Ecco la prova che Totò era veramente principe

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Un prete di Napoli ha mostrato a "Oggi" il documento che risolve i dubbi sulla nobiltà del grande attore. «Ho trovato un atto», dice don Domenico Mazza, «dove è scritto che ad Antonio de Curtis spettavano il titolo e il rango di "Altezza imperiale” quale rappresentante della dinastia dei Griffo Focas Gagliardi di Bisanzio» «Dopo la nascita, il padre per molti anni non lo potè riconoscere, essendo il frutto del suo legame con una popolana, che sposò soltanto nel 1922» - E così il futuro re della comicità crebbe nei sobborghi più miseri

Napoli, febbraio

Il sacerdote sottrae per un attimo all’archivio parrocchiale un grosso e polveroso volume, uno dei settantadue libroni che raccolgono l’elenco dei battezzati dal 1598. Lo sfoglia con gesti lentissimi, quasi irritanti, «perché sono carte delicate», sussurra, «e restaurarle ci è costato un patrimonio». Verso la metà del fascicolo, d’improvviso, interrompe il suo ritmato voltapagina e fa un gesto solenne con la mano, dicendo: «Ecco, qui c’è la prova che Totò era davvero un principe».

La pergamena mostra i segni del tempo, ha i contorni smozzicati e a tratti si tinge d’un giallo che rende incomprensibile lo scritto. «No, no, quello è l’atto di battesimo», mi suggerisce, notando lo sguardo appuntato su un documento della fine dell’800. «Totò nacque il 16 febbraio del 1898 in via Santa Maria Antesaecula, nel quartiere Sanità, il groviglio di vicoli che circonda la chièsa. Sua madre, Anna Clemente, lo registrò col suo nome: era una ragazza tutt’altro che nobile, una popolana. Eppure quel bambino l’aveva avuto da un fior di titolato, che dopo molti anni lo ha riconosciuto e gli ha trasmesso la condizione di "Altezza imperiale”».

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"E' SCRITTO TUTTO QUI" Napoli. Padre Domenico Mazza, parroco di Santa Maria dei Vergini, mostra il documento, che vediamo anche in alto, attestante la discendenza di Totò dall’antica dinastia dei Griffo Focas Gagliardi di Bisanzio. «È scritto tutto qui», dice il sacerdote che ha rinvenuto l’atto. 
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Don Domenico Mazza, 54 anni, parroco di Santa Maria dei Vergini, antichissima basilica di origini trecentesche, indica un’altra pergamena, allegata alla prima, emersa dal vortice delle vetuste carte appena qualche settimana fa.

«Abbiamo trovato quest’atto quasi per caso», racconta. «Con il 1988 cadono i novanta anni dalla nascita del grande comico napoletano, e allora da Roma i suoi familiari ci hanno richiesto alcune fotocopie del certificato di nascita. Scartabellando in archivio, la curatrice Laura Curcio ha rintracciato il prezioso documento. Risale al 1946 e porta la firma del parroco di allora e del cardinale Ascalesi. Vi è scritto che ad Antonio Vincenzo Stefano de Curtis di Giuseppe e di Anna Clemente, grazie ad una sentenza del tribunale di Napoli del 10 agosto 1946, competono il titolo di "Principe” e la condizione di "Altezza imperiale’’ eguale rappresentante dell’antichissima dinastia dei Griffo Focas Gagliardi di Bisanzio».

È un inedito, la prova definitiva che le polemiche durante molti anni sulla «metamorfosi anagrafica» del grande Totò non erano che illazioni.

Lui diceva spesso: «I titoli non si comprano, li danno i sovrani. Vi sono due specie di titoli: quelli nativi, i quali vengono da famiglie che hanno regnato, e quelli dativi, i quali vengono dati dal re a qualcuno che ha fatto qualcosa. Il mio è nativo, e ce l’ho dal giorno in cui venni al mondo: come mio padre, mio nonno, il mio bisnonno, il mio trisnonno, su su fino al 362 avanti Cristo».

STORIA INTRICATA

Molti lo sbeffeggiavano per questo vizio dell’araldica, e mettevano in dubbio la sua discendenza, ricordandogli le umilissime origini di scugnizzo del quartiere Sanità, e deridendo il suo doppio modo di essere, «buffone» sulla scena e gentiluomo nella vita privata.

In effetti, la storia della nobiltà del celebre Totò è assai intricata. La racconta Franca Faldini, la sua compagna di sempre, che con Goffredo Fori ha recentemente pubblicato un libro (edito da Tullio Pi-ronti) sulla vita e sulla carriera del principe de Curtis. «La sua infanzia», afferma la Faldini, «era stata solitaria, circoscritta nel sottovuoto in cui il bambino Antonio veniva relegato dalla delucidante postilla: nato il 16 febbraio 1898 da Anna Clemente, "nubile”. In casa, nessuno aveva troppo tempo da dedicargli. Quando se ne presentava la benedetta occasione, la madre accettava qualche lavoro che aiutava a sbarcare il lunario. Il padre, Giuseppe, figlio del marchese de Curtis, vetusto casato e penuria di fondi altrettanto vetusta, si era rifiutato di interessarsi fattivamente a lui.»

«Alla notizia che il rampollo aveva combinato il guaio con una ragazza qualsiasi e squattrinata, il marchese era montato su tutte le furie e aveva decretato il suo veto. Era un nobile di antiche vedute, irascibile, arteriosclerotico, che magari accendeva il fuoco in casa con preziosi documenti di famiglia ma a certe cose ("Come nasce? Cosa porta?”) ci teneva parecchio».

