Articoli & Ritagli di stampa - Rassegna 1968



Indice degli avvenimenti importanti nel 1968

Inizia il primo ciclo di film che la televisione dedica a Totò

Indice della rassegna stampa dei film per il 1968

Capriccio all'italiana Distribuzione anno 1968

Totò Story film di montaggio distribuito nel 1968


Altri artisti ed altri temi


Totò

Articoli d'epoca, anno 1968

Dove sono finiti tutti i soldi di Totò?

Dove sono finiti tutti i soldi di Totò? L’attrice, che ha trovato un lavoro come esperta di pubbliche relazioni, ci ha rivelato: «Quell’eredità è la pagina più amara della mia vita. Tutto è andato alla figlia di Antonio: che diritto potevo mai far…
Maurizio Chierici, «Oggi», anno XXIV, n.24, 13 giugno 1968
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10 Apr 2014

Totò story (1968)

TOTÒ STORY (1968) Titolo originale Totò storyPaese di produzione Italia - Anno 1968 - Durata 102' - Colore B/N - Audio sonoro - Genere commedia, film di montaggio - Regia Mario Mattoli, Camillo Mastrocinque - Soggetto Age & Scarpelli, Vittorio Metz,…
Daniele Palmesi, Federico Clemente
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Franca Faldini «gira» a Milano e a Cortina d'Ampezzo con la regia di Vittorio Caprioli - Il soggetto di «Scusi, facciamo l'amore?» è stato tradotto in inglese dalla  stessa attrice - E la famiglia De Curtis? «Per me ora non esiste più»

Milano, martedì sera.

Fra non molto Milano sarà invasa da una «troupe» cinematografica, capitanata da un napoletano: Vittorio Caprioli. Si gireranno gli esterni di un film che il regista aveva in mente da molto tempo Scusi, facciamo l'amore. I! soggetto è stato scritto da Caprioli instante alla moglie, Franca Valeri, in italiano e tradotto in inglese dall'amica Franca Faldini; la coppia infatti se la cava magnificamente in francese, assai meno in inglese.

La bella vedova di Totò, avrà nel film una parte di rilievo, smentendo quanto aveva affermato: «A 36 anni suonati mi sento troppo vecchia per ricominciare la carriera di attrice, specie ai nostri giorni in cui le dive incominciano in fasce». Ma all'amico Caprioli Franca non ha avuto il coraggio di dire di no e adesso non se ne pente, anche se afferma che il suo vero lavoro non è quello dell'attrice, ma della traduttrice. «E' un'attività che mi soddisfa completamente e mi lascia libera, perché posso farlo ovunque. Adesso ho appena finito di tradurre per Longanesi A second hand life».

Abbiamo incontrato la Faldini a Milano a un ricevimento offerto per la finale di un concorso. Con una risposta azzeccata a una inchiesta la bella attrice aveva vinto un magnifico abito da sera (che ha indossato proprio a Capodanno). Le chiediamo come sono i suoi rapporti con la famiglia De Curtis. «Per me con la morte di Totò questa famiglia non esiste più. Comunque, non sono rimasta delusa, perché io' non mi aspetto mai nulla, questa è una filosofia che mi ha insegnato lui. Eppure non sono triste, anzi tutt'altro».

Del film di Caprioli parla volentieri, una pellicola con tante donne, in cui la Valeri avrà una particina. Caprioli è felice di dover passare due mesi fra Milano e Cortina d'Ampezzo, perché è un napoletano che ama il nord e a Milano ha vissuto molti anni con «I gobbi». ha sposato una milanese e qui si trova bene. Il film dovrebbe essere la versione play-boy, come lo hanno visto e capito le tante donne — tutte possessive — che lo hanno avvicinato.

I progetti cinematografici dell'attore-regista (nel prossimo film non avrà alcuna parte), finché non si mette dietro una macchina da presa, assomigliano un po' al gioco delle scatole cinesi. Una idea dà il via alla prossima e il primo soggetto non ha che una vaga parentela con quello definitivo. Caprioli li sviluppa e li scarta a seconda del suo divertimento personale. Se un'idea rischia di annoiarlo passa subito a quella successiva senza sosta.

Nedo Ivaldi, «Stampa Sera», 2 gennaio 1968


A quasi un anno dalla morte di Totò, già si paventava una riscoperta da parte della televisione della sua grande arte...


Morto Totò, si è data la stura alle orazioni funebri, alle biografie dettagliate, alle rimembranze di ogni genere. Giusto. Ma si sa che senso di inutilità e spesso di fastidio si trascinino dietro gli encomi e i compianti d'occasione. Il migliore modo — l'unico modo — di ricordare un attore è quello (quando è tecnicamente possibile) di riascoltarlo e di rivederlo. Totò ha lasciato una valanga di pellicole, molte delle quali girate senza un discernimento, dove pareva che regista, soggettista e sceneggiatore fossero andati a gara per deprimere e impacciare anzichè esaltare le doti del grande comico. Probabilmente qualche casa di distribuzione riproporrà un certo numero di pellicole, scelte fra le valide che non mancano, e ci meravigliamo che l'iniziativa non sia stata già presa; probabilmente, quest'anno o l'anno prossimo per l'anniversario, la TV allestirà una delle consuete rassegne cinematografiche. Ma ora, subito, a pochi giorni dalla scomparsa, proprio la TV ha avuto da offrirci un documento di enorme interesse sull'estrema attività di Totò: questo show che impegnava l'attore da sei mesi e la cui fine di lavorazione ha coinciso con la sua scomparsa. [...] Ma in ogni caso resterà Totò e in noi resterà la convinzione — davanti a prove di vitalità artistica così inconfutabili — che il vecchio comico, sino all'ultimo, è stato un fuoriclasse.

Ugo Buzzolan,«Stampa Sera», 6 maggio 1967


«Gli anni 70 e la RIscoperta di Totò»

Totò un anno dopo

Totò: scomparve improvvisamente un anno fa. Tra breve la televisione riproporrà agli spettatori, in un breve ciclo, quattro dei suoi film, e precisamente: 47, morto che parla, Il coraggio, I tartassati e La banda degli onesti. Non sono le pellicole più note e popolari interpretate dal grande attore scomparso, ma quelle che molti considerano le più impegnate e nelle quali rivedremo appunto un Totò meno mimo e più rivolto ai contenuti. Sono forse i film più autentici del «comico dalla faccia tragica».

