difetti - dei miei pregi... _ degli amori e le avventure... - di tutto ciò - che la vita m’aveva dato».

Se le aspirazioni di Maurizio potevano essere racchiuse in otto modeste paginette, per contenere la sua vita non sarebbe bastato uno stadio. Per la maggior parte delle gente era una vita offensiva. Il giovane aveva interpretato sessantaquattro film in sei anni e si era visto riprodotto su ottantacinque copertine in dodici mesi. Fosse stato solo per questo, gli unici a sentirsi colpiti sarebbero stati gli attori, quelli che per avere una parte farebbero qualunque cosa. Invece la vita di Maurizio offendeva la gente. Non erano i film. Poveri ma belli. Poveri milionari, Vacanze a Ischia, Marinai donne e guai, Il magistrato, Appuntamento a Capri e gli altri, coi loro titoli da periferia. Quelli, anzi, divertivano. Immortalavano un tipo di italiano al quale anche gli stranieri sono attaccati. Maurizio offendeva la gente che va per strada alla fine dello spettacolo, quando si torna a casa, si ha un po’ sonno, si aspetta l'autobus che non viene, col bambino addormentato su un braccio e la moglie che pende dall'altro. In quelle domeniche sera, gonfie del presagio di una settimana da poveri cani, magari passava Maurizio, proprio lui. che recitava nel film.

«A Maurizioooo!». gridavano i giovanotti, quando passava "er più mejo vestito come sullo schermo. Solo che nel film era un personaggio domestico. si accontentava, era pieno d'avventure ma voleva sposare la ragazzina del piano di sotto. E le avventure le aveva soltanto perchè voleva un po’ vivere. Ma poi tornava tranquillo a casa, al suo lavoro da quattro palanche, sano, ottimista, mediocre, italiano. E invece per strada passava con la fuoriserie, avendo al fianco donne d’un’altra razza. imbellettate, vestite come dice lui. da "pipistrelli”. E lui faceva così con la mano, verso chi lo aveva riconosciuto. Poi piegava la testa un po’ sul volante. un po' verso la compagna. sempre mantenendo quella piccola andatura da turista ricco. Si capiva che sceglieva le parole e illustrava magari alla principessa, all’attrice straniera. quel mondo umile e segreto, come chi porti qualcuno al museo. Faceva un gesto con la mano, e chissà cosa diceva. Forse la Garbatella diventava il regno di Gordon, e lui era Gordon, e il quartiere, coi ragazzi. le motorette, i bar al neon, i casermoni popolari parevano nascere intorno alla fuoriserie seminati da lui, da un suo gesto largo centottanta gradi. Quando sono malinconico. diceva mentendo, torno qua. Qua soltanto mi piace vivere. Invece, neanche per idea. Tanto è vero che indirizzava subito il muso della Mercedes verso la villa o l’appartamento di città: verso il whisky, la luce diffusa, la camera tutta nera con le lenzuola che sembravano al fosforo. E i giornali erano pieni delle sue gesta, pieni da scoppiare.

«Ma io facevo il divo — spiega Maurizio — che altro dovevo fare? Ho esagerato, va bene. E la gente si è seccata. Ma io credevo che lo volessero».

E' a questo punto che Zavattini. nello scrivere la sceneggiatura della biografia di Maurizio Arena ha aggiunto una punta di furbizia e di buon senso commerciale. Ha preso Maurizio e lo ha messo su un letto con una passeggiatrice. c Anvedi com’è finito Maurizio — dirà la gente. — E’ finito con una di quelle. E senti a chi si raccomanda, Maurizio, a chi chiede consiglio».

«A Nì, ma secondo te che potrei fa? Che potrei fa pe’ ripijamme?» E lei, lei pure gli risponde a tono. Guarda il soffitto, fuma, e c Boh», gli risponde. Il film finisce qui, a Maurizio gli sta bene, così impara. E suonando tutte le corde della vendetta, il successo del film sarà assicurato.

1963 08 31 Tempo Maurizio Arena f2L'attore nella sua casa di viale di Villa Pamphili 196 a Roma con alcuni quadri dipinti da lui; conta di presentarli in una mostra personale a Nuova York nel prossimo autunno. Il primo film di Arena, quello che gli ha dato subito la popolarità, è stato "Poveri ma belli” del 1953, diretto da Mario Mattoli, l’ultimo è stato "Marcia o crepa”. I primi lavori che ha fatto entrando nel mondo del cinema sono stati il doppiatore e la controfigura. Per un certo periodo ha fatto anche l’acrobata.

Odia la sua faccia

Maurizio Arena, dunque, con quel finale, secondo il giudizio del pubblico tornerà nel fango. Ma non è dal fango che era partito. Era uscito dall’accademia di Scharof: c’era arrivato da uno dei quartieri più stracciati di Roma, con venti centimetri di più in lungo e in largo e una faccia dalla quale poteva trasparire tutto tranne un mondo interiore.

