Articoli & Ritagli di stampa - Rassegna 1973



Indice degli avvenimenti importanti nel 1973

28 marzo 1973 Continua la riscoperta del fenomeno Totò. Dopo il primo ciclo di film che la TV gli dedica nell'aprile del 1968, e i primi cicli di film che gli dedica la televisione nel 1972, va in onda una serie con 8 film di Totò.

25-29 dicembre 1973 - Va in onda la rubrica televisiva «SAPERE» - Un ciclo televisivo dedicato a Totò, con la rievocazione d vari artisti

In molte sale cinematografiche d'Italia vengono proiettati i film che hanno reso famoso Totò. I distributori si accorgono che è un successo, si moltiplicano le iniziative.


Altri artisti ed altri temi


Totò

Articoli d'epoca, anno 1973

Prima di tutto il pubblico

Prima di tutto il pubblico I ricordi inediti del suo impresario Elio Gigante. «Era un uomo inguaribilmente buono e generoso». Gli anni dell'avanspettacolo e dei debiti: geniale ma «distratto», si accorse tardi della sua statura di interprete. Prima…
Giuseppe Tabasso, «L'Europeo», 1973
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In TV la rivincita di Totò

In TV la rivincita di Totò Otto film del grande comico napoletano che ora riempie i cinema - «Vorrei almeno essere rispettato» si lamentava l'attore dilaniato in vita dai critici. Oggi tutti gli riconoscono doti artistiche eccezionali e inimitabili.…
Gianni Villa, «Sorrisi e Canzoni TV», anno XXII, n.12, 25 marzo 1973
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Totò: la sua comicità e i comici dopo di lui

Totò: la sua comicità e i comici dopo di lui Da «I due orfanelli» a «Uccellacci e uccellini»: alla televisione una selezione di film interpretati dal popolare attore Roma, marzo Disse una volta Totò: «I film brutti mi sono cari come gli altri. Ogni…
Giuseppe Sibilla e Salvatore Piscicelli, «Radiocorriere TV», anno 50, n.13, 25-31 marzo 1973
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A sei anni dalla morte esplode il «fenomeno Totò»

A sei anni dalla morte esplode il «fenomeno Totò» Forse mai prima d’ora si era assistito, nel mondo dello spettacolo, a un «revival» di proporzioni così vaste: l’attore napoletano viene paragonato a Buster Keaton e a Charlie Chaplin. Dichiarazioni…
Ruggero Marino, «Il Tempo», 28 marzo 1973
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Totò ritorna. Sul video ci farà divertire per otto settimane di seguito con i suoi lazzi, le sue macchiette, le sue battute, con le belle donne delle quali amava circondarsi nei film e nelle riviste, con le sue ultime interpretazioni, le migliori di tutta la sua carriera. E nessuno penserà, rivedendolo, che Totò ci ha improvvisamente lasciati in un mattino di primavera colpito da infarto, il 15 aprile 1967. Lo rivedremo anche con commozione e sorpresa: commozione per chi ha una certa età, per coloro ai quali Totò ha regalato un’ora di spensieratezza dal palcoscenico e dallo schermo, per coloro ai quali le battute «Siamo uomini o caporali?» e «A prescindere» evocano gaie risate; per i giovani che grazie al cinema, ed ora anche alla televisione, stanno riscoprendo Totò. Ossia un grande attore.

Ma forse l’unica persona alla quale Totò piaceva proprio poco era sua altezza imperiale Antonio Focas Flavio Griffo Angelo Ducas Commeno de Curtis di Bisanzio, Gagliardi, principe, conte palatino, diretto discendente degli imperatori di Costantinopoli: cioè Totò stesso. Il principe de Curtis soleva dire di non avere nulla da spartire con Totò: questi era un villano, aveva un modo di gestire volgare, gli piacevano le donne coperte di lustrini, le subrettine del varietà, vestiva in una maniera ignobile. Il principe de Curtis era un uomo raffinato, riservato, non molto loquace, amava una sola donna, Franca Faldini, viveva nel magnifico appartamento dei Parioli. lontano dal chiasso e dalla gente. Il principe de Curtis era un poeta: nei momenti lasciatigli liberi da Totò, scriveva poesie: negli ultimi anni, a causa della sua malattia agli occhi, le dettava a Franca Faldini. Due dei suoi pezzi, i più famosi, sono anche stati incisi in microsolco: «A livella» e «Pasquale»; il primo è una poesia che prende punto dal seppellimento in tombe contigue di un povero spazzino e di un nobile squattrinato; il secondo più largamente noto, è una spassosa scenetta che faceva parte del suo repertorio e che lui ripropose a «Studio Uno».

