Totò e Charlot, l'arte di far ridere

1992 Toto Chaplin 1010


Io e Chaplin abbiamo cominciato nello stesso modo; è stata la fame a darci una disperata volontà di maturare e di riuscire in quello che ritenevamo l'unico scopo della nostra vita.


1937. Il monello... sedici anni dopo...

Il monello

Agli esordi, avevano entrambi una specie di divisa da comico: bombetta, bastone, una certa nobiltà della miseria. Ma Charlot è un clochard, che sin dai tempi dl muto ha vestito i panni a volte un po' patetici del diseredato e vittima dei potenti. Lo abbiamo visto operaio in fabbrica in "Tempi moderni", affamato cercatore d'oro, barbiere ebreo sosia di un dittatore antisemita.

Con una comicità gentile e tenera ci ha raccontato clownescamente i temi eterni della lotta di classe. Tanto da essere costretto a scappare dall'America ai tempi della maccartiana caccia alle streghe. (Lo racconterà in un suo film minore: Un re a New York).

Totò invece era un principe povero; era snodato, smodato e pirotecnico, non un burattino. La sua comicità a differenza di Chaplin era perfida, spietata contro i vizi di poveri e ricchi. Totò non muoveva alla commozione, era una bomba deflagrante all'interno della società borghese e benpensante. Forse l'unico personaggio chapliniano che avrebbe potuto interpretare è lo scatenato Verdoux pluriuxoricida.

Inoltre era un comico di parola, che nessun copione è riuscito mai ad arginare: ha compiuto una rivoluzione nella lingua italiana, stravolgendo i luoghi comuni, smascherando le ipocrisie del linguaggio.
Charlot, col tempo, ha rinunciato al meglio di sè, a quella perfetta comicità visiva e ha cominciato ad "amarsi" e a compiacersi come attore, regista, musicista, insigne poeta dell'animo umano. Avrebbe detto Totò: "Ogni limite ha una pazienza!"


Il monello 2

Il monello 2


Tra universale e particolare: Chaplin e Totò

di Giacinto Imperiale


Signor Charlot, permette? Sono un collega

Chaplin

Saint Tropez, in un'estate degli anni '50. I ricordi di Franca Faldini.

Una mattina, tornando dall’acquisto di un paio di baguette per la giornata in mare, scorgemmo un assembramento sul porto proprio davanti all’emporio Vachon. Intrufolandoci, arrivammo sotto un grosso yacht dove, seduto in coperta, un uomo bianco di capelli si faceva radere dal barbiere locale. La gente attorno mormorava: «Mais oui, c’est lui», con lo stesso tono estatico di chi guarda un acrobata sul filo. L’uomo levò il volto mezzo ricoperto dalla schiuma e, per lo spazio di un attimo, regalò ai presenti l’accenno di quello che poteva essere un sorriso ma anche un ghigno. Era Charlie Chaplin. Fu come se davanti agli occhi di un Antonio bambino si fosse materializzato Mandrake. E infatti continuò a fissarlo, rapito quanto gli altri. «Be’, sì...» mormorò un paio di volte, quasi parlasse con se stesso. «Però...»
«Be’, sì... però... cosa?» chiesi.
«Be’, sì, che artista immenso! Però, è anche vero che lui evidentemente ha bisogno di truccarsi coi baffi e il cappelluccio per rendere comici i suoi tratti mentre io no, mi basta muoverli.»
«Perché non andiamo a salutarlo?» proposi.
«Ma che ti sei ammattita? Vedrai che adesso vado lì e dico: “Signor Charlot, permette? Sono un collega, abbiamo in comune il nome d’arte con l’accento sulla o!” E sai a lui quanto gliene fotte, quello non sa neppure che esisto! » E mi trascinò via.


Umberto Eco, Totò e Charlot

Umberto Eco


Sul “Corriere della Sera” di lunedì scorso Tullio Kezich risponde a Renzo Arbore il quale avrebbe affermato che Totò è più grande di Charlie Chaplin. Kezich osserva che Chaplin è un artista a tutto tondo perché ha concepito e diretto, oltre che interpretato, i suoi film, mentre Totò è stato variamente sfruttato, direi, come “materiale” comico e in modo spesso occasionale.
Preciso che sono un fanatico di Totò e non mi stanco mai di rivedere i suoi film, anche se li conosco a memoria, mentre rivedo Chaplin con moderazione, oserei dire con rispettoso distacco. Eppure ritengo che Chaplin sia un grande artista, come Balzac o Vivaldi, mentre Totò resta un insuperabile fenomeno di comicità instintiva, un fatto di natura, come un uragano o un tramonto.