«Mi odio, fisicamente mi odio: la mia faccia, le mie spalle. Non si vede nulla di quello che ho dentro. Sono coperto da questo strato spesso, opaco. L’ho scritto li, nelle poesie: "Vorrei essere esile, triste. poeta. Ma sono gaio, forte, analfabeta". Nella poesia, si capisce. Non sono gaio, nè analfabeta. Parlo quattro lingue. leggo, distinguo Kafka da i Proust. Ma gli altri hanno costruito un certo personaggio! ed io mi sforzavo di somigliar- I gli. Nessuno mi aveva spiegato i pericoli di questo gioco. Se mi fossi risparmiato avrei potuto, forse, durare ancora cinque o sei anni».

«E poi?». «E poi: questo è il punto. Sarebbe venuto un poi. Mi avrebbero tirato giù dal rotor completamente "suonato”, come si tira giù un pugile dal ring. Uno di quei pugili che cerca ancora l’avversario brancolando in giro, e non si accorge che l’avversario ha già vinto, già gli sfilano i guantoni. già si riveste per andarsene. Mi vedo, a trentacinque anni mettiamo, con un principio di pancia e di calvizie, senza aver avuto il tempo di imparare nulla, di capire nulla. Invece è andata in un altro modo. Dai giorni di Poveri ma belli sono passati otto anni e io sono cresciuto, dentro.

Mi corrono dietro gli agenti delle tasse, e va bene. Sono nei guai, e va bene. Mi sono rimasti pochi amici, e va bene. Ma io non sono più quello delle copertine, quello che era dappertutto, che cantava al Musichiere, che si vedeva in tutti i cinema. Quello là non aveva il tempo di diventare qualcosa. Non aveva nemmeno il tempo di dormire. Quando lasciavo il set dovevo reggere il personaggio: era diventato un obbligo. E la mia casa era piena di gente, un campio- . nario incredibile. VenivanA I tutti da me. i ragazzi della Garbatella, gli attori famosi. Anche gli intellettuali, a studiare "il mostro". Io giocavo al "Maurizio Arena”. "Me voi rovina? — dice. — E famma sta’ un’ ora a tavolino”. Poi, i libri, mi toccava di leggerli di nascosto. E quando volevo proprio riposarmi dovevo farmi largo tra gli invitati che passavano tutta la notte a casa mia. L’ho pagata anche un milione e mezzo, una giornata di sonno». Un milione e mezzo era, infatti, il prezzo di una giornata di lavorazione. Ogni tanto, per lo sfizio di dormire, Maurizio bloccava il film e pagava le spese di tasca sua. «Ma che male facevo? Quando i soldi non c’erano ne guadagnavo altri. E anche se li buttavo via così, chi poteva rimproverarmi?». Nessuno. O forse tutti. Non è offensivo buttare via un milione e mezzo per una giornata di sonno, quando si potrebbe dormire di notte?

Su questo "mostro” Dino Partesano ha svolto un’inchiesta precisa, minuziosa. Ha ricostruito la vita di Arena dal primo film con Mattoli all’ultimo, Marcia o crepa. Ha scoperto che per anni Maurizio ha pagato, soltanto al macellaio, conti di settecento o ottocentomila lire il mese. E’ vero che la sua casa era sempre aperta ai vecchi amici del quartiere, al "Budda", a ”er Morina”, a "Picchio Pallone”,a ”er Palandri”, a "Alinone".

I ragazzi, in vita loro, di bistecche cosi ne avevano viste poche. E gli intellettuali pure. Ma la casa di Maurizio non era aperta solo ai conoscenti, era come un ristorante sull’autostrada, dove c’è un gran traffico e le facce dei clienti cambiano di continuo come le combinazioni di un caleidoscopio. Ci fu uno che una sera venne, mangiò bistecche, ci mise sopra la me tarda, bevve xeres, fece il bagno coi sali profumati, si cambiò la cravatta, cosa che facevano tutti, del resto, perchè chi aveva mai visto tante cravatte se non dentro un negozio? Quando se ne andò si scoprì che nessuno lo conosceva. «L’hai portato tu?». «Io?». Era venuto, aveva mangiato, era stato in una calda compagnia e se n’era andato con una cravatta.

