Vittorio De Sica - Galleria fotografica e rassegna stampa

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Vittorio De Sica, raccolta di articoli di stampa

Articoli d'epoca - 1950-1959 776 Enrico Emanuelli, «La Nuova Stampa», 25 aprile 1954

Tre veri napoletani a Napoli

Tre veri napoletani a Napoli Napoli, aprile. Alcuni napoletani fanno i permalosi di fronte a due loro concittadini, che tutti conoscono. Incontro Eduardo De Filippo e mi racconta, con quei suoi modi tanto timidi e calmi, che sembrano d'un uomo…
Vittorio De Sica 645 M. M., «Tempo», anno V, n.119, 4 settembre 1941

Parlando con Vittorio De Sica

Parlando con Vittorio De Sica Accompagnandomi una volta con Vittorio De Sica, ho capito come sia faticosa la vita di un uomo quando da tutti è riconosciuto. De Sica mi parlava serenamente e mi invogliava a cercare una solitaria trattoria dove poter…
Vittorio De Sica 575 Luigi Comencini, «Tempo», n.19, 1 giugno 1946

De Sica in riformatorio

De Sica in riformatorio I ragazzi traviati sono il triste lascito di ogni guerra; dopo ogni guerra si parla di loro, si trova loro un nome, si fanno libri e film sulla loro vita: dopo l'altra guerra erano i «besprizorni» russi che attiravano…
Vittorio De Sica 642 Adolfo Pratici, «L'Europeo», anno II, n.24, 16 giugno 1946

L'America compra De Sica

L'America compra De Sica "Sciuscià" è stato acquistato per l’America dalla Metro Goldwyn Mayer. E' il primo film di De Sica che entra, a bandiere spiegate, negli Stati Uniti e gli occhi di De Sica in questi giorni brillano di gioia. Poche volte io…

I registi: Vittorio De Sica

Vittorio De Sica 596 Sergio Sollima, «Cinema», n.7, 30 gennaio 1949
I registi: Vittorio De Sica Se avessi un certo capitale lo investirei nella fabbricatone in serie di piccoli De Sica in gesso o in terracotta da vendere a modicissimo prezzo come…

Si cerca una ragazza bellissima e stupida

Vittorio De Sica 613 G. Visentini, «L'Europeo», anno V, n.11, 13 marzo 1949
Si cerca una ragazza bellissima e stupida Ne ha bisogno De Sica, per il suo nuovo film. Roma, marzo Fra un paio di mesi Vittorio De Sica comincerà a girare un nuovo film. I suoi…

De Sica il buono

Vittorio De Sica 577 Laura Bergagna, «Tempo», anno XI, n. 52, 31 dicembre 1949
De Sica il buono Il grande regista è triste perchè non riesce a trovare un fanciullo bello e felice che possa volare nel suo prossimo film “Totò II buono”. Roma, dicembre Ho visto De Sica a…

De Sica in ritardo per i miracoli a Milano

Vittorio De Sica 843 Gian Gaspare Napolitano, «L'Europeo», anno VI, n.30, 23 luglio 1950
De Sica in ritardo per i miracoli a Milano “Totò il Buono” non sarà visto al Festival di Venezia In fondo dispiace a De Sica di non portare a Venezia Totò il Buono (o "Miracolo a Milano”…

Vittorio De Sica il regista più discusso

Vittorio De Sica 1221 Giorgio Prosperi, «La Settimana Incom Illustrata», 1951
Vittorio De Sica il regista più discusso * PRIMA PARTE * De Sica recitò la prima volta nella filodrammatica del 1° granatieri. Fu un successone: lo chiamarono venti volte alla ribalta. Ma,…

Trenta e lode a De Sica

Vittorio De Sica 608 «L'Europeo», anno VII, n.21, 20 maggio 1951
Trenta e lode a De Sica Roma, maggio La mattina del 29 aprile scorso il professor Carlo Battisti si svegliò in un albergo di Roma. Era partito da Firenze la sera avanti, chiamato dal…

Il bastone da maresciallo di De Sica

Vittorio De Sica 681 Alberto Moravia, «L'Europeo», anno VIII, n.13, 22 marzo 1952
Il bastone da maresciallo di De Sica Gli eroi vecchi sono molto rari nel teatro, nel romanzo e anche nel cinema. Dal Pelide Achille su su fino ai personaggi di Stendhal, i protagonisti sono…

De Sica americano

Vittorio De Sica 557 Francesco Callari, «Tempo», anno XIV, n. 16, 12 aprile 1952
TITOLO Dopo una serie di ricevimenti a New York e una conferenza all'Università di Chicago, il regista si è incontrato col produttore Hughes e ora sta cercando l'ambiente del suo primo film…

Che cosa penso della censura

Vittorio De Sica 553 Vittorio De Sica, «Cinema», n.84, 15 aprile 1952
Che cosa penso della censura I nostri Gianfranco Calderoni e Stelio Martini hanno rivolto a Vittorio De Sica le seguenti domande: 1) Crede nella funzione della censura? 2) Così come viene…

Il Maresciallo De Sica trova moglie

Vittorio De Sica 1013 Renzo Trionfera, «L'Europeo», anno IX, n.34, 16 agosto 1953
Il Maresciallo De Sica trova moglie Quando Luigi Comencini gli descrisse il personaggio principale del suo nuovo film "Pane, amore e fantasia" il regista se ne innamorò a tal punto che…

Vittorio De Sica: gli anni più belli della mia vita

Vittorio De Sica 1563 Vittorio De Sica, «Tempo», anno XVI, n. 50-51-52, 16-23-30 dicembre 1954
Vittorio De Sica: gli anni più belli della mia vita Per la prima volta il nostro maggiore regista racconta la sua appassionante storia di artista: come sono nati i suoi film, attraverso…

De Sica, borghesuccio anteguerra

Vittorio De Sica 708 Carlo della Corte, «Cinema», anno IX, n.160, 10 febbraio 1956
De Sica, borghesuccio anteguerra Una cesura netta va tracciata fra i due tempi di De Sica interprete: il primo in cui seppe coerentemente impostare un personaggio; il secondo in cui lo…

I lettori intervistano Vittorio De Sica

Vittorio De Sica 208 Vittorio De Sica, «Novella», anno XXXIX, n.35, 31 agosto 1958
I lettori intervistano Vittorio De Sica Le solite domande impertinenti sono il pretesto per alcune franche confessioni di Vittorio De Sica : la sua passionacella per il gioco, i capelli che…

Vittorio De Sica, il gentiluomo in passerella

Vittorio De Sica 117 Mirella Delfini, «Tempo», anno XXV, n.4, 26 gennaio 1963
Vittorio De Sica, il gentiluomo in passerella A sessantanni, dopo aver diretto diciassette film ed averne interpretato una novantina, il regista ha scoperto una nuova parte da recitare:…

De Sica ieri e oggi

Vittorio De Sica 719 Tommaso Chiaretti, «Noi Donne», anno XXI, n.45, 13 novembre 1965
De Sica ieri e oggi Ieri: attore di forza insolita, in mezzo ai tanti manichini del cinema ufficiale, e regista vigoroso e spregiudicato. Oggi: un uomo insoddisfatto, che ha mortificato la…



L'oro di Napoli


I due marescialli


Quando De Sica era poco più che un ragazzo, tutto preso dai sogni che gli facevano ressa nel cervello e nel cuore, recitava con la Pavlova. Anche allora era un figliolo lindo e bene educato, che non ti stendeva la mano se non si era prima tolto il guanto, che sorrideva scoprendo i trentadue denti — parevano centocinquanta — scintillanti e forti da pubblicità dentifricia, e strizzando leggermente gli occhioni neri di monello napoletano. Anche allora, nonostante la florida e li rapirla giovinezza, gli si formavano nel ridere tante fitte rughe agli angoli delle orbite, con un effetto sorprendente di furbizia antica in sorriso innocente. In lui i sogni erano nugoli, le aspirazioni non gli davano pace, nondimeno sapeva tenerli a freno in una specie di gelida compostezza, la quale forse era scambiata dalla sua maestra stessa per mancanza di scatto. Sì, ottimo elemento, ma troppo inviscato nel cerimonioso, troppo illanguidito, forse anche troppo signore per il mestiere che gli piaceva.

Dopo il teatro s'andava in una trattoria dietro il Carignano. il cui proprietario sapeva cucinare bistecche soffici e grosse come puf di sangue. In un angolo gridava Petrolini, in un altro Gandusio ascoltava. De Sica sorrideva, più interessato all'apparenza dalla buccia d'una pera, che non dagli argomenti in discussione. Ma quando si usciva, nelle vie deserte, chissà, fosse il buio che ne blandisse la timidezza o l'ora così commovente e bella, suscitatrice di rimorsi — avviandoci infatti verso casa, una sveglia che trillasse a un terzo piano, l'esempio di chi già s'alzava punto dal richiamo delle opere usate, ci faceva rimpiangere le ore inutilmente perdute —, ecco De Sica si trasmutava, qualcosa in lui si scioglieva, che lo invitava a parlare, a parlare. « Vorrei fare questo, vorrei fare quest'altro. Che ne dice se mi provassi in quella parte...? Ho letto la tale commedia, credo che ne potrei rivelare le bellezze... Insomma, passano i giorni, passano gli anni, ed io son sempre così, nessuno. Eppure... eppure... Mi aiuti a cercare la mia strada, mi consigli...Ho tanta volontà di fare, e così forte, ma non vedo, non trovo... ».

Accenti accorati, che non avresti immaginato potessero nascere da quel sorriso che conoscevi, da quella elegante indifferenza, che sola ti aveva colpito. Poi. per lunghi tratti, stava zitto; ma giunti dinanzi al mio portone si tornava indietro, e dal suo albergo si ritornava al mio portone. Già uscivano i primi tranvai; a lumi spenti, come mostri notturni impauriti, fuggivano gli autocarri della spazzatura. Passavano in fila i carretti degli ortolani. Salutandomi insisteva : «Mi dia una mano dunque... Non crede ch'io potrei diventare qualcuno?... ». E subito dopo: « La conosce l'ultima canzone? Dice...». E ne modulava il ritornello. Mi pare che fosse, allora, Ramona.

De Sica è giovane, eppure sono passati anni parecchi da quelle albe. Anche Ramona è morta. Ma lui, che davvero voleva. la sua strada l'ha trovata, quel qualcuno, che desiderava di essere, lo è. Una strada che allora non si poteva prevedere. eppure c proprio costruita tutta quanta col materiale di quel tempo. Voglio dire che com'egli era è rimasto, e aggiungerei intatto, se non fosse per quella chiostra dei denti sui quali le sigarette e il mordente delle spazzole hanno lasciato il segno degli anni.