«Radiocorriere TV», aprile 1968


E' ritornato Totò sul video col film «Il coraggio». Morì un anno fa e venne subito commemorato con una trasmissione, «Tutto Totò», che aveva appena finito di girare.

«Corriere della Sera», 18 aprile 1968


ore 21,15 secondo

Il rimprovero più frequente (e più banale) che» taceva a Totò riguardava la sua acquiescenza nel confronti dei «testi» per i quali era richiesta la sua collaborazione di attore, Totò, c'è detto, accettava qualsiasi soggetto, qualsiasi sceneggiatura, anche i più superficiali o volgari, senza apparai temente preoccuparsi della mediocrità di risultati che. inevitabilmente, ne sarebbe venuta. Perché diciamo che il rimprovero era banale? Perché non è affare dell'attor comico occuparsi della qualità delle storie che lo hanno a protagonista (il valore della sua esperienza è strettamente personale); e Inoltre perché Totò ha ogni volta «reinventalo» i personaggi che gli sono stali affidati, costruendoli sulla misura della propria stralunata e astratta definizione di interprete. Per questo i casi di intervento nella fase preparatoria di un film sono stati, per quanto lo riguarda. molto rari. Si può citare il titolo di Siamo uomini o caporali, nato da una sua idea, oppure quello di II coraggio, il film che si vede questa sera; e con ciò si i quasi del tutto esaurito l'elenco degli esempi.

Il coraggio nasce da una coro media scritta dal fiorentino Augusto Novelli nel '14, una delle non poche che questo autore soprattutto vernacolo compose, come si dice, «In lingua». Un bozzetto semplice e bonario, però dotato di una sua immediatezza e di riscontri risentiti, talvolta polemici. con la realtà da cui prendeva le mosse. Del testo di Novelli Totò fece, com'era giusto, una cosa sua, e quindi prima di tutto contemporanea (la modernità dei suoi umori comici). Al suo personaggio — un povero diavolo che si butta a fiume, viene salvato, e pretende che il non invocato salvatore si accolli l'onere del mantenimento suo e della sua numerosa famiglia — cambiò non soltanto il nome, ma la fisionomia psicologica, facendone un verace rappresentante della napoletana (o italiana) arte di arrangiarsi.

Se tra le molte cattive pellicole che Totò ha magistralmente interpretato. Il coraggio occupa un posticino non proprio trascurabile, la ragione è questa: che in essa Totò è acida to assai vicino alla definizione del suo personaggio-tipo, un grande personaggio.

Non quello «umano» o mutuato alla realtà che molti ancora oggi considerano il suo più valido ma precisamente opposto Tra i vari modi possibili di far ridere la gente, infatti, a Totò toccava per istinto quello che si fonda sul capovolgimento dei luoghi comuni del perbenismo, del parlare corretto e del comportarsi civilmente La sua umanità non andava cercata in direzione dell'usuale, era moderna e acre, una buffoneria geniale che superficialmente potè essere considerata «minore», criticata e tartassata, e dalla quale si voleva che egli si li beresse per trasformarsi in uno dei mille attori che nella realtà cercano modelli da imitare, e non temi da stravolgere.

Era un'umanità autentica nella misura in cui autenticamente si collocava nel suo tempo (perciò nel nostro) dimostrandosi ribelle e insofferente di esso, capace di annichilire con uno sberleffo, una smorfia o una parola le false verità. L’umanità del grande clown: istinto e lucida intelligenza puntati contro le comode bugie del sentimento.

Giuseppe Sibilla, «Radiocorriere TV», aprile 1968



La fortuna di un film di Totò era spesso legata a una battuta che detta da un altro comico, non avrebbe probabilmente fatto ridere nessuno. Alcuni motti famosi del nostro attore: «A prescindere», «Siamo uomini o caporali ?» e, ne La banda degli onesti, «Portieri si nasce». Tali frasi, a volte di gusto discutibile, gli servivano per accattivarsi consenso del pubblico popolare che lo amava. Una volta assicuratasi l'attenzione degli spettatori, Totò gli imponeva delle osservazioni di aspro realismo. Si vedano, nel film presentato questa sera, le sequenze della morte del vecchio tipografo e della cerimonia della firma, che sono spia di una visione tragica della vita e che, riproposte da sole, difficilmente sarebbero state «digerite» dalle platee più rozze. Sono molti, nella lunga carriera dell'attore napoletano, i momenti di forte amarezza.

Si ricordino gli sguardi dell'accompagnatore di Yvonne la Nuit; le smorfie del padre di famiglia, costretto a sistemare i suoi in un cimitero, in Totò cerca casa; le sorprese dell'osservatore di Napoli milionaria: i silenzi di Salvatore Lojacono che, scoperte le ipocrisie del nostro mondo, preferisce cercare un pò di dignità in carcere del rosselliniano Dov'è la libertà?; le considerazioni umanistiche del piccolo imbroglione di Guardie e ladri ; le lezioni del «maestro» dei Soliti ignoti; le massime del poveraccio, lamentoso e felice, crudele e candido di idi Pasolini che, dalla vita, ha imparato un unico insegnamento; è bene badare a stare il meglio possibile; e, infine, si tenga presente tutto il personaggio di Antonio Bonocore di La banda degli onesti, disgraziato titolare di una «portineria ben avviata» che, per difendersi dalle prepotenze altri, è costretto a trasformarsi in falsario (pur continuando a sentirsi un «cittadino ligio alle leggi»).

Come il vecchio Pulcinella, Totò sembra sempre sul punto di ripeterci: «Sono vivo perché non sono morto ancora». In questa massima assurda, eppure vera, poteva esserci una grossa scoperta che approfondita avrebbe fatto di lui un grande personaggio del cinema comico, da mettere forse vicino a Charlot e a Keaton. Ma quasi non volesse saperne, quasi temesse cosi facendo di perdere l'applauso del pubblico, il nostro attore si scuoteva, riprendeva a snocciolare battute di conio assai facile, a ripetere lazzi dì precisa derivazione rivistaiola.