«Maurizio — dice il regista — ha passato questi ultimi anni a lasciarsi derubare. Ha sempre chiuso gli occhi su tutto. Un meccanico si occupa-ve della sua Mercedes. Maurizio chiamava la sua Mercedes l' "Andrea Doria”. Be’, a forza di inventare guasti al carburatore, difetti alle candele e così via, il meccanico s’è messo su un garage. L’ "Andrea Doria” era sempre stata in ottima salute. Quando il meccanico ebbe la sua officina, Maurizio guardò bene che non mancasse neppure un accessorio. E quando fu sicuro che c'era anche la più piccola chiave inglese: «Be’ — disse — ora basta». «Ma come — rispose l’altro — tu lo sapevi?». «E che ci ho scritto scemo? Ora sei a posto e ti mollo. Va tranquillo». E cambiò garage.

1963 08 31 Tempo Maurizio Arena f3Arena indica il quadro di un suo amico, che tiene nel soggiorno di casa sua: rappresenta un gruppo di noti personaggi romani tra cui Giuseppe Patroni Griffi, Franca Valeri, Vittorio Caprioli e Franco Rosi. L’attore possiede una villa verso Ostia in un nuovo quartiere residenziale che si chiama l’Infernetto, ma preferisce l'appartamento romano dove ha i suoi quadri e i suoi libri: ha fatto il liceo scientifico e parla quattro lingue.

Stufo di giocare

E i ladri? Lo attraggono, chissà perchè. «Gente che quando paga, paga di persona — spiega. — Gente a posto, con un fegato cosi». Gli amici ladri, che sapevano questa simpatia di Maurizio, trovavano sempre la maniera di fare una telefonata, per tenerlo al corrente. Lo chiamavano in piena notte, alle due, alle tre: «A Mauri». «Chi è?». «So er Pinco». «Che è successo?». «Gnente è successo, che deve esse’ successo? Starno a rubbà, t’avemo telefonato, cosi te diverti. Che, lo senti 'sto rumore?». Nel microfono entrava un suono confuso, metallico. «So’ posate d’argento. Semo in un ristorante. Le starno a mette dentro ar sacco. Ciao, Maurì». Maurizio riattaccava il microfono e gli sembrava di leggere Nembo Kid. Una volta "Alicione", distratto com’è, rubò una bella macchina nuova di zecca. Era una "pantera" della polizia. Intervenne Maurizio, pagò la cauzione e via dicendo.

In quel tempo Maurizio aveva un maggiordomo, scelto con cura tra centinaia di candidati, non perchè fosse particolarmente bravo ma perchè somigliava tutto al suo produttore del momento. A volte, senza nessuna ragione, Maurizio tirava un calcio nel sedere al maggiordomo, che non capiva nulla di nulla. «Ma perchè, sor Arena, m’ha dato sto’ calcio?». «Zitto, nun t’impiccià. tu non ciai colpa. T’aumento lo stipendio». Calci a parte, quando Maurizio Arena si faceva allacciare le scarpe dal sosia del suo padrone era dux anges. Sentiva d’aver conquistato un posto nel mondo.

«Ero un ragazzo. Mi volevano cosi, tutti applaudivano e pagavano perchè ero così. Come facevo a capire che mi stavo fidando troppo dei loro applausi e che prima o poi sarebbe finita male?». Ora Maurizio Arena non sa più bene cosa vuole. Di certo, non vuole più giocare, non si diverte più alle solite cose. Io stessa posso testimoniare che è cambiato. Una volta, cinque o sei anni fa, capitammo a casa sua dopo un ricevimento.

Eravamo tanti, noi, e tanti erano loro. Arena e i suoi amici. Noi avevamo anche un generale, in uniforme di gala con decorazioni. E loro avevano un soldato. «Signor generale — diceva il soldato sbronzo — non ho mai toccato un generale: la posso toccare?». E il generale: «Sicuro che mi puoi toccare, soldato».

Oggi Arena ha imparato ad aver paura dei generali, di qualsiasi tipo. Specialmente dei generali del cinema. Il successo di una volta, quel successo, non lo interessa più.. Vorrebbe stravincere e poi ritirarsi. Potrebbe fare il regista, oppure il cantautore, oppure dipingere. Tra qualche mese ha una mostra a Nuova York, di duecento quadri. «Sono un figurativo surrealista — dice lui. — Posso fare tutto: anche lavorare».

Una cosa non gli riuscirà di fare, forse: cambiare il finale del suo prossimo film. Al posto di quella donna nel letto, lui vorrebbe lasciare un gran vuoto color bianco-lenzuolo. Sdraiarsi accanto a quel vuoto come si sdraierebbe accanto alla moglie che non riesce a trovare. Tirar su l’antenna della radiolina transistor, ascoltare il mondo e sparire in lontananza, con una carrellata all’ indietro dal primo piano del letto, la dissolvenza e la parola "FINE".

Mirella Delfini, «Tempo», anno XXV, n.35, 31 agosto 1963


Tempo
Mirella Delfini, «Tempo», anno XXV, n.35, 31 agosto 1963