La prima espressione, di De Sica artista — espressione compiuta e tF un colpo rivelatrice — l'abbiamo avuta in quella Compagnia diretta da Guido Salvini, che doveva consacrare alle feste della ribalta il trio «De Sica, Rissone, Melati» tuttora in isplendore. Eleganza, nitidezza, gioventù, freschezza. disinvolta giovialità, umiltà. sono le sue doti migliori. Quei contegno rispettoso e insieme furbesco, ma di fanciullo; quella buona educazione innata, che gli permette di creare con naturalezza e sullo stesso pia no il gentiluomo un po' imbastito e il candido povero diavolo; e quel fiore primaverile, dell'anima, per cui i sentimenti acquistano in lui un che di eccessivamente tenero, come piace al popolo e alle donne, tutte cose, che erano già del ragazzo alle prime armi; fiore il cui profumo — tenuto di preferenza celato per simpatico pudore — avevi modo d'avvertire quando De Sica, come dicevo, era in vena d'abbandono.

E poi c'era già il cantore, la sua arte dolcissima e canagliesca di dire cantando e viceversa, per la quale le signore vanno matte — e anche gli uomini —, per cui il «Parlami d'amore Mariù» è più famoso, ahimè, dell' «Era già l'ora che volge il desio» e son più le firme di De Sica nelle borsette delle italiane che non quelle di Guerra sulle tessere dei ciclisti, quell'arte morbida e sfumata, languorosa e da nulla, noi l'avevamo conosciuta sin d'allora. Conosciuta, ma non giudicata. Ora egli mi fa spesso sentire che queste alucce di mondano cherubino gli pesano, vorrebbe cambiarle, magari con la zampa del leone. Anche oggi come ieri è insoddisfatto. Sogna un altro qualcuno. Eppure io penso che se ci fosse un camposanto delle canzoni morte. De Sica dovrebbe andarvi ogni tanto, ma all'alba, quando nelle città si spengono d'un tratto e tutù insieme i lumi, cercarvi la tomba di Ramona, lasciarvi un fiore. E così sino alFultimo dei suoi ridenti giorni.

Eugenio Bertuetti, «Il Dramma», 1937


Marco Ramperti ha voluto ricordare i giorni non lontani dei miei primi passi, quando per me, offrire una sigaretta, poteva rappresentare una irrimediabile spogliazione. Lo ringrazio. Anzitutto perchè, ricordare a un artista le sue difficoltà iniziali, significa salvarlo dallo snobismo, in secondo luogo perchè, giungere a qualcosa partendo dal nulla, è più importante che giungere al miliardo partendo dal milione. È consolante potersi dire: mi sono fatto da me.

È per affermare queste semplici verità, che mi sono deciso anch’io a riempire qualche foglietto di scrittura, piuttosto che per emulare i molti colleghi che scrivono. Desideravo compiere quest'alto di umiltà, che, tutto sommato, non è che un atto di fede, perchè fin d’ora sia spazzato via ogni equivoco sul mio conto. So, ad esempio, che mi si chiama in giro lo Chevalier italiano. Ingiusto battesimo al quale mi ribello per infinite ragioni. Chevalier è un delizioso chansonnier, un uomo che la natura ha dotato di singolarissime qualità fisiche e intellettuali. Chevalier ha fatto di se stesso un tipo teatrale, adottando, come una maschera, quei cappello di paglia che ormai, più che un cappello è un tic. Nè ambisce a rappresentare se non se stesso, lo invece sono un attore drammatico, che, per proprio diletto, prima che per l’altrui, canta anche canzoni.

Si può dire ch’io sia nato cantando, come altri facendo strilli da dare il mal di capo. In casa, da ragazzo, dovevano impormi ogni tanto di smetterla. Perchè cantavo proprio senz’accorgermene. È un modo come un altro di pensare. Ma per carità, non mi scambino per un canterino dall’ugola d’oro!

Altra cosa che mi rattrista è la convinzione di molti che, in me, l’attore di teatro sia una specie di derivato dell’attore di cinema. È invece l’opposto. Io sono sempre stato un attore drammatico che, talvolta, come quasi tutti i fotogenici e i fonogenici del mondo comico, fa anche del cinema. Che poi queste evasioni abbiano un esito insperatamente felice e mi diano notorietà, prestigio e denaro, appassionandomi ad esse ogni giorno più, non vorrei lamentarmene. Il cinema mi piace sul serio, forse perchè mi permette di realizzare quel che è impossibile nel teatro. Io ho il difetto di affezionarmi ai personaggi che vivo. Da quando incomincio a studiare un carattere, ho la sensazione di avere con me un compagno nuovo c inseparabile, di conversare con lui, di assumere i suoi gusti, le sue opinioni, le sue virtù, i suoi difetti. Tuttavia, se si tratta di un personaggio di commedia, questa fusione è tutta intcriore, artificiosa e effimera, perchè non si manifesta che la sera, nel breve spazio di tre ore, quando recito. Poco per la mia smania, poco anche per il pubblico che deve accontentarsi, per conoscermi, delle scarse notazioni biografiche che l’autore ha messo in bocca agli altri personaggi, come prescntuzione. In cinema è diverso. Per due mesi consecutivi, dalla mattina alla sera, per la strada, in vettura, in casa, dovunque, io sono al cento per cento il personaggio che devo impersonare. Il solo inconveniente della mia attività cinematografica, è il non poter fare quello che vorrei. La mia debolezza d’attore è di camuffarmi, di deformarmi, di assumere maschere caricaturali, grottesche, di potermi invecchiare, come feri nella commedia a Padre celibe ».

Sullo schermo mi vogliono giovine, perchè devo sempre cantare qualche canzone sentimentale e prodigare sorrisi. Così mi lasciano come sono, al naturale, procurandomi quella fama di emulo di Chevalier. Pazienza! Chi mi vorrebbe altrimenti, non se la prenda con me. Posso garantire, a conferma, che non avrei mai fatto del cinema muto. Chi mi ha convinto, è stato il «parlato sonoro», che ha eliminato l’antico dissidio tra teatro e cinema. Il parlato anche con i suoi difetti, ha intellettualizzato il cinema, permettendo ai personaggi di esprimere pensieri, cosa che le antiche didascalie non potevano nemmeno tentare. Le lettere di ammiratrici — arrivano, autentiche! — sono una fatale conseguenza del mestiere. Dal di fuori, si vede tutto bello, tutto prezioso. Il clima è fatto apposta per turbare anche le più virtuose. In tono minore, molto minore, l’attore giovane del cinema, esercita sull’animo femminile un fascino simile a quello del poeta. Offriamo anche noi sensazioni, illusioni, incantesimi; spesso sfioriamo la perfezione spirituale, l’ideale inesistente, una chimera. Poi ci sono le piccole sciocchine. Un’anonima mi scriveva l’altro giorno: «L’amore delle creature non va disprezzato. Ricordatevene». E chi glielo ha detto che io disprezzo l’amore delle creature?

E i giovani aspiranti, che vogliono essere aiutati a entrare in cinematografia? Me ne vedo comparire uno, a Roma, brutto come la fame e mi dice: — Io so recitare. E mi declama la solita terzina dantesca, non un verso di più: «La bocca sollevò dal fiero pasto». Gli suggerii di metter su un ristorante economico. E lui, in compenso, sarà diventato mio nemico e mi chiamerà lo Chevalier italiano.

Ma non ho tempo di badare a lui. La mia giornata è intensa. Non ho un minuto disponibile per le sciocchezze. A differenza di molti colleghi, mi alzo prestissimo la mattina. Marcie, passeggiate automobilistiche in campagna, ginnastica. Quindi lo prove, che durano in media cinque o sei ore. Poi, anche questo è necessario, pranzo. Poi leggo e studio. Poi a teatro a recitare. A mezzanotte sono stanchissimo e vado subito a letto.

So può interessarvi, dirò che lo scrittore da me preferito è Luigi Pirandello: ho recitato di lui: «O di uno o di nessuno», i «Sei personaggi» o «Il giuoco dello parti». Ora penso a «Liolà».

Vittorio De Sica, «Il Dramma», dicembre 1937


1938 09 01 Il Dramma Vittorio De Sica f1Il «mio dramma» non sembri un facile gioco di parole perchè ciò che sto per scrivere è destinato alla rivista diretta da Lucio Ridenti per la quale ho una particolare e viva simpatia. Ma evidentemente l’avete anche voi se la rivista avete in mano e mi leggete; usatemi perciò la cortesia di ascoltare questo sfogo del «mio animo esulcerato» come dicono i personaggi delle commedie di Dumas. Dunque, un giorno, non molto tempo fa, avevo deciso di non cantare più. L’idea di mettermi accanto a un pianoforte per filare qualche nota mi dava ui nervi. Mi pareva d’essere vittima d’un destino crudele, amaro.

