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Vittorio De Sica


1952 04 12 Tempo Vittorio De Sica intro

Dopo una serie di ricevimenti a New York e una conferenza all'Università di Chicago, il regista si è incontrato col produttore Hughes e ora sta cercando l'ambiente del suo primo film americano

New York, marzo

Vittorio De Sica sarà a Hollywood fra qualche giorno. Oggi, invitato da quella Università, una tra le più autorevoli e famose negli Stati Uniti, ha tenuto a Chicago una conversazione sul cinema italiano e non precisamente, come alcuni potrebbero pensare, sul "neo-realismo” cinematografico italiano. Ora che il cinema italiano è tornato ad essere famoso nel mondo, grazie ai film realizzati in questo secondo dopoguerra, bisognerà faticare non poco per togliere l’aggettivo ”neo-realista”.

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Si sa che gli stranieri, dopo il «Quo Vadis» di Enrico Guazzoni, per oltre trent’anni appiccicarono al cinema italiano l’etichetta "storico”. Il neorealismo cinematografico è già divenuto una formula e credo che De Sica, come ha fatto a New York e a Chicago, cercherà anche ad Hollywood di spiegare come e perchè egli sia su un piano diciamo di superamento, da c Ladri di biciclette» in poi, e come e perchè «Roma, città aperta» e «Sciuscià» nacquero in un clima tutto particolare ed in ragione di esso.

De Sica è venuto negli Stati Uniti per incontrarsi con Howard Hughes, proprietario e presidente della società di produzione cinematografica R. K. O. (la stessa che scritturò Rossellini e la Bergman per «Stromboli»), allo scopo di determinare con lui i particolari di un accordo di massima già stipulato a mezzo del rappresentante personale del nostro regista, il direttore di produzione Marcello Girosi. Si tratta di esaminare i soggetti che saranno offerti a De Sica e anche discutere le idee che egli stesso volesse proporre per il suo primo film americano. De Sica dovrà andare in lungo e in largo per l’America in cerca di uno spunto e di una località che lo ispiri, e dovrà avere scambi di vedute con scrittori americani ( si è già incontrato con Lillian Hellman, Thorton Wilder, Tennessee Williams, Maxwell Anderson, Arthur Miller e altri, e con il regista Elia Kazan).

I critici di New York hanno salutato De Sica come il più grande regista cinematografico che abbia l’Italia ed uno dei più importanti nel mondo e gli hanno consegnato il Premio che avevano assegnato a «Miracolo a Milano», giudicato il miglior film straniero proiettato nel 1951. I critici americani hanno posto a De Sica alcune domande. Come mai, ad esempio, attrici italiane, svedesi, francesi, tedesche, sprovviste di particolari doti di intelligenza, dopo poco tempo che sono in America riescono a parlare inglese, mentre intellettuali come lui e Rossellini debbono ricorrere all’interprete? De Sica ha risposto che le persone intelligenti hanno difficoltà ad imparare una lingua in pochi mesi, poiché ciò non dipende tanto da qualità di mente quanto da un istinto e chi possiede più spirito d’imitazione — mancando quindi di personalità — incontra minori difficoltà. Al dubbio, poi, ch’egli possa intendere appieno le sfumature ed il sentimento americani dovendoli rendere evidenti in un film realizzato da lui qui, qualora esso fosse di ambientazione locale. De Sica ha precisato che la difficoltà di comprendere l’inglese, più che quella di parlarlo, sarà per lui un ostacolo non lieve.

ma che è pur vero che tutte le lingue hanno un elemento in comune ed universale: l’anima umana (ed il linguaggio dell’anima umana è il linguaggio dei film di De Sica, possiamo aggiungere noi). Gli hanno chiesto poi perchè avesse lasciato l’Italia quando maggiore gli arrideva il successo e fosse venuto negli Stati Uniti a lavorare per un produttore (Hughes) che mostra di avere più preoccupazioni d’ordine economico che ambizioni artistiche; e De Sica candidamente ha risposto che s’è deciso a farlo perchè Hughes ha avuto più coraggio degli altri ed è stato il solo produttore americano che gli abbia offerto di dirigere un film senza restrizione alcuna; cioè senza costringerlo a concessioni artistiche o di altra natura e quindi senza dover egli tradire se stesso. Ha aggiunto di aver accettato di realizzare un film fuori del suo paese, anzitutto per accrescere le proprie esperienze, in secondo luogo per migliorare le condizioni economiche che non sono, come si suppone, pari alla sua fama.

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De Sica ha creduto di fare a questo punto una dichiarazione più grave: ha detto ai critici americani che le sue opere migliori sono state apprezzate di più all’estero che in patria; anzi, che in Italia egli

è stato ammirato come regista di commediole leggere o di film sentimentali, insomma prima di «Sciuscià». Egli considera questo film, come la sua prima opera d’arte cinematografica completamente libera e sincera, eppure trovò sugli schermi italiani un’accoglienza fredda e se non fosse mancato il caloroso consenso del pubblico e della critica americani, egli potrebbe aver perduto l'incentivo a continuare la sua carriera di regista: oggi egli sarebbe forse soltanto un attore e poiché avrebbe potuto imbattersi in registi come lui, che di attori professionisti si serve poco, sarebbe un attore affamato.

Si può osservare però che se De Sica realizzasse in America un film in inglese di livello artistico pari ai precedenti, solo il risultato economico potrebbe essere più grande, non il successo artistico; nè la risonanza potrebbe essere maggiore di quella che lo stesso film otterrebbe se girato in italiano. Sembra che De Sica qualche volta dimentichi il caldo appoggio avuto dai critici italiani più intelligenti. Del resto se egli non sente più come ai tempi di «Due dozzine di rose scarlatte». non lo deve a nessun pubblico e a nessun critico, ma a se stesso.

Francesco Callari, «Tempo», anno XIV, n. 16, 12 aprile 1952


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Francesco Callari, «Tempo», anno XIV, n. 16, 12 aprile 1952