PUGNO IN FACCIA

Antonio era cresciuto per strada, con la nonna materna e zio Federico, «il fratello prediletto di mammà», l’unico che le diede un aiuto quando «combinò il guaio».

E la sua infanzia povera il principe de Curtis non la dimenticò mai. Un giorno, girando una scena in un luogo fetido della Roma dei sobborghi popolari, sbottò: «Altro che neorealismo, è un’atmosfera vecchia almeno quanto me, questa schifezza di odore è stato lo Chanel n. 5 di tutta la mia infanzia. Ci sono giorni che me lo sento ancora addosso...».

Anna Clemente si augurava per il figlio un avvenire da prete o, altrimenti, da ufficiale di marina. Ma c’erano due grossi intoppi a quelle aspirazioni: la scarsa attitudine del ragazzo per lo studio e l'indole curiosa che gli si andava sviluppando. Nel quartiere lo avevano soprannominato «’o spione», conosceva le marachelle di tutti, trascorreva ore in appostamento o pedinando coloro che, vuoi per un atteggiamento particolare vuoi per un andirivieni insolito, gli colpivano l’immaginazione.

Allora, nel tentativo di raddrizzarlo, la madre si era consultata con il padre che sporadicamente si faceva vivo e di comune accordo lo avevano iscritto al collegio Cimino dove si era rimediato una sequela di bocciature e il pugno in faccia che doveva deviargli il setto nasale, atrofizzandogli in parte i muscoli della mandibola e cambiandogli la vita, facendo nascere la «maschera» naturale che avrebbe fatto la fortuna del personaggio Totò. Una volta fuori dal collegio, tentarono di fargli imparare un mestiere che almeno lo inserisse nella vita civile.

Poi Antonio partì per militare, e sotto le armi cominciò a esibirsi per le reclute con un discreto successo: l’idea di seguire la carriera artistica maturò proprio in quegli anni. Gli stessi in cui suo padre, Giuseppe de Curtis, ormai orfano del burbero e testardo genitore, decideva di riavvicinarsi ad Anna Clemente. La sposerà nel 1922 e con lei si trasferirà a Roma. Il riconoscimento ufficiale, dinanzi alla legge, fu questione di qualche anno: Antonio Clemente divenne de Curtis.

Ma ci volle una nuova causa perché il tribunale di Napoli riconoscesse il fatto che la paternità gli attribuiva anche i titoli nobiliari: l’estratto della sentenza, allegato al certificato di battesimo e scoperto negli atti della chiesa dei Vergini, arrivò soltanto nel 1946.

«L’araldica», racconta Franca Faldini, «fu la sua passione. Era cliente di molte librerie antiquarie, collezionava testi ingialliti, li approfondiva con lo stesso interesse di uno sportivo per il linguaggio specialistico di Gianni Brera, inebriandosi all’odore di muffa che sprigionavano.»

«Se è giusto dire che ai suoi titoli egli ci tenne parecchio, è altrettanto falso raccontare, come spesso è stato fatto, che posava a principe, che non ti ricambiava il saluto se non lo chiamavi "altezza”, che manteneva le distanze con chi non "nasceva”, che sbandierava il blasone. Antonio de Curtis non fu né un essere piccino e cafonesco malato di nobiltà, né un individuo facile a dividere con qualcuno la familiarità di un piatto di fagioli.»

«Del resto, principe lo era davvero e non fasullo né smargiasso, dato che sciorinò in piazza questi titoli solo nel '50, quando vi fu costretto dallo scalpore suscitato dalla denuncia sporta nei suoi confronti alla Procura della Repubblica di Roma da un gruppo d’individui che glieli contestavano e dalla conseguente inchiesta giudiziaria a cui lo sottoposero e che si concluse con il suo pieno proscioglimento e un processo per calunnia nei confronti dei suoi avversari.»

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UNA STATUA DIMENTICATA Napoli. La statua a Totò che avrebbe dovuto essere collocata in una piazza del capoluogo campano e che invece si trova, dimenticata, in un deposito del Comune. Totò morì nel 1967. (Foto Massimo Jovane/AIfa Press).

CI SCHERZAVA

«La sua discendenza dalla famiglia Griffo Focas Gagliardi Bisanzio e il diritto a fregiarsi di quei cognomi già gli erano stati riconosciuti con una procedura giudiziaria di fronte alla magistratura napoletana, tanto che questi vennero subito annotati nel Libro d’oro della nobiltà italiana».

Lui, comunque, ci scherzava su. Diceva: «Il mio più bel titolo resta Totò. Con l'Altezza imperiale io non ci ho fatto nemmeno un uovo al tegamino. Con Totò ci mangio dall’età di vent’anni. Mi spiego?». Oppure, come nel giorno in cui fece da padrino al battesimo di Daniela Laurenti, la bimba del suo truccatore. Quando il parroco, dopo essersi fatto declinare le sue generalità e avere appreso che si trovava al cospetto di Antonio de Curtis di Bisanzio, gli domandò: «Bisanzio chi? Suo padre?», lui rispose: «No», sbottando a ridere, «mio nonno sulla biga».

A Napoli, comunque, il titolo non gliel’hanno mai negato. Sul portone della casa in cui nacque, in via Santa Maria Antesaecula, nel quartiere popolare della Sanità, una lapide lo ricorda come «il principe Antonio de Curtis, il nostro Totò».

Sergio De Gregorio, «Oggi», Anno XLIV, n.8, 24 febbraio 1988


La Settimana Incom Illustrata
Sergio De Gregorio, «Oggi», Anno XLIV, n.8, 24 febbraio 1988