Ci si può beare ogni sera del tramonto, anche se si sa già come va a finire, mentre non ci si può passare la vita a guardare la Vittoria di Samotracia. Se una donna piace, non ci stanchiamo di cercarla, di guardarla, pensarla e - a Dio piacendo - aver con essa commercio sessuale; invece ci basta ascoltare la Quinta di Beethoven solo una volta ogni tanto, e guai se ce la suonassero tutte le mattine al risveglio.

Quali sono i meccanismi di un’opera che mi permettono di parlare di grande arte in un caso, e di piacevolezza, o di artisticità diffusa e sporadica, intrisa di naturalità, nell’altro? Ecco alcuni spunti (da sviluppare) per una comparazione testuale tra i film di Totò e quelli di Chaplin.

Anzitutto, la possibilità dell’universalità. La grande opera, anche quando racconta una storia qualsiasi, induce il destinatario a proiettarvi se stesso e i problemi dell’umanità tutta. Chaplin riesce a far questo, i suoi emigrati, i suoi cercatori d’oro, i suoi innamorati sconfìtti sono tutti noi. Per questo ridiamo a mezza bocca, con gli occhi umidi. Totò rimane invece un partenopeo marginale sulla cui animalità ridiamo senza ritegno perché ci sentiamo superiori a lui. Secondo elemento, la coerenza testuale.

Non potete prendere Chaplin che mangia la scarpa e inserire la gag in Tempi moderni, né Chaplin che compulsivamente ripete il gesto impostogli dalla catena di montaggio, e inserirlo nella Febbre dell’oro. Ogni sua gag “fa corpo” col resto dell’opera. Invece la scena del vagone letto è sublime (come il cielo stellato sopra di noi), ma potrebbe essere inserita in qualsiasi film di Totò, e non importa se lui sia un musicista fallito o un nobile decaduto. La prodigiosa iniezione sulla scaletta all’editore Zozzogno (o Tiscordi) starebbe benissimo sia in Totò le Mokò che in Totò cerca moglie.

Terzo, economia, ovvero la capacità di togliere il soverchio. Totò si è inserito armonicamente in un’opera compiuta solo quando un regista forte lo ha disciplinato e “ridotto” (come è avvenuto con Pasolini o con la scena, da antologia, del Fu Cimin in I soliti ignoti). Per il resto la sua comicità funziona sulla sovrabbondanza e non ce limite ai “perdinci, anzi perbacco” che potrebbe pronunciare. L’arte invece è risultato di un calcolo con squadra, compasso e misurino. Chaplin svacca, e lo si sente, quando ripete senza ragione certe mossette o sorrisini imbarazzati, e cade quando non sa misurare i suoi tic. Totò ha certamente una tecnica istintiva e sapiente, ma la inserisce in un’economia della dismisura. L’economia di costruzione è quella che permette di non rileggere o rivedere troppo sovente la grande opera d’arte: ce ne ricordiamo lo schema, i passi salienti, l’atmosfera. Invece la comicità naturale va consumata con ingordigia, perché non si purifica nella memoria, ma rimette in gioco ogni volta i nervi e le trippe.

L’analisi potrebbe continuare. Si tratta di “anatomizzare” i testi. Alcuni ogni tanto affermano che ad analizzare con precisione anatomica i testi si finisce per far apparire “Topolino giornalista” altrettanto grande di “Re Lear”. Chi dice così è un fuoricorso svogliato che non ha mai letto veramente una pagina dei formalisti russi, o di Jakobson, o di Barthes, o di Greimas, o di Cesare Segre. Si accorgerebbe che avviene esattamente il contrario: solo studiando un’opera come accorta strategia d’effetti si può spiegare quello che altrimenti rimarrebbe come sensazione inspiegabile, e cioè perché Cordelia sia più importante di Clarabella.