Perchè io sono certo che cento, mille persone hanno fatto quello che ho fatto io, ma nessuno è stato tanto punito quanto me. Chi di voi non ha cantato mai una canzonetta alzi la mano. Sono certo che tra voi ci sono dei dicitori perfetti, dei cantanti di canzoni deliziosi. Ma quel che è disgraziatamente, vi giuro proprio disgraziatamente, capitato a me. non è capitato a nessuno. Non vi pare una ingiustizia? Bisogna stare molto attenti a quello che si fa da giovani... Amore a parte, io dico ai giovani: siate cauti nel mostrare le vostre piccole abilitò. Il mio caso, che del resto non è unico, vi insegni la prudenza, la riflessione. Se vi trovate a saper fare qualche cosa, prima di correre in mezzo agli amici a vantarvi della vostra abilità, pensateci un anno. Perchè i casi sono due: o ci fate una cattiva figura, e allora perchè andare incontro a una mortificazione quando se ne può fare a meno? Oppure la cosa va, piare, avete successo, e allora chi vi libera più da quella vostra abilità? Io sono poi tanto più colpevole di leggerezza in quanto un terribile esempio sotto gli occhi l’avevo. Un amico di mio padre, da ragazzo, aveva avuto la cattiva idea di fare delle imitazioni di personaggi celebri, di attori, di uomini vivi e morti da tutti conosciuti. Ebbene, quel disgraziato aveva dovuto rinunciare al consorzio umano, perchè dovunque andasse egli doveva imitare qualcuno dei presenti. Egli sapeva benissimo che i grandi applausi che otteneva non lo avrebbero mai compensato dei nemici che andava facendosi intorno fatalmente, perchè un uomo di spirilo quando si vede caricaturato o imitato nelle sue caratteristiche più evidenti «orride c si diverte, ma dentro di sè concepisce per l’autore dellu caricatura e della imitazione un odio inestinguibile; sapeva benissimo che la terribile fatica di imitare gli costava sempre più cara con l’andare degli anni; ma con tutto ciò doveva assoggettarsi alla bisogna. Avrebbe potuto diventare qualcuno, far carriera, approfondire i proprii studi... Niente. Doveva imitare. Non poteva fare altro. Ora è in un ricovero di mendicità dove a quel che mi si dice sta imitando i suoi compagni di collegio. Signori: un giorno io ebbi la cattiva idea di cantare una canzonetta. Era un venerdì. Lo ricordo benissimo. E ne avevamo tredici del mese. Da quel giorno... Bene, voi capite. Il grave è che non cupii subito in che ginepraio m'ero cacciato. Anzi, sulle prime mi faceva piacere. C’è nella musica delle nostre belle canzoni italiane una così dolce effusione di sentimento che m’era piacevole eseguirle c mi pareva, eseguendole meglio che potevo, di esprimere un poco di me stesso. Insamma, cantavo ed ero felice di cantare. Ma poi, quando la canzonetta non bastò più alle cresciute esigenze del mio spirito, io incominciai ad averne abbastanza. Altri e assai più alti problemi mi si affacciavano alla mente. Ma non vi fu verso. Non sono mai riuscito a non cantare. E il peggio è che, in fondo, cantare mi piace sempre, il che indebolisce sensibilmente la mia forza di resistenza verso chi mi richiede una canzone. Eppure mi pareva d’esercitare un’arte inferiore, di fare una fatica che andava a detrimento di altre fatiche che m’ero imposte e che certo valevano più la pena di questa, mi pareva di sentirmi offeso quando al mio apparire sentivo sussurrare dagli astanti: «Facciamolo cantare, facciamolo cantare». Che ire sorde, che collere trattenute, che voglia di gridare: «E' ora di finirla!». Ero giunto a un punto che stavo per impazzire. Mi pareva che tutti coloro che incontravo per la strada, e mi dicevano gentilmente buon giorno, mi dovessero chiamare in disparte per chiedermi: «Scusi, come fa quel refrain...».

Certo la cosa si sarebbe complicala pericolosamente per i mici nervi perchè, tra l’altro, coloro che mi chiedevano di cantare credevano di farmi un piacere. Per fortuna un fatto mi ha salvato. Protagonista di questo fatto è stata la mia bambina. L'altro giorno piangeva. Siccome non parla ancora, non siamo riusciti a sapere da qual genere di delusione morale fosse angosciata. Una cosa è certa ed è che tutti i nostri argomenti per consolarla riuscivano vani. Vani i halli che tutti cercammo di eseguire in sua presenza, vani i salti mortali che io feci sul letto, vani i musi i versi i gridolini che a turno faremmo più o meno bene a seconda della mobilità facciale di ciascuno e della voce. Niente. Piangeva. Io allora, per non sentire più la vocetta stridula e insistente, mi misi a cantare. Dopo tre o quattro battute la mia bambina si chetò. Mi guardava con quei suoi occhi... sapete, ha degli occhi... Be’, lasciamo andare... Insamma, non pianse più. Al refrain sorrise un poco. Sorride tanto bene che tutti diventano matti. Allora ho pensato che le mie canzoni possono consolare talvolta qualcuno. Questo pensiero mi ha in parte guarito dall’ossesaionc delle canzoni. E se talvolta mi lascio persuadere a eseguirne qualcuna, è proprio perchè spero, anzi sono quasi sicuro che in mezzo alla folla, forse felice, che mi ascolta, c’è qualcuno a cui una canzone può dare qualche sollievo, un respiro, uii singhiozzo liberatore.. che so? Una consolazione, insomma. Ma non per questo non continua a rimanere il mio dramma...

Vittorio De Sica, «Il Dramma», 1 settembre 1938


L'incontro tra musicista e regista musicale è raro: raro come le cose preziose, e perchè preziose anche indimenticabili. Il musicista che s'è incontrato con Vittorio De Sica regista, ha potuto consolarsi nella certezza che nel cinematografo le prospettive d’arte sono autentiche, quando amore, preparazione, competenza e sensibilità, si danno la mano fraternamente. I mali di certo cinema approssimativo, lo squilibrio più o meno evidente di certi piani di rappresentazione, la prevalenza irragionevole o il sacrificio irragionevole di taluni elementi artistici, delicatissimi per la messa a punto di un racconto, sono sempre e soltanto il frutto di tepido amore e di labili idee. Se v’è un’arte che esige preparazione minutissima in ogni ramo della cultura, essa è quella del cinematografo: una mobilitazione completa dei mezzi espressivi, una rigida gerarchia dei loro valori a seconda dei contingenti bisogni. Impegno e responsabilità evidenti per chi regge la fila di così complesso e impalpabile meccanismo. Codesto reggitore se sa a puntino quello che vuole, prepara sereno e pacato il fertile campo d’operazione dei suoi collaboratori, e predispone ognuno al miglior rendimento, al benessere ed alla schiettezza della buona fatica.

A Vittorio De Sica il cinema italiano deve ormai certamente qualcosa: ma occorre non fermarsi soltanto ai segni appariscenti della sua fortunata arte, per comprendere appunto quanto minuto e profondo ordine interiore provvede ad animare i suoi cari fantasmi. Io guardo il De Sica regista musicale con un occhio inumidito nel ciglio: è una lagrima di commozione che sgorga sincera, perchè è legata a ricordi di sincera commozione. Perchè De Sica non ha chiesto una sola nota di musica per i suoi film, che non fosse capace, anzi indispensabile a sottolineare l’animo squisito dei suoi personaggi, la fraternità dei loro sentimenti. E la musica per il film di De Sica — vi suggerisca questo, l’inconfondibile tratto di una autentica personalità — ha ricalcato il ritmo rapido e compendioso di un raffrenato singhiozzo, il palpito sommesso e fuggevole di un piccolo affanno di cuore.

Questo ha chiesto De Sica, questo ha voluto, condizionato il suo dialogo è la recitazione dei suoi personaggi al valore di quattro o cinque rapidissime battute musicali. In Teresa venerdì, per esempio, quando il dottore incontra la protagonista nell’infermeria dell’Orfanotrofio e le chiede il suo nome, domanda e risposta sono intercalate da una lunga pausa di recitazione, per dar modo alla musica di affacciare, con la sua voce patetica. la prima e quasi insensibile proposta d’amore. È ancora n'elle prime sequenze di questo film, che descrivono la comicissima visita di presentazione del dottore alle dirigenti dell’orfanotrofio, si sente in lontananza un pianoforte che con sbadigliante simmetria espande una di quelle sonatine di principianti, tediose e squallide, che riesce a meraviglia a tener viva e presente la melanconica atmosfera del pietoso ambiente e a rendere più acuto lo stridente umorismo delle situazioni. Tutte cose che sembrano passare insensibili all’attenzione dello spettatore e sfuggire alle sue osservazioni, ma che per contro danno accento e cemento e ordine alla perfezione e quindi alla suggestione del racconto.

A spillare ad uno ad uno i particolari musicali che De Sica ha chiesto e voluto nei suoi film, ci sarebbe da formare una piccola antologia dell’intelligenza e del buon gusto. Nasce così uno stile, una maniera tutta particolare e tutta personale di raccontare, di avvicinare i fatti all’animo dello spettatore: e la continuità ed il prestigio dell’arte traggono appunto alimento, l’alimento fattivo e creativo, dal rigore stilistico di una poetica. Ricordo che assistendo ad una delle visioni preliminari di Un garibaldino al convento per stabilire i punti musicali del film, i pochi spettatori della visióne, tutti tecnici della pellicola, rimasero perplessi davanti ad una lunga inquadratura di una semplicissima porta, che De Sica aveva voluto riprendere proprio negli ultimi metri del film. La scena descriveva questo: un cameriere apre la porta e annuncia « la Marchesina Mariella »; si ritira. Rimane così lungamente l'obbiettivo a fissare il vano della porta aperta, fino a quando, dopo svariati secondi , l’annunciata Marchesina appare. In quei secondi di attesa De Sica aveva calcolato la lunghezza del tema musicale di Mariella. E questo tema musicale doveva appunto inserirsi sulla dimessa inquadratura. di una portiera, per preparare il pubblico ad una ben patetica sorpresa: quella della vecchia Marchesina Mariella (ricordate il racconto?), dopo aver vissuto per quasi due ore le romantiche vicissitudini della giovane Marchesina Mariella. Quel tema musicale lì su quella porta e la conseguente apparizione del personaggio, sono stati di poi in tutte le pubbliche visioni, uno dei momenti di più calda, immediata commozione che il gentilissimo film abbia mai saputo suscitare.

Questi risultati che De Sica ha raggiunto, con il suo sottile intuito di regista, hanno aperto negli indirizzi musicali del film una via singolare un chiaro e forte rendimento e di molteplice possibilità evocativa.

Renzo Rossellini, «Cinema», 10 ottobre 1942


Vittorio De Sica è un ragazzo che ha passato i quarant’anni. Della sua maturità di attore e di regista ha già dato molte prove sul palcoscenico e sullo schermo. E dell'altra maturità, di quella che regala il tempo, si vedono i segni soprattutto osservando i capelli, che sono folti ma ricchi di fili bianchi. Quel segni esteriori non gli hanno però tolto nè la freschezza, nè il candore, o meglio quella cordiale attitudine a stupirsi e quel, la semplice, sicura facoltà di esprimersi, dalle quali è dipeso il suo successo quasi immediato. Il favore che De Sica ha suscitato fin dal principio, e che lo accompagna tuttora, grazie a questa freschezza, è fatto in gran parte di simpatia...

La quale, a guardar bene, è una simpatia di rimbalzo. E’ la risposta alle sue simpatie personali, ai suol umori chiari e mal equivoci, alla sua franca aderenza ai personaggi, al'soggetto, ai sentimenti che ogni volta deve esprimere.

Non c’è dunque da stupirsi se queste sue qualità, nelle quali si risente il verde dei primi anni, lo riconducono con frequenza al tema della fanciullezza. I bambini ci guardano era già sembrato un film bello ed amaro. Sciuscià lo supera: è un bellissimo film, quest tutto esatto, tutto sentito, condotto su una favola dietro la quale magari si profila a tratti l’ombra di De Amtcis, ma anche cosi Incombente e cosi spietato da indurre a riflessioni che certamente non ne diminuiscono i meriti.

