Fatti e misfatti del teatro: ricordo di Ettore Petrolini
"Gastone" colpo di frusta al gagaismo esterofilo - Frecciate al piccoloborghese - Dalle baracche di Piazza G. Pepe ai più grandi teatri del mondo
Un piccolo cinematografo: senza pretese, senza le insegne luminose che di notte brillano a tratti nel buio, ravvivando un angolo di strada morta. Due manifesti colorati ai lati della porta logora. Molti ricordi: ragazzo, quando di nascosto, andavo in questi piccoli cinematografi. Entro, forse senza volerlo. Pochi soldi di spesa, nella penombra della piccola sala, ho accanto un uomo anziano. Prima de lo schermo, vedo gli occhiali luccicanti di questo mio vicino di sedia ce respira forte.
Ho fatto male ad entrare. Se lo avessi saputo avrei continuato la mia passeggiata solitaria.
Sulla parete bianca, piena di crepe, riconosco subito Ettore Petrolini in «Medico per forza». Un’ansia che mi prende nel rivederlo lì; sembra parlarmi, recitare ancora.
Mi sembra di scorgere tra le pieghe del suo volto qualcosa di amaro. Un po’ di commozione, non c'è nulla di male. Invece, il mio vicino ride forte; a tratti. Nel silenzio, questa risata stupida mi scuote, mi irrita. Ma lui non se ne accorge, e continua a ridere. Dopo questo film daranno Tom Mix; e, lui per questo, sembra felice.
Peccato, Ettore, finire cosi! E la risata di quest’uomo accanto a me, continua sgraziata.
***
Ora che è andato via, lo ricordiamo ancora in molti; e per nessuno egli è morto.
Ci è rimasta la sua figura, un poco della sua voce, i tratti del suo volto, ma sopratutto ci è rimasta intera la sua anima il suo gran cuore. Ci basta per ricordarlo, per restare ogni tanto un poco con lui.
La sua malattia non ha importanza; sembra inventata. Non è coerente con la sua vita; per molti è andato via, quando non ha più recitato, ed è scomparso senza frastuono.
Invece, sulla scena, sempre fragore d'applausi entusiasti. E li ha meritati. Oh, se li ha meritati!
Chi non lo ricorda? Veniva avanti, a chiusura di spettacolo, da un gran fondo rosso; in cilindro, guanti bianchi, sorridente.
Era la mezz'ora più divertente, per tutti. Anche per lui, che sovente rimbeccava l’ignoto del loggione, o scaraventava i frizzi più pungenti sul direttore d’orchestra che era costretto a ridere anche lui.
Veniva dalle scene del romano Iovinelli, che ha consacrato tanti futuri astri di quel mondo pieno di luci false che è il palcoscenico.
Aveva percorso un gran cammino; ma era rimasto eguale, per nulla mutato.
Più in là, s'era cimentato con belle commedie. Ricordiamo «Lumie di Sicilia» di Pirandello.
Abbiamo pianto, quella sera; poi, questo lavoro, lo abbiamo risentito altre volte; ma Petrolini non cera più. La commedia amara c’è sembrata forse mutilata, vuota.
Con lui, tutte le sere, riviveva la nostra Commedia. Egli era tutto il teatro; anzi, era al di sopra del teatro stesso. Ogni sera creava un tipo, portava sulla scena un uomo qualunque, e gli dava la sua anima, il suo cuore il suo volto.
Chi ebbe la fortuna di poterlo acclamare anche una sola sera, non potrà essersene dimenticato. Petrolini ha messo su le scene il suo quarto di secolo, ed ha demolito un mondo che sembrava ncn dovesse aver fine. Così, semplicemente, forse senza accorgersene.
Ricordate «Gastone»? «A me m’ha rovinato la guerra. Altrimenti a quest’ora, starei a Londra»... Ed i «Salamini?» Per tanto tempo, tutto il suo teatro era diventato abituale per noi che lo seguivamo, anche se egli recitava, tanto lontano.
Oggi il suo teatro vive nel nostro cuore insieme con la sua figura di grande comico. Eppure talvolta v’era in lui, mentre recitava, qualcosa che faceva pensare. Anch’egli doveva sentirla, questa pausa della nostra allegria, perchè spesso smetteva di recitare e restava fermo, a guardare il pubblico: poi giù, un frizzo pungente amaro.
Perchè non era sempre allegro. Tante volte, a chi lo incontrava nel suo camerino, dietro le scene, faceva sempre lo stesso gesto sconsolato con la mano, accompagnandolo con una smorfia amara.
Sembrava dire: «Che Miseria!» Ma poi andava in iseena e sorrideva a tutti.
Con un naso di cartone Petrolini ha guardato un mondo di piccoli borghesi, di falsi splendori. L’ha guardato bene, questo mondo di specchi macchiati di cattivo gusto; e si è messo ridere. Una risata franca, cordiale, da buon romano. Ed è venuto sulle scene, per dirci le sue impressioni, per fare ridere anche noi.
Egli raccontava, contraffaceva, pungeva: e la platea vedeva, per lui, con i suoi raggi Ics, un paradiso che credeva esistente; ed invece Petrolini lo metteva a nudo, lo smascherava. Veniva fuori un mondo di illusi, di poveri borghesucci immiseriti, pieno di ridicolo e di pena. Rideva, Petrolini; e faceva ridere.