Insomma Totò possedeva una grande carica tragica, la stessa che rende tanto vive certe splendide figure che si intravvedono nei canovacci della commedia dell’arte. Poteva diventare una sorta di Ruzzante meridionale, e narrarci la storia dei discendenti dei nostri poveri costruttori di castelli e di cattedrali, degli eredi del nostro umile, muto passato contadino. Lo lasciò capire, più che nei film diretti da registi di indubbio temperamento artistico, in commediole minori, ma essenziali per intendere il suo personaggio, come La banda degli onesti, che è scritta da Age e Scarpelli e realizzata da Camillo Mastrocinque. Lo stesso Totò si rendeva conto di tutto ciò, e in una delle sue ultime interviste confessò: «La mia vita è un fallimento».

Francesco Bolzoni, «Radiocorriere TV», aprile 1968

Il film di ieri sera, «I tartassati» (1959, regia di Steno), non era certamente un gran film e non occorreva un acume critico particolare per qualificarlo.

«Corriere della Sera», 25 aprile 1968


Una volta tanto Totò non fa la parte del poveraccio. Ma in 47 morto che parla di inedia rischia di morire lo stesso. Il barone Antonio Peletti, il protagonista del film diretto da Carlo Ludovico Bragaglia, è avaro, avarissimo. E‘ cosi taccagno che, per risparmiare qualcosa, non da il buongiorno alla gente incontrala per strada. Lesina su tutto: sull'acqua da bere (« mezzo bicchiere è fin troppo») e sulla biada del cavalla perché, spiega. «bisogna abituarlo a non mangiare». Pretende che gli altri siano generosi con lui. Il cameriere deve servirlo gratis.

Il mendicante, che chiede l'elemosina davanti il suo palazzo, ha da pagargli l'affitto del posto occupato, e il macellaio bisogna si adatti a consegnargli, oltre alla carne, del denaro le poche volte che ha l'onore d’avere il barone come cliente, E, nonostante possegga una cassetta di gioielli e di monete d'oro, il nobile Peletti se ne va in giro agitando un "certificato di povertà".

47 morto che parla, un film ispirato a un lavoro di Petrolini «aggiornato» da Age, Scarpelli, Marchesi e Metz, è spia del metodo usato da Totò nel disegnare un carattere. L'attore napoletano, che pure aveva il gusto dell'osservazione realistica (e lo dimostrò in parecchie comiche), evita qui il «ricalco dal vero». Preferisce rafforzare le tinte, esagerare le movenze, «scatenarsi» nelle invenzioni come si è sempre fatto sulle tavole degli spettacoli popolari.

Si veda, in 47 morto che parla, che cosa sia andato a scovare nei magazzini dello studio: un cappellaccio duro, un bastone da sbattere sulle spalle dei monelli. un mantello alla Dracula, un paio di guanti che lasciano le dita in libertà. E, dentro quei panni che farebbero la gioia di un guitto, si muove su uno scenario da operetta con l'aria più naturale di questo mondo. Sa che per merito suo, il pubblico accetterà la piu smaccata convenzione teatrale, non si preoccuperà dell'assenza d’ogni verosimiglianza.

A guardare bene. Totò non sta quasi mai al gioco del verosimile, da cui altri comici sanno ricavare occasioni d'allegria Si, dietro te spalle detrattore, che certe volte appariva nelle vesti del « pazzariello » napoletano, si scorge la faccia bianca di farina, tagliata nel mezzo dalla maschera di cartone, di Pulcinella. Ma, si badi, Totò finge d'essere il diseredato cui la gran fame torce le budella o il barone che, per non spendere, si dimentica di man fruire. Povero oppure avaro, lo è per burla, per finzione. E' l'attore che, recitando la scena della fame o dell'avarizia, sa di divertire il pubblico. E' il buffone di quella nuova, spesso crudele corte che è la platea cinematografica.

Insomma, per riprendere una intuizione del critico E. F. Palmieri Totò era un miserabile o un barone da commedia; ossia, in lui un istinto realistico era stato modificato dalla consuetudine cui varietà minore che, al rozzo ma genuino umorismo contadino, preferisce le barzellette da caserma. Eppure proprio lavorando su materiali discutibili, che oggi possono sembrarci «superati», Totò riuscì a tenersi stretto il suo pubblico per decine e decine danni.

Francesco Bolzoni, «Radiocorriere TV», aprile 1968


Quanti film ha fatto Totò? Quanti Fabrizi? Chi volesse conoscerne la cifra esatta non avrebbe, per abbeverarsi, altra fonte che quella rappresentata dalla curiosa categoria di appassiunati di cinema la cui occupazione consiste nel catalogare, pazientemente e quotidianamente, i titoli di tutti i film che vengono pubblicati nel mondo, l'anno di produzione, il regista, gli interpreti. Si chiamano schedatori, e annotano senza parzialità le fatiche di Godard e quelle di Giorgio Simonelli, di Greta Garbo e di Maria Grazia Buccella. Sulle loro fitte paginette, alle voci « Totò » e « Fabrizi », si trova scritto ad un certo punto: « 1959: I tartassati, regia di Steno. Altri interpreti: Louis de Funès, Kathia Caro e Luciano Marin ».

Subito dopo l'elenco prosegue, implacabile e meticoloso: non c'era spazio per ricordare che I tartassati non è stato un film esaltante, ma neppure di quelli che si è svelti a dimenticare.