Brucia, in questo film, un dramma che è proprio della fanciullezza e che ha i suoi limiti. E’ il dramma del piccoli borsari neri romani, del ragazzi che hanno imparato ad arrangiarsi, le tasche lacere e sudice del quali si gonfiano dell’apparente ricchezza delle am-lire; è il dramma dei monelli che si sono impadroniti del galoppatolo di Villa Borghese, che lucidano le scarpe del .soldati alleati sui marciapiedi di Via Ve-
neto e dispongono di cinquantamila lire per comperare un cavallo al quale si sono affezionati; è il dramma di una fanciullesca fantasia che condurrà due di loro, amicissimi, a diventar nemici e ad essere entrambi vittime di un delitto involontario.

Ma il dramma, intenso e serrato, non è tutto qui. Più profondo, più vero, più tremendo, gli si affianca il dramma della delinquenza dei grandi che raggiunge e coinvolge i ragazzi, che fatalmente stritola la loro innocenza e le loro vite. Questa realtà fin troppo concreta, questo specchio di un mondo di vinti ai quali la sconfitta ha portato, insieme alla perdita dei beni materiali che ognuno cerca di procacciarsi come può (e per ottenerli non bada ai mezzi, e quando li ottiene l’incertezza e l’avidità lo inducono a cercarne altri) anche la perdita dei prlncipli morali elementari, è tutto in ombra e appafe soltanto per accenni; ma in realtà domina il film che, pur non essendo nè volendo essere atto di accusa i(questo documento esprime a suo modo anche un grande sentimento di pietà), prospetta un quadro dal quale si sa bene quali conclusioni dedurre.

Sciuscià è arrivato pochi giorni dopo Napoli milionaria, in certo senso De Sica e Eduardo De Filippo fanno il paio. Entrambi, e sono tra i primi, hanno studiato con occhi liberi un settore dèi panorama attuale di questo nostro paese. Senza sdegni, senza recriminazioni, senza nessun atteggiamento retorico — nè in senso amplificativo, nè in senso contrario, — senza disperazione, ma anche senza finzioni. Hanno il cuore saldo e non temono che i sentimenti possano portarli a diventar sentimentali. E non sono nemmeno dei moralisti, ma entrambi additano quali sono i limiti perduti, quali i limiti che è necessario riproporsi per ricominciare da capo.

Raul Radice, «L'Europeo», 1946


Roma, dicembre

È innegabile che con il neo-realismo, nel cinema italiano di questo lungo dopoguerra, si «la calcata piuttosto la mano. Sono più di quattro anni che i nostri registi fanno a gara a rappresentarci la vita rionale con una crudezza talvolta gratuita ma in ogni caso inesorabile. Sappiamo tutto ormai sul dietroscena dei mercatini rionali, sulla violenza verbale dei vetturini, sulle deplorevoli condizioni delle borgate, su Valmelalna e Tomarancio, sulle pittoresche e violente risposte che possono dare borsare nere e cicoriare se provocate. I nostri registi si sono messi d’impegno a mostrarci «la vita com è». Ma queste dimostrazioni ci vengono fatte il più delle volte con mano pesante e generica al tempo stesso si avverte negli autori dei film la preoccupazione di non apparire abbastanza realistici e «veri».

Molto volentieri, e spesso senza che ce ne sia necessità, l'obiettivo va frugando, con fini d’arte, su mucchi di spazzatura, orinatoi, tubi di scarico e bidoni sfondati. Molti film sono parlati in dialetto, frasi smozzicate e talvolta incomprensibili escono dalle labbra di giovinastri riluttanti raccolti alla periferia o di rurali snidati nelle boscaglie e portati di peso davanti alla macchina da presa. Ne nasce uno spiacevole realismo sordamente documentario che alla lunga finisce col dare fastidio non essendo alleggerito, e quindi reso più «vero», dalla grazia e dalla misura dell’arte.

Tra i film che vogliono ritrarre realisticamente la vita quotidiana di una grande città «Ladri di biciclette» di Vittorio De Sica è comunque il più felice. Qui non si può dire davvero che manchino la grazia, la misura e il gusto. Ce n’è perfino d’avanzo. De Sica si diverte con i suoi personaggi e li domina perfettamente, sa benissimo dove vuole arrivare e muove le scene con mano leggera e controllatissima. Il soggetto è un pretesto offerto alla sensibilità e allo spirito di osservazione del regista per descrivere alcuni ambienti romani in una giornata di domenica.

Un attacchino cui è stata rubata la bicicletta, unica risorsa per il suo lavoro, si mette in giro sulle tracce del ladro. Dal mercato di piazza Vittorio a quello di biciclette di Porta Portese passa via via nella sua affannosa ricerca per quartieri popolari, vicoli e vicoletti della vecchia Roma, nei locali di un sodalizio di assistenza per poveri, in una casa di tolle-nza di infimo ordine, in un torante borghese con chitarristi, tra la folla che esce da una partita di calcio, fino al punto in cui, esasperato da quelle vane ricerche, pressato dal bisogno, tenta di rifarsi rubando anche lui una bicicletta. Ma gli va male e per un puro miracolo non finisce in prigione.

In realtà nel film non accade nulla ma De Sica si sofferma a descrivere tutti questi ambienti facendo molte osservazioni spiritose, mettendo bene a fuoco espressioni, battute e caratteri e facendovi circolare un'aria di Roma cordiale e autentica. Il bambino che segue passo passo il padre in questa avventura è la più grossa trovata del fllm; la sua cordialità è irresistibile. De Sica si è divertito a spremere da ognuno dei suoi personaggi, anche da quelli che passano fugacemente ed hanno una sola battuta, qualcosa di mordente che colpisce nel segno. Il film è pieno di queste notazioni vive e precise, di tante piccole cose vere espresse bene. Anzi si può dire che è fatto soprattutto di queste.

Volendo fare un paragone letterario si può dire che «Ladri di biciclette» somiglia più ad un gustoso «elzeviro, cinematografico in cui l'autore si è compiaciuto di mostrare lo possibilità e le risorse della propria arte, che ad un racconto vero e proprio basato sui fatti. Questo spiega l'esaltazione. in certi casi eccessiva, che ne è stata fatta in ambienti di intellettuali e di buongustai (alcuni hanno gridato al capolavoro mondiale) e il modesto seppure genuino successo di pubblico. Gli attori sono tutti personaggi veri. Il protagonista, è l’operaio Maggiorani della Breda; si dice che De Sica lo abbia fatto impegnare per iscritto di non partecipare a nessun altro film. [...]

Ercole Patti, «L'Europeo», anno IV, n.52, 26 dicembre 1948


«Noi donne»,16 aprile 1950 - Vittorio De Sica e Cesare Zavattini


«L'Unità», 10 febbraio 1951 - Vittorio De Sica, Cesare Zavattini


1951 02 24 Tempo Miracolo a Milano intro

«Tempo», 24 febbraio 1951 - Vittorio De Sica e Cesare Zavattini


1951 02 27 L Avvenire d Italia Toto il buono intro

«L'Avvenire d'Italia», 27 febbraio 1951 - Vittorio De Sica e Cesare Zavattini


1951 04 17 L Unita Toto il buono intro

«L'Unità», 17 aprile 1951 - Cesare Zavattini e Vittorio De Sica


1951 07 22 Noi Donne Vittorio De Sica intro

«Noi donne», 22 luglio 1951 - Vittorio De Sica


1952 04 05 Epoca Vittorio De Sica intro

Perché la gioventù moderna è sempre scontenta di tutto7 Vorrei sapere, per favore, cosa ne pensa Vittorio De Sica.

(MARIO RAVAGGI, FIRENZE)

1952 04 05 Epoca Vittorio De Sica f1Questa domanda, alla quale, sinceramente, non posso rispondere che in modo vago, ridesta in me un motivo di insoddisfazione, quasi un senso di colpa. Confesso, con tristezza, che io so poco dei giovani di oggi se per c giovani » intendiamo ancora quelli che si affacciano adesso alle soglie della vita e ai suoi problemi, i ventenni o giù di lì.

L’opinione, l’immagine, che ho di essi, è fuggevole e vaga ; li vedo, per la maggior parte, passare in vespa, a velocità che mi sembra almeno eccessiva; li vedo, piova o nevichi, prendere d'assalto i tram domenicali per andare alla «partita»; li vedo anche dirigersi a frotte, parecchio rumorose direi, verso le Università donde giungono poi echi di frequenti pronunciamenti per questa o quella ragione. Poiché non appartengo ad alcuna associazione o ad alcun partito politico, e tantomeno ne frequento gli ambienti, non conosco di questi giovani quella élite più matura o intraprendente che si è immessa già in una qualsiasi forma di vita associativa o si dedica alla politica attiva.

Mi dispiace non trovarmi che di rado con i giovani: è forse retorico ripetere che a essi bisogna guardare come «alla speranza della patria » ma è un fatto che il domani è nelle loro mani, sono l’avvenire. E noi che siamo il passato, tutt’al più il presente, ci troviamo a volte come superati, dimenticati, inutili, quasi avessimo già dato quanto potevamo; per cui sarebbe l’ora che ci facessimo da parte.

Un problema dei giovani c’è e penso sia di enorme importanza. Se è vero, lasciatemi dire: se fosse vero, che essi si interessano poco o nulla a -quanto ha un valore o un significato; se fosse vero che rifuggono, sia aridità o scetticismo, da quanto è poesia, speranza, infatuazione magra-ri, ma germe e stimolo per impegnarsi, per provarsi, per andare oltre; se tutto ciò fosse vero, vorrebbe dire che l’odierna è proprio un’epoca di decadenza, che essi vivono e noi viviamo in un’epoca disperata.

Vorrei tanto poter rendermi conto di questo problema, chiarirlo in me e magari farne materia viva per un film. Ma oggi non saprei: sarebbe una visione pessimistica, incompleta, inadeguata, quindi ingiusta. Come fare se il mio passo, il nostro passo, è più lento, più guardingo (stanchezza o riflessione?) del loro?

(Forse per questo mi è stato invece possibile rendere con «Umberto D. » il dramma della vecchiaia solitaria...)

Dei giovani di oggi conosco, e bene, solo quelli che hanno la mia stessa passione per il cinematografo, e sono molti veramente, e l’hanno da quando erano ragazzini ; sanno tutto, di questo nostro cinema, e vogliono per esso sempre più.