***
Veniva dal popolo; ed era franco, aperto. Nella vita come sulla scena, scanzonato, pieno di cuore, airò molto, guardò negli occhi tutti i pubblici, i più diversi sempre rimanendo fedele a sè stesso.
Non potevamo dire assolutamente dove finisse il canovaccio e dove s’iniziasse la sua creazione; non faceva il teatro, era il teatro stesso.
Non è semplice a dirsi; eppure vicino a Petrolini, nei sentivamo qualcosa di grande che comunicava con il nostro cuore, e ci turbava e ci rendeva lieti. Forse perchè accanto a lui si respirava l’Arte.
Usci l’ultimo suo libro «Un po' per celia, e un po’ per non morire». Qualcuno affermò che era triste, annoiato. Quando lo leggemmo, sentimmo che Petrolini stava per andar via, e tentava di farci ridere ancora.
Doveva nascondere quello che di finito sentiva nel cuore; quel vedersi consumare poco a poco, senza poter far nulla. Aveva tanto camminato; e adesso era costretto tra i cuscini, ammalato. Vedeva avanti a lui, al di là del vetri, passare sole e nuvole. Sole e nuvole che si succedevano a tratti.
Come la sua vita; sereno e grigio. Non riusciva ad essere più lui. Non poteva esserlo; egli, che aveva fatto tanto ridere, sorprendeva negli occhi dei suoi una lacrima non sempre asciugata. E lo diceva, a chi andava a trovarlo.
Era triste, vederlo cosi, che ancora tentava di far ridere, di illudersi. Poi taceva, e rimaneva a guardare attorno.
Affondato in una poltrona molle, là in quella sua splendida casa di Via Maria Adelaide, a Roma, tra i cimeli della sua splendida carriera di artista, egli riandava i bei tempi della sua giovinezza piena d’avventura: riandava i suoi primi passi di comico da caffè concerto, il tempo di Piazza Guglielmo Pepe: e, pian piano, ripercorreva tutta la strada che, a grandi tappe, lo aveva portato alla celebrità: i primi grandi successi conseguiti in America, le macchiette famose: quelle macchiette che si distaccavano cosi; nettamente da le macchiette stereotipe dei comici quaunque, che avevan richiamata su lui l’attenzione del più celebri critici d’Italia e del mondo. Ricordava le stroncature spietate di coloro che s’ostinavano — un partito preso più che un'onesta convinzione — a non volerne riconoscere i pregi, di coloro che non potevano perdonargli una personalità assolutamente tipica e una fisionomia artistica senza precedenti.
Ed eccolo ad affrontare in pieno il teatro di prosa: la commedia, il dramma. Eccolo a creare tipi d’una potenza eccezionale: eccolo interprete geniale e sommo di Pirandello, di Fausto Maria Martini, di Ojetti, di Simoni, di d’Ambra, di San Secondo, di Chiarelli, di Molière e perfino di Shakespeare.
Eccolo infondere vita nuova a vecchie commedie di repertorio, eccolo a dare di Shakespeare (« Il castigamatti » di Svetoni non era in fondo in riduzione della shakespeariana « Bisbetica»?) una «versione» tutta petroliniana. E, se non bastasse la sua grande duttilità di interprete, eccolo autore.
Tutto ciò, rivedeva Petrolini, nelle sue ultime ore, affondato in una molle poltrona della sua bella casa a piè del colle Pincio. Le tappe della sua celebrità riaffiorivano alla memoria come sciorinate su uno schermo per lui solo visibile.
E mentre i quadri della sua ascesa nell'arduo cammino della arte si riproiettavano su quello schermo, Egli vedeva che ininterrotta, senza pause e senza parentesi, una grande opera di italianità aveva compiuta col suo teatro, col suo talento, col suo amore d’artista romano e italiano.
O non aveva Petrolini portato in tutto il mondo, con la sua arte, una diffusa atmosfera di Italianità che i pubblici di tutto il mondo avevano calorosamente applaudita?
E chi non rammenta la potenza di certe sue satire che frustavano a dovere vecchi atteggiamenti esterofili che solo il Fascismo poteva poi bollare e spazzar via?
«Gastone» — la celebre macchietta di cui abbiamo fatto cenno poc’anzi — non fu già essa sola un tremendo colpo di frusta, appena finita la grande guerra, con cui Egli seppe colpire quel genere di gagaismo xenofilo germogliato su le pedane del tabarini infranciosati dell’immediato dopo-guerra?
«Se non fossi nato a Roma — aveva dichiarato Petrolini in un suo articolo di qualche anno fa — avrei fatto un teatro non dissimile da quello che faccio. Chè il mio teatro, prima di essere romano, è Italiano: il dialetto, quando recito, non c’entra. E' un particolare, L’interessante è portare su la scena le virtù e i caratteri della nostra razza primeggiante tra tutte».
Ugo Guerra, «Corriere Emiliano», 29 luglio 1939
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Ugo Guerra, «Corriere Emiliano», 29 luglio 1939 |