Umberto Eco


Nel luglio del 1992 uscì su due quotidiani un interessante botta e risposta tra Renzo Arbore e il giornalista Tullio Kezich sull'arte espressa da Totò e Charlie Chaplin, una sorta di paragone sull'impatto che hanno avuto i due grandi comici sul pubblico. Interessante leggere i due punti di vista, apparentemente opposti ma che in definitiva si accostano molto nel giudicare, in relazione alla loro epoca e e al loro percorso artistico, l'eterna grandezza del principe Antonio de Curtis e di Charles Spencer Chaplin.


1953 04 04 Epoca Silvana Pampanini intro

Sono stato «convocato» molte volte per dire la mia su Totò. Dalla figlia, per la prefazione del suo primo libro, da tanti giornalisti e intervistatori televisivi e radiofonici, probabilmente per la mia passione, per la mia piccola competenza. lo mi fregio di dirmi totologo, ma qualcuno lo aveva già scoperto, nei corso della mia, ahimè, lunga carriera televisiva, perché ogni tanto la citazione totoesca veniva fatta, e Totò era debitamente ringraziato, quando la battuta mi veniva spontanea, per merito, appunto, della grandissima scuola comica che Totò rappresenta.

Dopo aver tanto guardato i film di Totò, studiato la sua arte e parlato di lui, mi accorgo della differenza fra il grande artista e l’artista. Totò è uno dei pochi, ma veramente uno dei rarissimi grandi artisti di spettacolo che abbiamo in Italia, lo affermerei, disposto a subire qualsiasi tipo di dibattito che Totò, in fatto di comicità e di valentia come attore cinematografico tout court, non soltanto umoristico, non soltanto comico, ma anche drammatico (in quei rari momenti in cui, Pasolini a parte, doveva essere drammatico per esigenze di copione), è uno dei tre grandissimi geni destinati a durare nel tempo, nei secoli dei secoli. Penso a Charlie Chaplin, Stanlio e Ollio e Totò. Quasi quasi mi dispiace di mettere Stanlio e Ollio nel novero dei tre grandi, perché Totò è stato più grande e più ricco di significati, più moderno.

Però, indubbiamente, anche i due inglesi appartengono a quella grande arte della comicità eterna, dai canoni immutabili e mutabili, antichi e moderni, che li fanno assurgere al ruolo di grandi artisti. Chaplin, lo sappiamo, ha prodotto opere straordinarie. Ma Chaplin è uno riflessivo e un intelligente, un grande tecnico razionale della comicità e dell'umorismo, amaro e denso di significati. Totò era profondamente istintivo e quindi più geniale. Perché la sua comicità, la sua stravaganza, it suo «Siamo uomini o caporali?» non hanno spiegazioni razionali, vengono fuori dal cuore, affidati alla genialità del l'irrazionale, e proprio per questo più alti, come in certi casi la musica o le grandi arti,

Mi piacerebbe che il pubblico, nel venticinquennale della morte di Totò, celebrando la sua arte, non lo guardasse soltanto per sorridere, ma anche per apprezzare la doppia, tripla lettura che c'é nei suoi occhi. Una lettura dalla quale traspare innanzitutto l'anima più bella, più classica e più nobile di Napoli. La Napoli che amo io è la Napoli di Totò. Una Napoli profonda, nobilissima, classica, fonie addirittura aristocratica - nel senso non certamente letterale del termine -dietro la quale si nascondono drammi, civiltà, disincanto. Ma anche il sussiego, l'attrazione e il rispetto per l’arte in genere. Mi piacerebbe quindi che il pubblico ne valutasse anche la grandissima valenza artistica come attore drammatico.