«Epoca», 5 aprile 1952


«A Chicago, d'inverno, c'è la pioggia, ma senza miracolo...» E così, all'inizio dell'autunno, Vittorio De Sica è tornato in Italia dopo aver lavorato per alcuni mesi, in due riprese, al film «Il Miracolo della pioggia» da un soggetto di Ben Hecht, uno dei più fecondi scrittori hollywoodiani. De Sica ha rimandato alla prossima primavera l'inizio di questo suo primo film americano che, per l'appunto, doveva essere girato a Chicago.

«Ho molto apprezzato il mio soggiorno negli Stati Uniti e vi ritornerò con piacere a febbraio», egli ha detto. Ma ha anche detto : «Non è facile abituare gli americani a portare sullo schermo le piccole storie umane che io sono abituato a filmare». Beh, staremo a vedere se questo film si farà.

De Sica è sceso dall'aereo a Roma con Reinhardt. Ben tornato! Grigio di capelli, in doppio petto grigio e il sorriso un po' svagato delle grandi occasioni, aveva un'aria di figliol prodigo nobile. Sembrava anche avere una lieve espressione di umiltà, ma era la stanchezza del maggio.

Davanti ai numerosi fotografi e giornalisti che erano all'aeroporto, Max Reinhardt si è appartato con discrezione. La festa non era per lui. Egli era una delle tante celebrità che vanno e vengono da Roma; De Sica era una bandiera che tornava. «Avevo una grande nostalgia dell'Italia. Gli ultimi giorni non vedevo l'ora di partire. Avrei anche potuto anticipare, e Dio solo sa se non era questo il mio desiderio, ma ho domito andare a Quebec per mettermi d'accordo con Montgomery Clift che, con Jennifer Jones, sarà il protagonista del film che inizierò in ottobre a Roma.»

Si tratta del film «Stazione Termini» che doveva essere realizzato molto tempo fa dal francese Autant-Lara, il regista del «Diavolo in corpo». È una storia, estremamente semplice, di due amanti che devono lasciarsi; si svolge per intero nei diversi ambienti della stazione di Roma. Il soggetto è di Zavattini; De Sica torna agli antichi amori.

Quando De Sica partì per l'America, avvenne, tra lui e Zavattini, un divorzio di fatto. Zavattini rimase a casa perché gli fu negato il visto di ingresso negli Stati Uniti Lo stesso De Sica aveva'aiuto qualche difficoltà, poi superata. E ci fu chi avrebbe desiderato da lui il grande gesto: il rifiuto di partire senza Zavattini, colui che aveva scritto i suoi film migliori. Ma il gran gesto non si ebbe. Si ricorderà che Zavattini fece allora delle dichiarazioni molto amare su questa fine di una pluriennale e affettuosa collaborazione. De Sica, invece, volò verso l'America sulle ali deir euforia.

«Stazione Termini» sana il divorzio e riporta le cose allo stato antico. Ma, per la prima volta nel doiwguerra, De Sica dirige un film con attori professionisti. «Sono sicuro che la mia collaborazione artistica con Jennifer Jones porterà ottimi frutti» egli ha affermato. Ma già si parla di un film successivo, tratto dall'«Oro di Napoli» di Marotta, che sarà interpretato da napoletani non attori.

Jennifer Jones attualmente in navigazione nell'Atlantico, arriverà tra pochi giorni dopo aver sistemato i suoi due figli in un collegio svizzero. Montgomery Clift che, in ogni sua visita a Roma, non ha mai mancato di incontrarsi con De Sica e gli ha più volte espresso il suo desiderio di recitare sotto la sua direzione, è trattenuto ancora nel Canada da un film di Hitchcock: farà di tutto per arrivare in tempo. Se non dovesse riuscirvi, soffrirebbe il più grosso dispiacere della sua vita.

D. M., «Epoca», 1952


1954 01 03 La Nuova Gazzetta di Reggio Vittorio De Sica intro

«La Nuova Gazzetta di Reggio», 3 gennaio 1954 - L'oro di Napoli


1954 07 04 Epoca Vittorio De Sica intro

L’attore smentisce la notizia, ma a darle credito sta il suo viaggio al Messico in compagnia dell'avvocato Gino Sotis, specialista in controversie matrimoniali.

Roma, giugno

La smentita data da Vittorio De Sica alla notizia del suo divorzio da Giuditta Ris-sone non ha. negli ambienti cinematografici romani, convinto nessuno. La notizia del divorzio era venuta dalla città messicana di Juarez, la stessa dove Gassmann aveva divorziato da Nora Ricci e successivamente sposato Shelley Winters, ed era circostanziata: riferiva il nome del giudice, la sezione del tribunale giudicante e la motivazione della sentenza col particolare che la figlia era stata assegnata alla madre.

1954 07 04 Epoca Vittorio De Sica f1Vittorio De Sica e la moglie Giuditta Rissone in un vecchio film di anteguerra. I due noti attori si sposarono nel 1937 ad Asti.

La smentita a distanza di poche ore. è arrivata da Città del Messico. De Sica ha tenuto a dichiarare alla stampa di essere in ottimi rapporti con la moglie e che il viaggio a Juarez era avvenuto solo per ragioni di lavoro, volendo egli studiare l’ambiente di un film sui braccianti messicani che vanno clandestinamente negli Stati Uniti, i così detti braceros.

Ora. negli ambienti cinematografici romani si fa notare che mai De Sica aveva manifestato tanto interesse per le emigrazioni dei braceros né per qualunque altro argomento d’ambiente messicano; inoltre egli ha impegni cinematografici in Italia per parecchio tempo. Si fa anche notare la stranezza della partenza per il Messico alla chetichella. Mentre in Italia lo pensavano a Berlino per il Festival e a Berlino lo pensavano in Italia, egli varcava l'Atlantico in aereo.

La notizia venuta da Juarez collimava col mistero del viaggio in modo perfetto e, nonostante la personalità dell’uomo, non aveva destato nessuna sorpresa né particolari reazioni. Semmai è stata la smentita a destare sorpresa. Chi, come noi, per capirci qualche cosa, si è subito dopo affrettato a telefonare a casa di Giuditta Rissone si è sentito rispondere che la signora sta compiendo un viaggio di piacere in Ispagna con la figlia Emi.

1954 07 04 Epoca Vittorio De Sica f2Vittorio De Sica, Margot Fontaine, Robert Helpman, Maria Mercader, e Beatrice Appleyard durante un ricevimento offerto dal "British Institute" romano.

Perché ha destato più sorpresa la smentita che la notizia? Perché una separazione fra De Sica e la Rissone è nell'aria da molto tempo. Essi si conobbero all’epoca degli spettacoli Za-Bum, oltre ventanni fa; rinsaldarono la loro amicizia con la Compagnia di prosa De Sica - Rissone - Melnati che fu uno dei più brillanti complessi che si siano visti sui nostri palcoscenici. Il matrimonio, avvenuto ad Asti il 10 aprile 1937, fu la naturale conclusione del comune lavoro che aveva dato loro modo di amarsi e di stimarsi. In Titta, come gli amici chiamano affettuosamente la Rissone, De Sica trovò rare doti di sostegno e di conforto. Erano ambedue attori celebri e amati dal pubblico, alternavano senza posa cinema e teatro. Ma mentre il teatro li univa, il cinema li separava: insieme hanno interpretato soltanto quattro film.

Ma tale situazione era particolarmente favorevole a svegliare e sviluppare nella donna un certo malessere nei confronti dell'uomo che gli impegni di lavoro tenevano lontano da lei e obbligavano
ad avvicinare una quantità di altre donne. La prima volta però, in cui essa temette seriamente per l’unità della famiglia fu quando, nel 1941, già passato alla regìa, De Sica conobbe e scelse, fra le interpreti di Un garibaldino ai convento, un’attrice spagnuola che lavorava in Italia ormai da un paio d’anni. Da questo momento si sgrana una serie di film che trovano l’attrice, cui si è accennato, al fianco di De Sica regista o interprete; ed è in questo momento che, a quanto ci ha raccontato un suo intimo amico, comincia per De Sica una diversa esistenza. «Non so neanche io» ci ha detto questo amico «che cosa sia realmente successo in Messico ma, secondo me, è più attendibile la notizia del divorzio che la smentita.

1954 07 04 Epoca Vittorio De Sica f3La figlia di De Sica e della Rissone, Emi, colta dal fotografo mentre sta giocando con il barboncino che papà le ha mandato dall'America. Emi De Sica oggi ha 15 anni.

Negli ultimi tempi, la situazione tra Titta e Vittorio si era fatta sempre più difficile. Vittorio è un grande artista, un uomo affascinante sotto ogni punto di vista ma, sentimentalmente, gli riesce difficile tanto affrontare quanto sfuggire le responsabilità. Si era creato una sua vita indipendente e faceva salti mortali per non perdere i benefici dell’altra, soprattutto per non privarsi della figlia Emi alla quale è profondamente affezionato. Se potesse, continuerebbe cosi all’infinito, dividendosi tra l'una e l'altra esistenza, inventando ogni_ giorno qualcosa per mantenere la stabilità dell’equilibrio. Nella continua, giornaliera invenzione gli succede anche di fare delle gaffe» : per esempio, pare che una volta avesse preteso di dover partire per l’estero_e che, al ritorno, trovasse Titta col suo passaporto in mano. Titta è una donna intelligente e Vittorio la stima molto. Per quanto assurda possa sembrare questa idea, penso che, se divorzio c’è stato, esso sia dovuto ad altre ragioni che pon quella di separarsi veramente dalla moglie.»

Interessante e curiosa coincidenza: l'avvocato Gino Sotis, famoso specialista in divorzi, si trova anche lui nel Messico ed è partito con lo stesso aereo di Vittorio De Sica.

N.O., «Epoca», 4 luglio 1954


1956 Tempo Vittorio De Sica intro

Vittorio De Sica è nato a Sora (Frosinone) nel 1902. Iniziò la sua attività cinematografica, come attore, nel 1931, con il film "La segretaria per tutti". Il primo film che diresse, fu "Rose scarlatte" nel 1940. Con "I bambini ci guardano", 1942, aprì la serie dei suoi lavori importanti. Attualmente è impegnato nella lavorazione de "Il tetto” tratto da un soggetto di Zavattini.

1956 Tempo Vittorio De Sica f1Domanda. - Nei giochi infantili, quale parte le piaceva riserbare per sè?

Risposta. - La parte, che nel circo, fra i clowns sostiene Bagonghi. Seguivo gli gltri, li imitavo, in tono minore.