Una storia dai risvolti umani un tantino traboccanti, paciosa e prevedibile nella misura in cui, per una metà almeno, e costruita sulla pelle di un interprete col cuore costantemente in mano come Fabrizi. Fabrizi nei panni del maresciallo Topponi, agente della Tributaria, incaricato di rivedere le bucce alle cartelle delle lasse del commerciante Torquato Pezzella, che è un Totò pericolosamente tentato dai vantaggi dell'evasione fiscale. La lotta tra i due antagonisti, si capisce, è portata avanti in termini di durezza che sottintendono in modo fin troppo evidente la disponibilità alla comprensione (non sono tutti e due, ciascuno per il suo verso, dei « tartassati »?), ed è complicata dagli intrighi amorosi che riguardano la generazione ignara del figli,

Niente film esaltante, e niente storia peregrina. Ma in tema di film comici, condizioni di questo genere non sono sempre sufficienti (per fortuna) a cancellare i motivi di interesse. Nei film comici ci sono, appunto, i comici: li costruiscono per loro, e loro di giorno in giorno li inventano e qualche volta perfino li salvano, almeno per quanto strettamente li riguarda. Accade per le farsacce peggiori, ed è accaduto, in parte, anche per I tartassati.

Dopo il successo di «Guardie e ladri», Totò ed Aldo Fabrizi si ritrovarono ne «I tartassati» (1959). Ecco il comico napoletano in una sequenza del film: il suo ruolo è quello di un commerciante alle prese con un agente della Tributaria

Il film costituisce perciò una buona occasione d'incontro con due delle più spiccate personalità comiche che il nostro cinema, in questo senso tanto avaro, ha prodotto. Più immediatamente avvicinabili, se vogliamo più scontate, le qualità di Fabrizi, già tutte svelate nella sua maschera: ironia e saggezza popolaresche, stupori e ripensamenti improvvisi, un modo di guardare la realtà che, oltre gli scappi della trovala buffa, dimentica spesso gli umori autentici per volgervi ad una malinconia conclusa nell'abbraccio e nella lacrimuccia (però bisognerà ricordare il parroco di Roma città aperta, che gelava le lacrime nella dignità).

Quanto a Totò, la sua comicità aveva radici diverse. Non si compiaceva di retorica e di abbandoni, ma della loro negazione, era puntuta e acre, negava i « buoni sentimenti » invece di coltivarli. Spesso s'è perduto anche lui, per errore suo, ma più di soggettisti e registi, nella ricerca del melodramma, ha compresso la libertà dei suoi estri come vergognandosene : oppure se n'è lascialo trascinare oltre il limite, cadendo nella buffoneria bécera e gratuita. Però è difficile che nel suo film più casuale non possano ritrovarsi uno sprazzo, un lampo, che lascino almeno intuire quale avrebbe potuto essere il valore di un'esperienza come la sua, se non l’avesse tanto sovente compromesso la massacrante routine della formula.

Giuseppe Sibilla, «Radiocorriere TV», aprile 1968


Ho ancora nei cassetti lettere dell'anno scorso che sparano a zero contro «Tutto Totò», la trasmissione a puntate apparsa lo scorso anno subito dopo la morte del comico. Leggo qualche frase: «La Tv non avrebbe mai dovuto permettere l'andata in onda di un programma che infanga il ricordo di un attore come Totò»; oppure: «E' mai possibile che dal video Totò non riesca a farci fare una sola, dico unr sola risata?»: e ancora: «Ci domandiamo perché la città di Napoli, in blocco, non sia insorta, ecc., ecc.». A parte il fatto che un'insurrezione generale della pur generosa comunità partenopea sarebbe stata in questo caso eccessiva, bisogna riconoscere che il ciclo era stato un fallimento.

Ora, ad un anno di distanza, ecco un'altra commemorazione. Stavolta si è ricorsi a quella grande e sicura àncora di salvezza che è il cinema e si è varato una breve rassegna composta di quattro pellicole: abbiamo visto IL CORAGGIO e I TARTASSATI nelle settimane passate: mercoledì scorso abbiamo visto LA BANDA DEGLI ONESTI e mercoledì prossimo potremo assistere a QUARANTASETTE MORTO CHE PARLA. Sono, nella sostanza, dei filmetti. Ma non vogliamo riaprire qui la questione, su cui sono stati profusi ettolitri di inchiostro, del perché Totò accettasse ì filmetti («E' lavoro» mi disse nel 1956, a Torino, durante un'intervista). Piuttosto vogliamo far rilevare un'altra cesa, che nessuno ha protestato, nessuno ha scritto lettere colleriche o accorale.

I filmetti sono piaciuti. Non hanno entusiasmato, ma sono piaciuti: in realtà sono produzioni con un sacco di limiti, però dignitose, non prive di spunti e di battute dove Totò ha modo, per lo meno, di costruire compiutamente dei personaggi che sono farseschi ma non burattineschi, ossia non privi di uri certo approfondimento psicologico, di un certo calore umano. Senza contare che nei tre film già proiettati le «spalle» di Totò si chiamavano Gino Cervi, Aldo Fabrizi e Peppino De Filippo.

Ugo Buzzolan, «Stampa Sera», 4 maggio 1968


«Uccellacci e uccellini» ha concluso la rassegna al Gobetti - Nasce (forse) un teatro del movimento studentesco

Tranne Uccellacci e uccellini, che conviene considerare sotto un altro profilo, gli spettacoli della « Settimana universitaria teatrale » conclusasi ieri sera al Gobetti sono stati menoi importanti, e direi anche meno interessanti, dei dibattiti che li hanno accompagnati e nei quali i registi, gli attori e gli animatori dei CUT. (Centri universitari teatrali) hanno dimostrato un equilibrio, una maturità e una chiarezza di idee che non trovava riscontro in quasi tutti i loro allestimenti incerti, ruvidi e ideologicamente confusi.

E si spiega. La rapidità con cui il movimento studentesco si è sviluppato negli ultimi mesi, e gli aspetti inconsueti e imprevedibili che ha assunto, hanno preso in contropiede anche i Cut: le strutture sono apparse poco agili, o addirittura inefficienti, gli spettacoli ' sorpassati o inutili. Se ne sono resi conto per primi gli stessi promotori: nelle discussioni, niente affatto tumultuose, svoltesi in sala a sipario chiuso e proseguite sulle scale, nel foyer, per istrada, questi giovani sono stati solleciti non proprio a rinnegare le loro creature ma ad esaminarle con il necessario distacco critico.

