Totò visto da Aldo Palazzeschi

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1950-12-09-Epoca

Quando in Italia esisteva un teatro vivo e organizzato bene, vita organizzazione a cui nessuno si è mai sognato di pensare (le organizzazioni esistono oggi che il teatro langue) era consuetudine concludere i grandi spettacoli drammi con un lavoretto comico: la farsa.

Dopo che Otello aveva sgozzato Desdemona o dopo i cinque atti di «Patria» di Vittoriano Sardou dopo non restava in piedi che il boia, dopo le furie di Oreste o il delirio Saul, seguiva «Una buona idea della serva», «Felice, il cerimonioso», «Le distrazioni del signor Antenore», «Meglio soli che male accompagnati»... Come mai quell'appendice dopo che il pubblico si era goduto uno spettacolo lungo e sostanzioso? Quegli organizzatori spettacoli avevano un senso di equilibrio finissimo; non era per tenere il pubblico mezz’ora di più, motivano un dovere di rasserenare gli animi dopo le forti emozioni provate, dopo le visioni oscure del dramma, ne facevano una questione di salute dello spirito.

Una parte del pubblico usciva facendo finta di ignorare l’appendice, ma la parte semplice di esso, che vive con sincerità, si piazzava meglio sulla poltrona per godere la farsa dopo il dramma. A questo modo si soffre, si piange, si muore ma non dimentichiamo di ridere. Diffidate di quelle civiltà nelle quali non fiorisce l’umorismo, diffidate dei tempi nei quali s’inaridiscono le sorgenti del ridere. Abbiamo attraversato ore di angoscia e di dolore, di umiliazione, privazioni e sofferenze fisiche ogni genere, i nostri migliori registi le hanno sapute cogliere con passione in film che rimarranno famosi, ma c’eravamo dimenticati di ridere, avevamo perduto la gioia di ridere. Totò è il richiamo all’ordine della civiltà. Per questo la parte semplice del pubblico, immensa parte, segue con fedeltà questo artista, lo ama, e qualunque cosa faccia gli piace.

Totò è, probabilmente, il solo comico che abbiamo. Molti sono buoni fare della comicità, mille esperti aiutano per farne, ma il comico genuino è, come il poeta, un fatto naturale. Si esprime in poche forme che sono sempre le stesse, è prigioniero di esse, ma appunto perché rappresentano un fatto naturale prima di esaurirsi dovranno vivere la loro stagione; il suo passo, il gesto, la voce, vi si imprimono nella mente. Musco o Totò si nasce. E non è una natura facile, in quarant’anni di Hollywood i comici si contano sulle dita di una mano. Natura in cui l’arte contribuirà coi suoi benefici sviluppi, ma se in fondo quel seme non c’è, non c’è arte che ce lo possa mettere. Musco aveva dalla sua il dialetto e una regione di grande colore e carattere, a Totò la sua Napoli non dona con altrettanta generosità.

La comicità sorge dai contrasti: eroismo - poltroneria, coraggio - paura, l’intelligenza e tutti i suoi contrari, l’amore in persona il cui aspetto non ispira credito in tale materia, talora funziona come disinfettante per i grandi sentimenti, e tutte le calamità pubbliche e private possono essere ugualmente fonte di lacrime e di risate. «Totò cerca casa», il migliore dei suoi film, è riuscito a far ridere sopra un problema dolorosissimo della più scottante attualità. Osserverete: hanno riso quelli alloggiati bene e a buon mercato. Non è vero, i maggiori beneficati di quel film sono precisamente gli sfollati che vivono sotto tetti di fortuna o in coabitazioni odiose. Si sono portati nelle loro malinconiche dimore quel sorriso come un raggio di sole. Né abbiamo dimenticato la bollatura dei documenti al commissariato degli alloggi.

«Fifa e arena», «Totò Imperatore di Capri», la famiglia miope in «Totò cerca moglie». Più deboli le parodie: «Totò le Mokò», o «Figaro qua, figaro là» con le sue inutili trasformazioni, la lezione di canto è la sola cosa buona che c’è. Incalzato dal successo, gli ultimi film risentono della fretta e si mostrano a corto di espedienti come questo «Totò Tarzan» di cui parliamo oggi e nel quale, dopo lo spunto felice, il povero Totò viene abbandonato esclusivamente alle sue risorse. Il motivo che genera il film, non è stato sfruttato che in piccola parte. L’urlo di Tarzan fallisce e invece avrebbe dovuto essere elemento essenziale dal principio alla fine.

Bene la spedizione che va alla ricerca di Tarzan, ma la sua apparizione delude. E bene quando Tarzan, nel grande albergo dove ai piedi del gettò gli sono stati preparati dei tronchi d’albero sui quali dovrebbe piazzarsi per dormire, una volta solo in camera, alla vista del letto soffice, scende e lesto lesto corre a infilarsi sotto le coperte: «Selvaggio si, ma fesso no». Battute di questo genere divengono troppo rare. Una volta visto Totò non doveva essere più possibile di pensare a Tarzan senza ridere. Tale è la missione di equilibrio affidata al comico: portare il sorriso sopra le cose troppo serie. Totò è apparso all’orizzonte del cinema come arcobaleno dopo il temporale.

Aldo Palazzeschi, «Epoca», anno I, n.9, 9 dicembre 1950


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Aldo Palazzeschi, «Epoca», anno I, n.9, 9 dicembre 1950