D. - Esiste un’attrice con la quale ha sempre sognato (e mai potuto) realizzare un film?

R. - Greta Garbo.

D. - Qual è lo spettacolo naturale che suscita in lei maggiore emozione e perchè?

R. - Le neve. Perchè sono meridionale e la neve mi mette in uno stato di malinconia quasi angosciosa.

D. - Esiste una piccola azione che le abbia lasciato un grande rimorso?

R. - Un dispetto che feci da bambino a mìo padre. Mi aveva promesso la bicicletta, ma essendo povero non me lo potè comperare. Allora io ruppi per dispetto V unica bottiglia di champagne alla quale mio padre teneva per poter festeggiare Vanno nuovo.

D. - Qual è, secondo lei, il film più "italiano” di questo anno?

R. - Le amiche di Michelangelo Antonioni.

D. - Dovendo girare un film sulla Divina Commedia a chi affiderebbe la parte di Beatrice?

R. - A Eleonora Rossi Drago.

D. - Qual è, secondo lei la condizione necessaria perchè un uomo morendo, possa dire di aver vinto la propria battaglia nella vita?

R. - Aver compiuto anche un piccolo gesto a beneficio della umanità.

D. - Ricorda un fatto di cronaca recente o no, da cui le piacerebbe trarre lo spunto per girare un film?

R. - L’atto eroico di quel bambino che nel disperato tentativo di salvare due coetanei in uno stagno ne salvò uno e morì affogato con Valtro. Ma è un film che non si può fare perchè disperato e troppo triste.

D. - Per quale dei suoi contemporanei scomparsi sarebbe indotto ad usare la espressione "incolmabile vuoto”?

R. - Fleming, Einstein, Don Gnocchi e tutti coloro che, nella vita hanno vinto la loro battaglia.

D. - Ritiene che gli uomini di cattivo gusto siano meritevoli dell’Inferno? Se sì mi dica quale pena del "contrappasso” suggerirebbe per loro.

R. - Uniti ad ascoltare continuamente brani di Pergolesi, Palestrina, Mozart e versi di Dante, Petrarca, Ariosto, Alfieri e Leopardi.

D. - Dovendo trovare un nuovo titolo per Lascia o raddoppia che cosa avrebbe da suggerire?

R. - Parecchi, tra i quali, per esempio: Se sei povero non raddoppiare. Oppure: Lascia se non puoi ed anche: Ricordati dell’uovo.

D. - Vuole indicarmi una domanda "chiave” per comprendere dalla risposta se la persona interrogata è un imbecille o no?

R. - t Scusi mi tolga una curiosità. Lei, è un imbecille?». Se l’interrogato sorride e la prende per uno scherzo, si tratta di una persona intelligente, se invece ti risponde atterrandoti con un pugno vuol dire che intelligente non è.

D. - Dovendo essere giudicato per un reato di diritto comune a quale personaggio storico affiderebbe la sua difesa?

R. - A Marco Tullio Cicerone.

D. - Potrebbe indicarmi con quali virtù (o con quali difetti) un uomo potrebbe conseguire il successo?

R. - Il successo lo si ottiene con una sola virtù: la modestia e l’umiltà, sinceramente sentite.

D. - Mi dica con quale attributo vorrebbe passare alla storia?

R. - Non ho tali pretese. Mi basta passare a miglior vita con il convincimento di non aver mai fatto male a nessuno.

D. - Ci sono cinque minuti della sua vita che a nessun costo lei accetterebbe di rivivere?

R. - Subito dopo la guerra. Durante una tournée che feci nel Meridione.

D. - Qual è secondo lei il segreto di un successo di un uomo?

R. - Il segreto del successo, per quel che riguarda un attore o un’attrice sta molto nel "grado” di simpatia e di cor»-dialità che sa esercitare sul pubblico, aggiungendo poi autentiche capacità di carattere artistico.

D. - Se l’Accademia d’Italia venisse ripristinata, porrebbe la candidatura per la sezione del cinema?

R. - No.

D. - I suoi sogni sono in nero oppure a colori?

R. - In bianco e nero.

D. - Dovendo raccontare una favola ad un bambino quale sceglierebbe?

R. - Una di mia invenzione, pensando che mi ci divertirei anch’io.

D. - Esiste secondo lei una virtù che essendo tale nell’uomo è, invece un difetto nella donna?

R. - La mascolinità.

D. - Qual è secondo lei, la differenza fondamentale tra Roma e Milano?

R. - Milano è una grande città di provincia del Nord. Roma è la capitale del Sud.

D. - Qual è, secondo lei la più importante istituzione italiana?

R. - I Carabinieri.

D. - Se un produttore le mettesse a disposizione una cifra praticamente illimitata, quale film vorrebbe realizzare?

R. - Le Memorie di un ottuagenario.

D. - Se la radio si mettesse improvvisamente ad annunciare che i marziani stanno calando sulla Terra, quale sarebbe la sua più istintiva e immediata reazione?

R. - Paura, frammista a una grande curiosità.

D. - La decisione ultima se lei sia meritevole o meno dell’Inferno viene affidata, sull’esempio di Liliom a una buona azione che è in suo potere di fare ritornando per breve tempo sulla Terra. Mi dica quale sarebbe questa "buona azione”?

R. - Governare per un po’ di tempo e dare il necessario per vivere a chi non ha nulla.

D. - Essendo in suo potere inviare qualcuno dei suoi contemporanei sulla Luna, su chi cadrebbe la sua scelta?

R. - Su nessuno.

D. - Esiste qualcosa al mondo, venendo a mancare la quale la sua vita perderebbe ogni significato?

R. - La mia professione di regista.

D. - Quale dei quadri della nostra pittura sceglierebbe per meglio poter esprimere l’Italia?

R. - Un piccolo quadro di Morandi, alla Galleria Cardazzo, a Venezia.

D. - E in campo cinematografico, su quale film cadrebbe la sua scelta?

R. - La terra trema di Luchino Visconti.

D. - Il poeta Paul Leautaud, morto di recente, al quale era stato detto, a proposito di un cane: c Possiede la intelligenza di un uomo» diede la seguente risposta: «E vi sembra molto?». In che modo commenta lei codesto apprezzamento?

R. - Si tratta di una battuta di spirito oppure denota un grande disprezzo per l'uomo. Cicerone invece diceva che l’uomo é «un fatto meraviglioso».

D. - Dovendo fare un film con Anna Magnani quale parte le affiderebbe9

R. - Una donna del nostro tempo: è la attrice più sensibile, più sincera, e più "moderna” che noi abbiamo.

D. - E se questo film dovesse farlo con Vittorio De Sica?

R. - Come regista sono un severo giudice di me stesso. Quindi non affiderei a De Sica nessuno dei miei personaggi.

D. - Qual è, secondo lei, il colmo della infelicità umana?

R. - Sentirsi inutili.

D. - Preferisce i vinti oppure i vincitori della vita?

R. - I vinti.

D. - Per qual motivo secondo lei la maggioranza delle persone che ho interrogato, lei compreso, ha risposto cosi?

R. - Per quel senso nascosto e insopprimibile nell’animo umano di solidarietà con chi ha bisogno di aiuto.

D. - Qual è secondo lei la differenza tra fascino e sex-appeal?

R. - Il fascino può essere esercitato da una donna brutta. Il sex-appeal, invece, no.

D. - Per quale ragione mentre il centro di ogni industria, quella giornalìstica compresa, si trova a Milano, quella cinematografica è a Roma?

R. - Perchè a Milano si è sempre considerata l’industria del cinematografo una cosa poco seria, non un’industria.

D. - Qual è la sua opinione sulla censura cinematografica in Italia?

R. - Dannosa, nel senso che paralizza le idee.

D. - Se vorrà ora, presentandosi ai lettori, rispondere a quest’ultima domanda, mi agevolerà il compito di interpretare ciò che ha detto nelle altre risposte: «Signor De Sica, chi è lei?».

R- Io sono un uomo che ha sempre cercato di fare qualcosa di utile per i suoi simili e forse morrà senza esserci riuscito.

Dirò che la mia ultima domanda a De Sica: «Signor De Sica, chi è lei?», domanda che rivolgo assai raramente, in queste interviste, era in fondo superflua. O, per essere più esatti, essa si è rivelata superflua a ragion veduta, ovvero quando, avendola' ormai formulata avevo ottenuto la risposta che avevo previsto.

A indurmi a formularla era stato lo scrupolo, il sospetto che suscitano certe cose (in questo caso le risposte di De Sica) talmente semplici e limpide da far venire il dubbio che lo siano solo a metà e che sottointendano chi sa che cosa. Tale è la sorte comune direi all’uomo moderno in genere e all’uomo di cinema (ossia appartenente ad un mondo sempre un po’ misterioso) come lo è De Sica. Invece, niente di tutto questo. Oltre che ad essere semplici e limpide le risposte dell’autore di Ladri di biciclette e quest’ultima in modo particolare, danno la misura della sua modestia e perfino della sua umiltà. Umiltà e modestia che si giustificano sempre di fronte al compito altissimo (rendersi utili ai propri simili) da lui assunto; che si giustifica invece assai meno, quando si tratta di giudicare non delle istituzioni ma dei singoli uomini. In questi casi De Sica non fa nomi, evita di rispondere, elude la domanda celandoci quei risentimenti che l’uomo di talento finisce non ostante tutta la sua umiltà e modestia pur sempre con l’avere. 

Enrico Roda, «Tempo», 1956


1957 Cinema Vittorio De Sica intro

1957 Cinema Vittorio De Sica f1Non cambierà mai. La sua faccia e il suo sorriso garantiscono per l'eternità che Vittorio De Sica non sarà mai un «cattivo». Il suo destino fu segnato nel 1932, con Gli uomini che mascalzoni!, responsabile quel mite e sagace regista piccolo borghese che è Mario Camerini. Allora divenne l’immagine di ciò che quasi tutti gli italiani si sentono di essere mascalzoni in apparenza, donnaioli quanto basta per salvare il prestigio nazionale, ottimi padri di famiglia, cortesi e affabili cittadini con il gusto del mugugno ma con l’inclinazione ad un beato conformismo spicciolo, spregiudicati e timorati insieme. Lo sappiamo, tutta questa roba è retorica, ma nella retorica c’è sempre qualcosa di vero. Ora non parliamo del regista — dell’autore di Sciuscià o di Ladri di biciclette o di Umberto D — parliamo dell’attore. Se volessimo accennare all’attività creativa di De Sica, dovremmo fare un discorso ben più ampio, tirare in ballo Zavattini e il neorealismo, e forse finiremmo per trovarci un po’ distanti da questo tipo di attore insostituibile che ha dato un volto ai desideri e alle debolezze tradizionali degli italiani. Che non sia stato, e non possa essere, un «cattivo», conta certo qualcosa. Non ha mai interpretato autentici drammi, è sempre rimasto a mezza strada tra commedia e farsa, senza spingersi nelle zone in cui si gioca allo scoperto o si affronta la vita gagliarda-mente. Davanti alle difficoltà preferisce scantonare, o ignorarle. É stato, a ben pensarci, un curioso tipo di furbo che si adatta alle circostanze, sorridendo. O, se vogliamo dirla in altro modo, ha fatto con misura e discrezione ciò che 1 personaggi di Sordi fanno oggi sfacciatamente, con la cinica brutalità dei diseredati che non hanno nulla da perdere. Fra lui e Sordi, infatti, c’è stata la guerra, e dopo la guerra, evidentemente, son potuti nascere i «cattivi».