Non solo. In un convegno tenutosi all'inizio della rassegna, dopo aver dato un giudizio negativo sul teatro italiano d'oggi ritenendo che « teatro a gestione pubblica significhi, nell'attuale sistema, teatro al servizio del potere », i rappresentanti dei Cut hanno onestamente riconosciuto i limiti della loro passata attività e hanno deciso di qualificarsi, in alternativa al teatro ufficiale, come teatro del movimento studentesco. Per discutere su questo nuovo orientamento e trarne indicazioni per il futuro, hanno infine stabilito di ritrovarsi a Perugia alla fine di maggio.

La fraseologia rivoluzionaria e l'inevitabile tributo alla moda della « contestazione globale » non riescono a nascondere un'opinione piuttosto ragionevole. Lo dimostra la crisi dello Stabile torinese che pure, a costo di darsi la zappa sui piedi, ha lodevolmente organizzato questa settimana universitaria con il concorso dell'Assessorato ai problemi della gioventù: una crisi che non è ancora risolta, e lo sarà probabilmente soltanto con un compromesso, appunto perché le intrusioni politiche, aggiungendosi alle contingenti preoccupazioni elettorali, confermano che i teatri a gestione pubblica continuano ad essere in Italia, se non proprio « al servizio del potere » (.che è un'espressione troppo grossa e abbastanza ingenua), per lo meno strumenti del sottogoverno.

Insomma, sta per nascere un teatro del movimento studentesco. Come si configurerà, ancora non lo sanno con esattezza neppure coloro che lo dovranno tenere a battesimo a Perugia. E' probabile, e anche augurabile, che sarà diverso dall'attuale teatro universitario: gli spettacoli presentati in questi giorni dal Cut di Perugia (Jacques o la sottomissione di Ionesco), di Firenze (Mistero buffo di Maiakovski e La linea di condotta di Brecht) e di Bari (Giulietta, Romeo e la peste dalla tragedia scespiriana) possono, tutt'al più, fornire qualche vaga indicazione. Non ne offre nessuna quello del Cut di Parma e, non sembri un paradosso, proprio perché è superiore agli altri, artisticamente e tecnicamente, ed è allestito da un complesso che, anche in campo internazionale, è considerato tra i migliori del genere.

Con Uccellacci e uccellini, come s'intitola la rappresentazione del regista jugoslavo Bogdan Jerkovic, il Cut parmigiano può dare dei punti anche a una compagnia professionale, ma inevitabilmente, non coglie i fermenti che agitano ora i gruppi teatrali studenteschi e che gli stessi universitari di Parma incominciano ad avvertire il bisogno di tradurre in nuove scelte. Non che Pasolini, come pure abbiamo sentito dire, sia un autore « reazionario »: qui al dubita dell'utilità di tradurre per il teatro la sceneggiatura di un film la quale, dice lo stesso Pasolini, usa un linguaggio che allude a un altro linguaggio, quello cinematografico; ma non si nega l'impegno civile, e anche la spinta rivoluzionaria, di una problematica che rimette in discussione tutte le ideologie, non escluso il marxismo.

L'operazione, oltre che ambigua, era disperata. Ma non si può non ammirare l'ingegnosità e la felicità con cui il regista ha cercato di riversare in equivalenti teatrali, o di usare come materiali scenici, le strutture di un testo concepito per lo schermo, sul quale esso ha infatti trovato la sua naturale espressione. Tranne il primo episodio, che gli spettatori del film non hanno visto: un clownesco domatore tenta invano di instillare in una aquila (simbolo del Terzo Mondo) i logori messaggi della civiltà occidentale.

Ma negli altri due episodi (la predica francescana alle classi dei falchi e dei passeri senza tuttavia che sia possibile insegnare all'una a non dilaniare l'altra; il fallimento e la miserevole fine di un corvo marxista nei suoi sforzi di costringere il piccolo borghese a una presa di coscienza), le immagini del film interpretate da Totò si sovrappongono continuamente, riuscendo spesso a sopraffarle, a quelle necessariamente più limitate che offre il palcoscenico.

Alberto Blandi, «Stampa Sera», 6 maggio 1968


(Dal nostro corrispondente) Napoli, 25 luglio.

La nipote dello scomparso attore napoletano, Totò, Maria Rosaria De Curtis, di 21 anni, madre di un bimbo di tre mesi, è morente all'ospedale per una caduta dal balcone. I carabinieri stanno svolgendo indagini, per stabilire se la donna è caduta o è stata spinta dal marito durante un litigio. Soccorsa in fin di vita dai vicini, è stata trasportata in un ospedale cittadino. Vi sono scarse speranze che la donna si salvi. I sanitari le hanno riscontrato la frattura della base cranica, grave stato commotivo, ferite in varie parti del corpo. Il marito, Salvatore Ramaglia, di 22 anni, si è reso irreperibile.

«Corriere della Sera», 26 luglio 1968


CAPRICCIO ALL'ITALIANA

Distribuzione: anno 1968

Ancora meno ideologia (e ancora più poesia) c'è nel secondo episodio, girato da Pasolini tra marzo e aprile del '6: Che cosa sono le nuvole?, inserito poi in Capriccio all'italiana con alcuni scarti di Le streghe. Pasolini, impegnato in Marocco per i sopralluoghi dell'Edipo Re, lascia l'Africa e gira in una settimana l'episodio con Totò. Forse anche la fretta della realizzazione contribuisce a rendere il breve film più conciso e suggestivo. Una compagnia di burattini rappresenta l'Otello tra le quattro pareti di un teatrino popolare romano. [...].

Alberto Anile


Il meglio sta nell'ultima fatica dell'indimenticabile Totò , nei due capitoli che sembrano riassumere il suo incontro con il cinema : l'attore comico , che riscattava con la mimica e la battuta i gracili copioni ("Mo se ne viene lui tomo tomo, cacchio cacchio" , è l'ultima sua uscita) ; il personaggio umoristico-poetico , così pateticamente umano [...].