Il mio invito ai totologi futuri è quello di guardare in quelle pieghe dei film comici, fatti fortunatamente da registi che lo hanno lasciato libero, senza imbrigliarlo, per sua e nostra fortuna, in un film d'arte, d'autore, lasciandolo libero di improvvisare, con Peppino e con la sua bravissima spalla, laddove it copione doveva essere drammatico. Parlo di Arrangiatevi, in cui Totò, per problemi di casa, deve andare ad abitare in una casa di tolleranza. Parlo dei I due colonnelli, quando Totò fa il colonnello in pensione e viene irretito da Franco Fabrizi. Poi di Totò, Peppino e la dolce vita, Totò, Peppino e la malafemmina, dove un grandissimo Totò riesce ad esprimere tenerezza, solidarietà umana e dolore. E questo che fa di Totò il mio beniamino in senso assoluto anche in senso drammatico. È perciò che parlo di grande artista. Totò non sapeva di essere un grande attore drammatico. La sua istintività d'attore lo portava a calarsi, in maniera assolutamente impareggiabile, in questi ruoli con grande versatilità e globale capacità d’interpretazione. è questo che mi fa ritenere Totò uno dei pochissimi grandi artisti del nostro Paese.

Renzo Arbore, «L'Unità», 12 luglio 1992


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1992 07 13 Corriere della Sera Toto Chaplin intro

Discussioni / Il principe de Curtis meglio di Chaplin? Una risposta a Renzo Arbore che difende Napoli contro tutti.

Se Renzo Arbore ci avesse confidato che per lui Totò è meglio di Charlie Chaplin dopo un'allegra colazione sotto il sole di Mergelllna, al momento del caffè, niente da obiettare. Anzi ci sarebbe da sorridere compiaciuti per una simile fragorosa opzione di napoletanità, nonché per la fedeltà arboriana nei confronti di quello che considera il suo maestro. E il nostro consenso conviviale sarebbe appena offuscato da un minimo sospetto di promozionalità in quanto è noto che l'animatore di «Quelli della notte» sta preparando da tempo un omaggio televisivo in due serate al Principe del varietà.

Ma il veder trasformata una battuta paradossale («Lo dico? Totò meglio di Charlot») in un titolo sulla prima pagina di un quotidiano serio come «L’Unità» (di ieri, 12 luglio) lascia davvero perplessi: e l'affermazione diventa difficile da condividere, mentre è facile indicarne tutti i rischi.

Nel suo articolo Arbore afferma che Totò «è uno dei tre grandissimi geni destinati a durare nel tempo, nel secoli dei secoli». Presumo si riferisca ai geni della comicità perché subito enumera Charlie Chaplin, Stanlio e Ollio e Totò. che per la verità sono quattro.

Ma ciascuno di noi, a questa stregua, potrebbe controaffermare che il più grande di tutti è Larry Semon detto Ridolini. E altri ancora potrebbero protestare: e Buster Keaton dove lo mettete? E Jacques Tati? E Harry Langdon? E Danny Kaye? E, per restare in Italy, sarebbe d'obbligo mettere in lizza l’immortale Peppino; e De Sica, quando decideva di farci ridere come nel «Processo a Frine»; e Eduardo con il suo pernacchio; e Fantozzl nostro contemporaneo; e il pirotecnico Benigni. Per tacere di molti altri.

Se poi telefonate a Tellaro e chiedete a Mario Soldati qual'è stato il migliore comico italiano del secolo, il grande vecchio vi risponderà quasi certamente con il nome triestinissimo di Angelo Cecchelin. Proprio come un tedesco vi direbbe che dopo Karl Valentin non si è andati oltre. L’esazione della risata è un rito antropologico, legato alle vicende di un popolo, all’ambiente e al linguaggio. Il riso è un fenomeno soggettivo, che risponde a una chiamata profonda prenatale, emergente a sorpresa dal nostro codice genetico.

È comprensibile, quindi, che mezza Italia, quella del Sud, della pulcinellata, della sceneggiata, impazzisca per Totò; ed è del pari comprensibile che l'altra mezza Italia sia più che disposta a lasciarsi irretire in questa trama di buonumore. Tuttavia nessun rapporto si può seriamente istituire fra Charles Spencer Chaplin e Antonio de Curtis: e puntualizzarlo è perfino pedantesco. Non occorre essere professori di cinema per sapere che Chaplin è l'autore unico, assoluto, indiscutibile dei suoi film: mentre Totò non ha mal fatto il regista e a tavolino, come scrittore, ha filiato qualche poesia partenopea e «Malafemmina». Inoltre Chaplin è stato sempre il produttore di se stesso, cioè ha fatto ciò che voleva quando e come gli pareva, mentre Totò ha subito, soffrendone, l'avvilente condizione dello scritturato.