De Sica attore cinematografico comparve nel decennio dal ’30 al ’40, in epoca di fascismo e di «telefoni bianchi». Si trovò cosi a riflettere tutta l’esperienza e lo scetticismo di una generazione senza prospettive, che apprezzava il «tirare a campare» come l’unico mezzo per evadere decentemente. Possedeva un tipo fisico — magro, alto, disinvolto, la faccia del buon ragazzo — che era quanto di più adatto si potesse desiderare. E il pubblico lo capi subito e fece di lui l’unico autentico «divo» che il cinema italiano abbia mai avuto. Chi non ricorda, dopo Gli uomini che mascalzoni!, Darò un milione, Napoli d’altri tempi, Il signor Max, La mazurka di papà, Grandi magazzini, Rose scarlatte? C’era tutto il fascino e il gusto del De Sica giovane Là dentro, un amico col quale si stava volentieri in compagnia per un paio d’ore. Un giovanotto di cui ci si poteva fidare.

Tutti sapevano della sua attività teatrale, del suoi esordi con Tatiana Pavlova, dei suoi rapidi progressi nelle parti di «secondo brillante» e di «primo attor giovane», delle sue escursioni nella rivista con la Za-Bum, della sua sempre più assidua presenza sui palcoscenici della prosa, al fianco di Melnati, della RLssone, di Tofano. Pochi sapevano, invece, che questo attore era meticoloso e tenace, che aveva avuto un’infanzia modesta, che aveva studiato assai bene a scuola, con lo stesso puntiglio con cui ora recitava, e che si era diplomato in ragioneria, secondo i desideri del padre. La sua a un certo punto apparve come la sorte perfetta di un buon figlio di famiglia borghese: trovò un impiego e si iscrisse all’Istituto superiore di Commercio. Se non fosse stato presentato alla Pavlova avrebbe continuato su questa strada in tutta tranquillità e soddisfazione. Dopo il teatro venne il cinema, dapprima con La compagnia dei matti (nel 19281 e poi con La vecchia signora, un film del 1931, che sarebbe stato il vero inizio di una carriera destinata a non più interrompersi.

Ma la storia di De Sica è troppo nota perché la si debba raccontare un'altra volta. Come tutti gli attori cinematografici che si trovarono già maturi alle soglie della guerra (De Sica è nato a Sora nel 1901), dovette affrontare negli ultimi tempi il problema di sopravvivere e di rinnovarsi. Ci riuscì — esempio unico non soltanto in Italia — impegnandosi nell’attività di regista e divenendo quel mirabile autore di sommessi drammi neorealistici che gli hanno
dato una seconda fama. Non per questo abbandonò la recitazione. Solo. se ne preoccupò assai mono, lasciò fare al gusto di altri registi e prese l’atteggiamento del gran signore che si concede con molta amabilità ad un lavoro piacevole ma trascurabile. Eccezionale direttore (nei suoi film) di attori improvvisati, mise il proprio talento istrionico a disposizione di chi volesse approfittarne.

Attore, è rimasto suppergiù quello che aveva foggiato Camerini nell’anteguerra, brillante simpatico e sentimentale. I suoi gusti veri erano quelli, e tali sono rimasti. Anche certi gusti profondi del pubblico italiano sono rimasti gli stessi, cosicché nuovamente, e nonostante tutto, De Sica attore e gli italiani si ritrovarono dalla stessa parte, i soliti «tira a campare» con il sorriso sulle labbra. Se De Sica è incorreggibile, il suo pubblico non lo è meno. Ai Grandi magazzini e al Signor Max si sostituirono l’episodio dell’avvocato in Altri tempi e la figura del maresciallo dei carabinieri in Pane, amore e fantasia La vena comica si appesanti, dalla commedia si scivolò nella farsa. Dal garbo del bel giovane di prima della guerra si giunse alle macchiette con cui l’attore ha riempito — facendone la fortuna commerciale — decine di film. Ha sfruttato le sue doti sino al limite dell’esaurimento, ha impiegato tutte le sue risorse tecniche per ottenere effetti sempre più precisi e infallibili, ha addirittura finito per recitare la parodia di quel che era stato in gioventù. E con ciò è divenuto simpatico a tutto il mondo. Come gli italiani in fondo.

Fernaldo Di Giammatteo, «Cinema», 1957


1957 01 24 La Gazzetta di Mantova Vittorio De Sica intro

«La Gazzetta di Mantova», 24 gennaio 1957


Da quasi vent'anni un dramma di affetti in conflitto angoscia Vittorio De Sica, diviso dalla prima moglie Giuditta Rissone, impossibilitato a sposarsi di nuovo con Maria Mercader. In questi giorni il popolare attore e regista ha tentalo di dare una parvenza di regolarità alla sua incresciosa posizione.

Liechtenstein, o anche quel paese là, come si chiama" (per I pigri o i timidi) è stata una delle parole pronunciate più spesso a Roma in questi ultimi giorni; più spesso di "caldo", di "olimpiadi", di "traffico" e perfino di "mare". L’hanno pronunciata con curiosità e speranza le innumerevoli signore separate legalmente, divorziate, quasi divorziate, divorziate messicane, ricorrenti alla Sacra Rota o semplicemente stanche del marito.

«Ma come avrà fatto? Ma allora si può fare! Ma la cittadinanza come si ottiene? Fosse la volta buona che riesco a liberarmi di Arturo: bisogna che telefoni all’avvocato»,

L'hanno pronunciata con disapprovazione e rampogna tutte le signore abbandonate, tradite, o semplicemente trascurate dal marito («Bella roba, allora dove va a finire la famiglia. Ma già, questa gente del cinema fa sempre tutto quello che vuole, per loro le leggi non esistono. Una vergogna» ). L’hanno pronunciata con un lieve senso di colpa moltissimi signori che avevano sempre deplorato sespirando, con le loro amiche, che in Italia non esistesse il divorzio. («Ma no, non è valido, è tutta apparenza, cara, ti assicuro, figurati se non ci avrei già pensato») e molti avvocati matrimonialisti colti di sorpresa («Vedremo, cara signora, faremo il possibile, ma non creda a quello che scrivono i giornali, le cose sono meno semplici di quanto si pensi»).

1960 07 24 Novella De Sica f1Vittorio De Sica, la moglie Giuditta Rissone e la loro figlia Emy in una foto di alcuni anni or sono.

E tutto questo perché da qualche giorno il Principato del Liechtenstein (superficie km. 157, capitale Vaduz, monarchia costituzionale ereditaria, risorse principali allevamento, agricoltura e turismo, protettorato svizzero, abitanti 13.757) ha acquistato un nuovo cittadino, il cui nome è noto in tutto il mondo: Vittorio De Sica. L’attore e regista aveva già fissato nel Principato il suo domicilio legale da più di due anni; adesso anche le pratiche per l'acquisizione definitiva della cittadinanza sono state completate. Quando Gina Lollobrigida decise di chiedere la cittadinanza del Canadà, e di trasferirsi in quel paese, scoppiò una specie di scandalo; notizie, contronotizie, smentite, controsmentite, dichiarazioni ufficiali alla televisione e ai giornali, e persino frementi corsivi patriottici in cui si additava la bella Gina al disprezzo nazionale, la si accusava di ingratitudine e dj evasione fiscale. Ma nessuno ha protestalo quando si è diffusa la notizia che Vittorio De Sica aveva cambiato cittadinanza: i giornali si sono limitati semplicemente a registrare la notizia. Pure non è da dire che essa sia meno clamorosa, o che De Sica sia un personaggio meno degno di attenzione: ma, caso rarissimo, forse unico nel cinema italiano, tra De Sica e i giornalisti vi è una sorta di tacita, amichevole intesa, fatta di stima, di rispetto e di cortesia. Per quanto tutti ne fossero al corrente, nessuno ha mai affrontato in questi anni l'argomento della delicata situazione familiare detrattore; nessuno lo avrebbe mal affrontato, forse, se non fosse intervenuta questa notizia inattesa.

Infatti De Sica ha preso la cittadinanza del Liechtenstein proprio per tentare di risolvere la sua situazione familiare, é una storia vecchia, ormai, De Sica, che ha cinquantotto anni, sposò Giuditta Rissone nel 1937, e l'anno seguente nacque la loro figlia Emy; i primi anni di matrimonio furono felici; Emy, che ho oggi ventidue anni, ricorda ancora con nostalgia le bellissime estati di vacanze, i lunghi viaggi compiuti con il papà e la mamma, la serenità della piccola famiglia. Ma qualche anno più tardi, durante la lavorazione di Un garibaldino al convento, il primo film cui partecipava come regista, De Sica si innamorò di Maria Mercader, una giovane attrice di origine spagnola, blonda e dolcissima, dal lineamenti minuti e delicati, intelligente e sensibile. Se ne innamorò a tal punto, che il loro legame si trasformò presto in una unione salda e tenera, in una seconda famiglia alla quale non mancarono i figli: Manuel Vittorio nacque nel febbraio del 1949, Cristiano Antonio nel gennaio del 1951. Nonostante questo. Vlttorio De Sica non ha mai troncato i rapporti con la sua prima famiglia.