Pietro Virgintino


Alcuni giorni fa le persone che si trovavano dalle parti del Foro Italico, a Roma, hanno creduto di avere le traveggole. Davanti ai loro occhi si muoveva infatti uno svanissimo personaggio biondo come un cherubino, dal viso stranamente familiare. Il volto del giovanotto in pantaloni rosa e camiciola a fiorellini assomigliava in modo impressionante a quello di un notissimo attore. I passanti si fermavano un attimo interdetti a sbirciare lo strano tipo, poi se ne andavano scuotendo la testa. Tra i molti solo qualcuno si è accorto, però, di come stavano in realtà le cose.

Il «giovane» in questione altri non era se non il popolarissimo comico Totò, che, impegnato negli esterni del film «CAPRICCIO ALL’ITALIANA», approfittava delle pause della lavorazione per divertirsi a sbalordire con il suo aspetto bizzarro quanti si trovavano da quelle parti senza sapere che si stavano girando le scene di un film.

«Grand Hotel», 28 gennaio 1967


Tra qualche giorno lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini comincerà, nei teatri di posa De Laurentiis, le riprese di un nuovo episodio del film «Capriccio italiano». Il titolo è «Che cosa sono le nuvole» ed è stato scritto e sceneggiato dallo stesso Pasolini. Prenderanno parte alle riprese Totò, Franco Franchi, Domenico Modugno, Adriana Asti, Laura Betti, Ciccio Ingrassia, Ninetto Davoli e lo scrittore Francesco Leonetti. Nell'episodio rivivranno, deformati in chiave farsesca e allegorica, i personaggi dell'Otello di Shakespeare dal Moro di Venezia a Jago, a Desdemona, a Roderigo.

Del film «Capriccio italiano» prodotto da Dino De Laurentiis, sono stati girati un primo episodio per la regia di Steno interpretato da Totò, ed un secondo, dal titolo «La gelosa» diretto da Mauro Bolognini con Ira Furstenberg e Walter Chiari. Le riprese di quest'ultimo sono terminate nei giorni scorsi a Milano.

«L'Unità», 12 febbraio 1967


In una scena del film «CAPRICCIO ALL'ITALIANA», Totò, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia e Laura Betti appaiono nei panni di altrettanti «pupi», i tradizionali burattini siciliani. Gli attori, per assomigliare il più possibile ai personaggi di legno, sono come quest'ultimi vincolati ai polsi ed alla nuca da sottili verghe metalliche, comandate dall'alto da invisibili burattinai. Al termine di questa scena è successo un incidente che ha provocato non poca confusione. Appena il regista ha dato lo «stop», vale a dire il segnale di chiusura, i burattinai sopra e gli attori sotto si sono mossi ciascuno per proprio conto.

Il risultato tutto da ridere si è manifestato in un attimo. Le verghe metalliche si sono intrecciate in modo tanto complicato che c'è voluto l’intervento di un operaio munito di una robusta cesoia per riportare un po’ d’ordine in quel groviglio umano. 

«Grand Hotel», 8 aprile 1967


Vecchio di qualche anno, Capriccio all'italiana è un residuato della moda dei film a episodi. Tra una barzelletta di Steno e una di Monicelli, tra uno scherzetto di Zac (dove il cartoon si combina con le immagini degli attori in carne e ossa) e una novelletta di Bolognini (con una Ira Furstenberg belloccia quanto insipida) si colloca l’unico pezzo di qualche consistenza: Che cosa sono le nuvole di Pier Paolo Pasolini, il quale fa rivivere il dramma di Otello in un clima di opera dei pupi, con intervento finale del pubblico: che, distruggendo le marionette nella loro meccanicità rituale, finisce per restituirle a una vita vera. Curioso racconto, dove si avvertono echi pirandelliani, del «grottesco» teatrale italiano, ma pure, perchè no. di certe pagine di Pinocchio. Anche la scelta degli attori non è banale, sebbene poi tutti — da Ninetto Davoli a Franchi e Ingrassia, ecc. -siano quasi schiacciati dalla presenza dell'indimenticabile Totò, nei panni del fantoccio Jago.

Il meglio dello spettacolo è però nel «riempitivo», costituito da due deliziosi cortometraggi a disegni animati del regista bulgaro Todor Dinov: ricchi, soprattutto il secondo, di fantasia grafica e di affettuoso umorismo.

ag. sa., «L'Unità», 18 giugno 1968


Chi fa davvero le bizze per "Capriccio all'italiana", è il pubblico più scaltrito, che sperava di essersi liberato per sempre d'un certo tipo di film a episodi fatti di scampoli, e se ne ritrova dinanzi un esempio sconcertante: non tanto per la qualità tecnica del singoli sketchs quanto per l’arlecchinesco assortimento del registi, per il loro diversissimo impegno e per l’annacquato umorismo. La formula è quella antica, che svaria dalla freddura, camuffata da critica di costume, al raccontino satirico, né giova a rinfrescarla la presenza di bravi attori, quali Totò e Silvana Mangano.

Unico episodio d’un certo interesse, ma che stride come il gesso alla lavagna, è quello di Pasolini, la parodia d’un Otello recitato da uomini marionetta in un teatrino popolare col pubblico che alla fine, inferocito per la cattiveria del Moro e di Jago, invade il palcoscenico, salva Desdemona e strozza 1 due attori. Resi ormai inservibili, essi finiscono fra le immondizie; di qui guardano il cielo, e per la prima volta scoprono, nelle nuvole, la «straziante e meravigliosa bellezza del creato». Dove, se si è ben capito, si celebra il generoso slancio proletario contro una cultura, manovrata dall'alto, che cristallizza sentimenti e caratteri. Diretto con gusto dell’assurdo e del surreale, e recitato con toni omogenei da Totò, Laura Betti, Davoli, Franchi e Ingrassia (Modugno canta e scarica bidoni), l’episodio è più convincente nell’esercizio formale (l’estetismo di Pasolini trionfa nell’uso del colore) che nella morale d'una favola inclinata verso il racconto filosofico, e dunque disadatta al contesto del film.