Insomma Totò non può essere considerato né meglio né peggio di Charlot per il semplice fatto che si tratta di due personalità incommensurabili. Paradosso per paradosso, se volessimo davvero inviare qualcuno sul ring della popolarità universale nel secolo che si sta chiudendo, contro l'imbattuto fenomeno planetario costituito dal personaggio di Charlot potremmo immaginare un solo sfidante: Mickey Mouse alias Topolino.

Tullio Kezich, «Corriere della Sera», 13 luglio 1992


1987-04-11-Il_Mattino


Ho lavorato una sola volta con Totò, nel 1951. Il film era «Totò e i Re di Roma» e il mio personaggio, una partecipazione, somigliava a quello di «Mamma mia che impressione!»: un maestro di scuola che bocciava Totò alla licenza elementare. Non l’ho molto frequentato, però ci incontrammo dopo, quando io giravo «Un americano a Roma»; lui espresse il desiderio di conoscermi, di stare insieme, e mi invitò a cena nella sua casa ai Parioli.

Mi chiese subito di dargli del «tu», anche se io gli confessai la mia emozione nel trovarmi di fronte all’esempio vivente del comico tradizionale, colui che, al solo apparire, in teatro o sullo schermo, conquistava il pubblico prima ancora di dire «Buonasera». E infatti certi suoi film venivano snobbati dai critici perché non c’era niente da commentare, c’era soltanto da esaltare la sua immagine che, da sola, bastava a far ridere. Un attore talmente eccezionale e irripetibile che forse ci vorranno cento anni perché ne nasca un altro.

Certo, la mia carriera è stata molto diversa da quella di Totò. Io non facevo ridere di colpo, dovevo studiare per far emergere quell’ironia che avevo dentro e che rispecchiava la realtà del momento, sulla scia del neorealismo; dovevo creare situazioni, storie, personaggi. A lui tutto questo non serviva, ma era molto interessato a capire come si evolveva il cinema, sentiva che stava nascendo un genere in cui, al contrario del passato, il comico non poteva essere solo «presenza» fisica.

Non mi sorprende affatto, quindi, che tra le carte di Totò sia stato ritrovato un foglio di appunti, diviso in due colonne: da una parte c’è scritto «Totò», dall’altra «Sordi», e sotto alcuni titoli di film suoi e miei con accanto i relativi incassi. Non credo che Totò prendesse questi appunti per raffrontarsi con me, considerandomi magari un antagonista. Credo che volesse confrontare il genere dei film suoi con quelli miei, proprio per studiare quell’evoluzione di tendenza del pubblico cui accennavo prima. E credo avesse capito che la nascita della commedia all’italiana faceva emergere altri tipi di personaggi che ugualmente potevano far ridere la gente, anche se lui dominava ancora il cinema comico.

Insomma, Totò era il massimo allo stato puro, all’altezza di Charlot e di Buster Keaton. Oggi si riconosce che lo si può capire dovunque, mentre noi abbiamo parlato una lingua sconosciuta oltre confine, pur rappresentando, comunque, qualcosa di artisticamente diverso.

Se un giorno si affaccerà alla ribalta un altro personaggio come Totò, sarà solo per un miracolo della natura, sarà un’immagine che muoverà istintivamente il riso della gente, una «vis comica» che si baserà, come Totò, sull’istinto e r improvvisazione, non avrà bisogno di testi e tanto meno di registi. Anzi farà, come Totò, la felicità di registi e produttori che non avranno bisogno di scervellarsi troppo: tanto il film, o lo spettacolo che sia, glielo salverà comunque questo nuovo Totò. Ammesso e non concesso, ripeto, che ne nasca un altro.

Alberto Sordi, «Il Mattino», mercoledi 15 aprile 1992


Riferimenti e bibliografie:

  • "Totò, l'uomo e la maschera" (Franca Faldini - Goffredo Fofi) - Feltrinelli, 1977
  • «Tra universale e particolare: Chaplin e Totò» di Giacinto Imperiale
  • Renzo Arbore, «L'Unità», 12 luglio 1992
  • Tullio Kezich, «Corriere della Sera», 13 luglio 1992
  • Alberto Sordi, «Il Mattino», mercoledi 15 aprile 1992