Per quasi vent’anni, l’attore si è diviso imparzialmente tra le due famiglie (che abitano a Roma in appartamenti non troppo lontani); in ognuna delle due case aveva la propria stanza, il proprio guardaroba. II proprio rasoio; ad ognuna delle due famiglie dava lo stesso affetto sincero, lo stesso appoggio finanziarlo, la stessa parte del suo tempo; il suo amore era lo stesso, per Emy come per Manuel e Cristiano; se una domenica andava in campagna con gli uni, la domenica seguente andava al mare con gli altri; se era Emy a andarlo a trovare sul set. Maria Mercader con i bambini veniva a prenderlo la sera per tornare a casa; se partiva per un viaggio, alle due famiglie arrivavano le stesse telefonate, le stesse lettere, gli stessi doni. Certo era Maria Mercader la donna che amava; ma a Giuditta Rissone lo univano non soltanto la legge, ma anche legami di riconoscenza, di affetto e, con molta probabilità, la volontà di sua moglie di non essere messa da parte. Per quasi venti anni, la vita di De Sica è stata tutto un faticoso intarsio di impegni, di situazioni delicate, di piccoli compromessi, una scacchiera sulla quale muoversi con delicatezza e prudenza. E lo sanno bene i fotografi dai quali egli rifiutava di farsi ritrarre in casa o con i figli: «Non voglio offendere nessuno», diceva, «e poi, perché me lo chiedete? Sapete bene qual'è la mia situazione».

1960 07 24 Novella De Sica f2Una delle rare foto di Vittorio De Sica e Maria Mercader. Al tavolo con loro è l'attore Paolo Stoppa.

Una situazione paradossale certo; ma che nessuno di coloro che erano al corrente si sentiva di condannare troppo duramente. Perché tutti sapevano che alla base di quella situazione vi era la sincerità, la Infinita bontà, la onestà di Vittorio De Sica; tutti sapevano che l'attore non poteva essere considerato “uno di questi del cinema che fanno sempre quel che vogliono", uno scriteriato postosi in una situazione irregolare. Era un uomo onesto, un uomo per bene il cui primo matrimonio si era rivelato un errore; che quell’errore aveva pagato e stava pagando duramente, anche se aveva cercato di ricostruirsi una vita felice accanto alla Mercader e al figli avuti da lei; che cercava, anche a prezzo di compromessi, a prezzo di rimproveri da entrambe le parti, a prezzo soprattutto della sua personale terribile fatica (non è facile dividersi tra due famiglie quando ai lavora dieci ore ai giorno, come l'attore ha sempre fatto), di agire onestamente in modo da non addolorare troppo né gli uni né gli altri.

Tuttavia De Sica ha fatto in questi anni anche ogni possibile tentativo per chiarire e regolarizzare la propria situazione familiare; nei 1955 ha chiesto e ottenuto a Città del Messico il divorzio dalla Rissone, e pure a Città del Messico è stato celebrato il suo nuovo matrimonio con Maria Mercader; in seguito, l'attore ha potuto dare il proprio nome a Manuel e Cristiano. Naturalmente, non riuscì a fare in modo che divorzio e matrimonio avessero validità in Italia; ed allora ha cercato una nuova soluzione, chiedendo appunto la cittadinanza del Principato del Liechtenstein,

Qualche giorno fa l'ha ottenuta. Che cosa significa questo? Significa che De Sica diviene cittadino di un paese straniero, e con lui lo divengono automaticamente Maria Mercader e i figli: cosicché, almeno in quel paese, alla famiglia viene data una legittimità che le leggi italiane non le consentono. De Sica sarà dunque In Italia un cittadino straniero, sarà esattamente, per fare un esemplo, come un attore americano divorziato e risposato che vive in Italia, e che nessuno penserebbe ad accusare di bigamia? Su questo punto — spiegano gli avvocati specialisti in materia matrimoniale — la legge presenta due diverse interpretazioni, ed è quindi controverso se l'attore perderà o no la cittadinanza italiana; infatti, mentre le leggi del Liechtenstein prevedono che lo straniero, assumendo la cittadinanza del Principato, perda la propria cittadinanza di origine, esiste una vecchia legge italiana secondo la quale ta cittadinanza si perde soltanto facendone espressa richiesta, è probabile che De Sica diventerà nel Liechtenstein cittadino del Liechtenstein, e che in Italia avrà la doppia cittadinanza.

Le signore separate, le signore trascurate, i signori in malafede non hanno dunque di che essere colpiti: Vittorio De Sica non ha trovato un nuovo sistema per annullare i matrimoni in un paese dove non esiste il divorzio com’é l'Italia. Ha semplicemente tentato, per stratte complicate e tortuose, di fare il dono più bello alla donna che ama, di porre fine ad un lungo faticoso compromesso, di assicurare ai suoi figli, che sono ancora bambini e sono sempre stati tenuti all'oscuro della delicata situazione, una famiglia normale e un avvenire senza domande terribili.

Sergio Fiorentini, «Novella», anno XLI, n.30, 26 luglio 1960


1960 07 27 Il Messaggero De Sica intro

«Il Messaggero», 27 luglio 1960


Dopo Ladri di biciclette, un altro capolavoro di Vittorio De Sica potrà deliziare le generazioni future grazie alla tecnologia digitale che ne consente una lunga preservazione. Si tratta del film Miracolo a Milano, omaggio al romanzo Totò il buono, di Cesare Zavattini, e girato nel 1951 dal maestro del «neorealismo». Il restauro definitivo dell’edizione originale della storica pellicola è stato reso possibile dall’accordo tra l’Associazione Amici di Vittorio De Sica e la Sea aeroporti di Milano, che ha finanziato l’operazione di recupero del film.

«Il restauro digitale è una scommessa aperta - commenta il compositore Manuel De Sica, 62 anni, figlio del grande regista e presidente dell’Associazione che ha voluto il restauro di Miracolo a Milano -. Dopo i restauri degli anni '90, da pellicola a pellicola, di alcuni importanti titoli di mio padre, la tecnologia digitale ci offre la possibilità di salvare i film per un tempo più lungo, anche se ancora non ne conosciamo esattamente la durata. Una volta, la scansione in digitale dalla celluloide era proibitiva, ma per fortuna, adesso, i costi sono diventati più abbordabili».

Nel 2008. toccò a «Ladri di biciclette» (1948), forse il più prestigioso del 32 film diretti da Vittorio De Sica Un paio d'anni più tardi, dopo oltre due mesi di lavoro, è pronto «Miracolo a Milano»; quale sarà il prossimo film che trasferirete in digitale?

«La scelta è caduta su Sciuscià, che mio padre girò nel 1946 e che racconta la storia di due giovanissimi lustrascarpe nella Napoli dell'immediato dopoguerra. Con Sciuscià, nel '47, De Sica vinse il primo Oscar, cui seguirono Ladri di biciclette, nel '49, Ieri, oggi e domani, ‘64, e II giardino del Finzi Contini, nel ’71. Ma mi lasci dire, dopo tanti anni che mi dedico al restauro dei


Il film del 1951
È un omaggio al romanzo «Totò il buono» di Zavattini

Restauri
Dopo «Ladri di biciclette» sarà la volta di «Sciuscià»


film, prima a quello tradizionale, ora al digitale, che la gente ignora che lo scopo principale di questi recuperi è di offrire la possibilità alle nuove generazioni di visionare queste pellicole su grande schermo e non ceno la loro diffusione in dvd. Ho provato a convincere gli esercenti a destinare una sala in ogni grande città al “Cinema trascorso”, ma ho incontrato forti resistenze. A Roma, c’è una sala del genere, ma non ci va nessuno perché non è per nulla promossa. Eppure, quando vado in giro a tenere conferenze agli studenti sui film di mio padre, sia come attore, sia come regista, incontro un enorme interesse, una grande voglia di conoscere. Inoltre, per la programmazione regolare di questi film occorre il consenso degli aventi diritto, i quali non sono per niente interessati al restauro digitale, ma pensano solamente ai piccoli restauri per poi vendere i


La polemica
Ma «I poveri disturbano» era un titolo che non piaceva

«Miracolo a Milano» è un film del 1951 diretto da Vittorio De Sica. Tratto dal romanzo «Totò il buono» di Cesare Zavattini. «Miracolo a Milano» nasce dalla lunga collaborazione tra Zavattini e De Sica, a cui si debbono altri film del periodo neorealista come «Umberto Dj». «Sciuscià» e «Ladri di biciclette». Il titolo di lavorazione del film era «I poveri disturbano», titolo che fu cambiato In seguito alle pressioni dei produttori e di alcuni politici che vedevano H neorealismo come un cattivo biglietto da visita per l'Italia all'estero. Il film fu premiato come miglior film al 4° Festival di Cannes.


film in dvd. Purtroppo, le difficoltà sono tante». Il film «Miracolo a Milano» vinse la Palma d'oro al Festival di Cannes, emozionò gente del calibro di Jean Cocteau, ebbe buona circolazione all'estero, ma in Italia fu quasi un flop: come lo spiega?

«Intanto, aveva un titolo che dava Tidea di un film religioso. Il titolo iniziale era Ipoveri disturbano, ma fu cambiato perché non “disturbasse” troppo. Poi, ci fu qualche critico, soprattutto a sinistra, che arricciò il naso perché si aspettava il seguito di Ladri di biciclette, un altro racconto basato sul concetto tragico dell’esistenza e, invece, si trovò al cospetto di una fiaba, che affrontava i temi dei barboni e della solidarietà, ma in maniera più spettacolare, diversa dalla formula del neorealismo. De Sica con questo film fece un ulteriore esperimento innovativo, impiegò per la prima volta costosi effetti speciali. Il suo fu un tentativo di tracciare un solco nuovo. La scena finale, con il protagonista Totò e i suoi amici che volano sulle scope verso “un paese dove buongiorno vuol dire veramente buongiorno” ispirò persino Steven Spielberg che la ripropose nel finale di E.T.,


Il sogno
«Mi piacerebbe creare un Festival del Cinema Italiano del Dopoguerra»

Lo scopo
«Dare la possibilità ai giovani di vedere queste pellicole»


con i ragazzi che volano in cielo sulle loro biciclette».

Perché, oggi, uno spettatore curioso dovrebbe andare in sala per guardare «Miracolo a Milano»?

«Per molti motivi: per capire l’identità storica di una città come Milano, perché è d’aiuto alla formazione di una memoria, di una coscienza sociale, perché ricorda un periodo, e il ricordare si traduce in acquisizione culturale. Basterebbero 50 film per ricostruire il percorso dell’Italia dagli anni ’60 a oggi. Se andiamo più indietro, fino al dopoguerra, a mio avviso, il vero, grande, Cinema è quello di Rossellini, Visconti e De Sica. Mi piacerebbe riunirli e mostrare i loro film alternandoli. Da tempo, accarezzo l’idea di un Festival del Cinema Italiano del Dopoguerra: è un'idea che mi ricollega al Cinema di mio padre, ma anche a quello di altri autori».

Paolo Calcagno, «L'Unità», 30 luglio 2011


L'oro di Napoli

I due marescialli