Totò, cosi fresco e vivace in una breve galleria di macchiette da rinnovarne in tutti il rimpianto è anche il protagonista dell'episodio diretto da Steno: un «mostro della domenica», per castigare i capelloni, li sequestra e li rapa; arrestato, incontra il consenso della polizia, e viene nominato «agente segreto con licenza di rapare» «Perché» e «La gelosa» di Bolognini, puntualmente misogini, graffiano le spericolate dei volante e le mogli sospettose: affinché si rida alle spalle di Ira Furstenberg, Walter Chiari recita in mutande. Zac, lo spiritoso autore di disegni animati, prende in giro una regina facilmente identificabile, che arrivata in un nuovo Stato africano legge per errore il discorso preparato per un paese nemico. Più divertente Monicelli, che taglia le gambe al mito del racconti della nonna: le favole di Cappuccetto rosso e di Pollicino non sono meno spaventose e violente del fumetti neri.

G. Gr., «Corriere della Sera», 20 luglio 1968


Capriccio all'italiana è uno di quei film a episodi che andavano di moda alcuni anni fa e non a caso viene presentato in questo periodo cinematograficamente depresso che è la piena estate. Si tratta infatti, il più delle volte, di materiale raccogliticcio ospitato magari per molti mesi in magazzino e girato in poche settimane tra un impegno e l'altro dei divi. Ma a volte, proprio per la sua caratteristica di casualità, il film a episodi può riservare qualche sorpresa non disprezzabile come accade in questo caso in cui l'episodio affidato a Pasolini, risolleva il tono dell'intero «collage».

Il raccontino, in cui vediamo l’ultima apparizione del grande Totò, disegna le figure di un gruppo di attori di un teatro dell'estrema periferìa romanesca; tra una battuta e l’altra dello spettacolo, offerto all'umanità derelitta e sottosviluppata delle borgate, Pasolini suggerisce profonde considerazioni poetiche e contemplative nello stesso registro che illuminava Uccellacci e uccellini.

Gli altri episodi sono assai più «evasivi» e ci presentano una grossolana battaglia tra un irreprensibile benpensante (ancora Totò) e un gruppo di impuniti capelloni, regia di Steno, una mini-satira sulla nevrosi automobilistica, condotta da Monicelli, e una lunga diatriba (Bolognini) tra un marito moderno e progressista e la moglie complessata e gelosa. impersonata dallo bella principessa Furstenbcrg. Si tratta di spunti di costume che regalano qualche risata ma comunque tutti realizzati con la mano sinistra.

vice, «L'Avanti», 20 luglio 1968


CINEMA E LIBRI In «I burattini filosofi», Marco Buzzacchi rilegge il rapporto tra il grande comico e il grande regista che lo volle in tre suoi film. Ne esce il ritratto di un sogno pasoliniano dedicato alla famiglia e alle sue dolcezze mentre la famiglia esplodeva

Dice l’autore: Pasolini usa Totò e Ninetto Davoli e anche la Mangano per costruire una sua bislacca formula di famiglia»

Per il regista, anche Otello e Jago, dietro le quinte sono in Totò un padre amorevole e in Ninetto un figlio buono e incantato...

Nel quarantennale della scomparsa del grande Totò, esce un libro che riporta in copertina una curiosa immagine del principe della risata. Si tratta di un Totò-burattino, vestito di un abito violaceo e con la faccia colorata di verde. Il volume, scritto da Marco Bazzocchi, si intitola I burattini filosofi (Bruno Mondadori, pp. 186, euro 24,00). Ma non è un libro su Totò, bensì su Pier Paolo Pasolini. Perché l'immagine di cui dicevamo è un fotogramma di Che cosa sono le nuvole?, l'episodio diretto da Pasolini in un celebre film collettivo, Caprìccio all'italiana. Quella partecipazione cinematografica, inizio 1967, fu l'ultimo lavoro di Totò, che scomparirà ad aprile.

La collaborazione tra Totò e Pasolini, tuttavia, non era nuova. Pasolini fece ricorso a Totò in tre film: Uccellacci e uccellini (1965), La terra vista dalla luna (1967), e, appunto, Che cosa sono le nuvole? A parte il primo, gli altri due sono film brevi, cioè episodi di film collettivi. «Ma - spiega Bazzocchi - tra questi tre momenti c'è una grande coerenza. In tutti questi film circola un'aria di famiglia, anzi direi che si tratta proprio di un' aria legata alla famiglia. Pasolini, cioè, usa Totò e Ninetto, e nel caso del secondo corto anche Silvana Mangano, proprio per ricostruire una sua particolare, surreale, bislacca famiglia. Totò e Ninetto sono infatti un padre e un figlio nel primo e nel secondo film, mentre nel terzo recitano come burattini in un teatro che ricorda quello di Pinocchio». Bazzocchi analizza questo terzo corto al centro del suo libro in un capitolo che dà il titolo all'intero volume. «Che cosa sono le nuvole? - aggiunge - mi ha sempre attirato per più ragioni. Innanzitutto, proprio perché anche se si tratta di un famoso testo teatrale di Shakespeare - roteilo -, Pasolini riesce a maneggiarlo intimamente e modifica il rapporto tra Jago e Otello alla radice: sulla scena sono il carnefice e la vittima della tradizione, l'uomo ingenuo e l'uomo malvagio, il geloso e il traditore; fuori dalla scena invece Totò si trasforma in un maestro amorevole che vuole spiegare a Ninetto i segreti dell'esistenza. Diventa insomma una specie di Socrate premuroso, non solo un maestro, ma proprio un padre». E Ninetto ascolta le sue parole a bocca aperta proprio come farebbe un figlio nei confronti del padre, o almeno come avrebbe fatto un figlio d'altri tempi nei confronti di un padre d'altri tempi.

La cosa che sconcerta di più è che siamo nella primavera del 1967, e un anno dopo scoppia la contestazione studentesca, insomma il '68. La famiglia va in crisi, e va in crisi soprattutto il molo paterno. Tanto che Pasolini girerà Teorema, il film sulla distruzione della famiglia, anzi il film dove un figlio misterioso e divino seduce tutti i membri di una famiglia borghese e li porta alla rovina. «In un anno - afferma Bazzocchi - si consuma uno dei rivolgimenti maggiori dell'opera di Pasolini. E Totò è l'ultima immagine di padre-maestro-pensatore. Insomma quello che Pasolini aveva voluto essere da giovane, o forse quello che avrebbe chiesto al suo stesso padre».

Dalla collaborazione tra Totò e Pasolini, entrambi trassero alcune cose importanti. Dice Bazzocchi: «Dal lavoro con Totò venne fuori un Pasolini completamente nuovo e ancor oggi straordinario. In Uccellacci e uccellini Pasolini scopre la leggerezza della rappresentazione, tutto il film è dominato dalla presenza della luna, ed è una luna materna e protettiva, quella madre che nel film non si vede mai. C'è poi un particolare divertente: alla fine del film sia il padre che il figlio hanno un rapporto sessuale veloce in mezzo alle stoppie di un campo assolato con una prostituta che si chiama Luna. È una strana versione di incesto, non edipico, antifreudiano, molto prima che Pasolini pensasse alla sua versione della tragedia greca. Anche nel film sui burattini c'è qualcosa di simile, cioè un allontanamento delle donne dal rapporto tra padre e figlio. Esattamente il contrario di quello che era successo nella vita di Pasolini, che era fuggito a Roma con la madre abbandonando il padre solo a Casarsa. Credo che Totò abbia contribuito a scatenare in Pasolini qualcosa di imprevedibile, un addolcimento nei confronti della figura di un uomo adulto che prima Pasolini aveva sempre rifiutato».

E anche Totò vive questa esperienza per lui nuova di attore «serio» come un'esperienza particolarmente significativa. In altre parole, il Totò dei tre film di Pasolini è un Totò completamente diverso da quello dei film comici che conosciamo. Certo, una base di comicità rimane, così come rimane il richiamo figurativo a Charlot (la bombetta per esempio, il cammino sulla grande strada bianca). «Ma Pasolini - dice Bazzocchi - ha tirato fuori da Totò un elemento di dolcezza e di saggezza stralunata che prima non c'era, qualcosa che fa pensare al teatro di Beckett, anche se credo che Pasolini non lo conoscesse in questo momento. Nel corto La terra vista dalla luna Totò a un certo punto fa un lungo discorso in cima a una casa, contro il delo azzurro dove passano le nuvole. Lì, in quell'elemento aereo e leggero, vedo qualcosa di eccezionale sia per Pasolini che per Totò stesso».

Roberto Carnero, «L'Unità», 20 luglio 2007


È ormai in corso l’edizione 2008 di “Cinema pagano”, la rassegna cinematografica che quest’anno ha per sottotitolo “Scivolare sul mondo: Keaton/Beckett, Totò/Pasolini”, voluta a compendio dei festeggiamenti vinchiesi dall’assessore alla cultura Simone Laiolo e quest’anno curata da Matteo Bisaccia.

Già due sono stati gli appuntamenti: “The balloonatic”, “Neighbors”, “One week”, “The boat” di e con Buster Kealon e “Convict 13” e “The high sign"di Buster Keaton e “Film” per la regia Samuel Beckett con Buster Keaton.

Afferma Matteo Bisaccia: "Ci ha guidata nella scelta la volontà di offrire un esempio di quella comicità che Charles Baudelaire definisce propria del comico innocente, che prende la sua arte diretta-mente dalla natura, la vive e la trasforma, così da diventare come un musicista che suona il mondo e lo trasforma a suo piacimento, facendolo diventare tutto musica e colore".

Keaton e Totò apparterrebbero a questa categoria; il primo, con il suo talento di grande regista e di acrobata, riesce a ribaltare la situazione, sollevandosi sopra le regole del mondo e a scampare a disastri costruiti come una bomba a orologeria imperturbabile, con in viso una maschera inespressiva, senza emozione, di pietra. L'altro, invece, nei momenti più telici riesce a mutare il suo viso fino a diventare maschera, a trasformarsi in un burattino.

Questa sera alle 21,30, sulla piazza del castello, è in programma l'appuntamento conclusivo con “La Terra vista dalla Luna” e “Che cosa sono le nuvole" per la regia di Pier Paolo Pasolini che dirige Totò e Nino Davoli. "In questo film, - afferma Bisaccia - troviamo l’apice dell’arte di Totò che si esalta nell’incontro con il poeta Pier Paolo Pasolini; questi vede nel comico la tradizione della commedia della maschera; liberato dai ruoli del furbetto simpatico, del piccolo borghese - ruoli che gli avevano "dato da mangiare" negli anni '50 e '60 - Totò, nei film di Pasolini, sempre seguito dal “figlio” d’arte Ninetto Davoli, si muove come un burattino innocente, saggio e spensierato. “Che cosa sono le nuvole” e “La Terra vista dalla Luna” sono due storie moderne, che hanno il sapore di favole antiche".

Di. Esse. Bi., «La Gazzetta di Asti», 6 settembre 2008


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«Radiocorriere TV», 1968 - Anna Magnani


Prima di andare a Sanremo, Johnny Dorelli ha terminato la registrazione dell’operetta “La vedova allegra” di Lehar, dove ha per compagne di lavoro Catherine Spaak, Lyla Rocco e Gloria Paul. Oculato amministratore di se stesso, Johnny non ha risentito delle mode e dei mutamenti di gusto del pubblico, continuando a consolidare il proprio successo.

Rodolfo di Castellarquata, «Sorrisi e Canzoni TV», anno XVII, n.5, 4 febbraio 1968 - Fotografie di Marcello Salustri


«Radiocorriere TV», 28 luglio 1968 - Lidya Johnson


«Radiocorriere TV», luglio 1968 - Mario Carotenuto


«La Stampa», 17 agosto 1968


«Il Piccolo di Trieste», 17 agosto 1968


«Noi donne», anno XXIII, 25 ottobre 1968 - Claudia Cardinale


Così ci ha detto Gino Bramieri, d'accordo con uno dei quattro personaggi che sta interpretando in teatro nella commedia brillante di Robert Anderson « Lo sai che non ti sento quando scorre l'acqua! ».

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