Il principe de Curtis, poeta e autore di canzoni: la sua «Malafemmena» divenne un successo internazionale. Ma la fama di Totò superava quella del principe de Curtis, comunque amato da tutti, indistintamente: a tal punto che al suo funerale, fra le massime personalità del mondo dello spettacolo e della politica erano otto facchini con le tute da fatica, in rappresentanza di tutti i colleghi della stazione Termini.

Totò era nato a Napoli il 7 novembre 1897 (15 febbraio 1898, n.d.r.) da una bellissima ragazza di 17 anni, Anna Capitani (Anna Clemente, n.d.r.), di modeste condizioni e dal marchese de Curtis. Era nato con la vocazione dell’attore e cominciò la carriera artistica mentre prestava servizio militare ad Alessandria nel 1919: per vantarsi con i suoi commilitoni aveva detto di essere un attore napoletano. Fu messo alla prova, e fu così che per la prima volta Totò calcò un vero palcoscenico: nacquero, spontaneamente, alcune macchiette che in seguito avrebbero fatto ridere tutta l’Italia. Congedato, tornò a Napoli e cominciò la «gavetta» di una carriera che dai primi umili inizi dell’avanspettacolo lo portò a primo attore e capocomico delle grandi riviste del dopoguerra, a grande attore cinematografico. Una carriera culminata, un anno appena prima di morire con riconoscimenti e premi internazionali grazie alla sua interpretazione nel film «Uceellacci e uccellini» di Pier Paolo Pasolini: menzione speciale al Festival di Cannes «Al grande attore italiano», «Globo d’oro» dell’Associazione della stampa estera in Italia quale migliore attore protagonista, «Nastro d’argento» per il migliore attore protagonista e sempre per lo stesso film la «Conchiglia d’oro» del mondo dello spettacolo. Inoltre alcuni anni prima il consorzio della stampa cinematografica gli aveva assegnato una targa d’oro «per avere interpretato più di cento film», ed un «Nastro d’argento» Tote lo aveva già vinto nel 1951 per «Guardie e ladri» diretto da Mario Monicelli. 

La carriera artistica di Totò è stata talmente lunga e densa di avvenimenti, che lo stesso attore ebbe a confessare di non ricordarne neppure gli inizi avvenuti nel teatro dell’arte con piccole compagnie napoletane nelle quali recitava su un canovaccio inventato da Pulcinella prima di entrare in scena. Di queste commedie Totò ricordava, fra le moltissime «Camera fitta per tre» e «La cam-pagnata dei disperati». Poi passò al varietà con le sue macchiette; era il 1921; nel 1925, era già una vedette, ottenne i suoi primi clamorosi successi alla «Sala Umberto» di Roma e di Torino. Dopo essere tornato al teatro dialettale recitando al «Nuovo» di Napoli, passò alla compagnia di Marisa Maresca. Infine la prima compagnia a suo nome e della quale era anche l'impresario : erano gli anni 1934-35. Poi i grandi spettacoli di Michele Galdieri; bastano pochi titoli: «Bada che ti mangio», «Che ti sei messo in testa», «Quando meno te lo aspetti», «Orlando curioso», «Disse una volta il mondo», ma già dal 1937 alternava la rivista con il cinema: il suo primo film fu «Fermo con le mani». Con «San Giovanni Decollato» il pubblico, conobbe ed imparò ad amare Totò che divenne il comico più richiesto dai registi e dai produttori cinematografici. Il cinema italiano lo volle festeggiare ufficialmente quando interpretò il suo centesimo film, «Il comandante», efficace contributo in tanti anni all’affermazione del cinema italiano, un omaggio in segno di «stima e di affetto». Totò intervenne alla cerimonia, pallido, commosso, gli occhiali scuri, al braccio della sua fedele compagna. 

Soltanto un anno prima di morire, si era arreso alla televisione: era convinto che lo spettacolo televisivo, soprattutto gli spettacoli a puntate, bruciasse gli attori. Si decise a dire «sì» dopo essere apparso a «Studio Uno», quale ospite di onore. La trasmissione «Tutto Totò», diretta da Daniele D’Anza. si articolava in dieci puntate indipendenti l’una dall’altra: le prime erano una rievocazione di alcune fra le più gustose scene create dall’attore per il teatro. 

Come è noto, il ciclo dedicato a Totò avrà inizio nella seconda metà di marzo con scadenza settimanale (il mercoledì). (Ansa) 

«Il Piccolo», 22 febbraio 1973


Napoli, 27 febbraio.

Nell'intento di onorare il nomo e la memoria di un illustre figlio di Napoli, il consiglio di presidenza del Cineclub Napoli ha proposto al comune di Napoli di dedicare una strada a De Curtis, il popolare Totò. unitamente alla collocazione di un busto.

L'iniziativa sarà realizzata durante la IX rassegna cinematografica internazionale che si svolgerà a Napoli dal 28 aprile al 5 maggio prossimi e sarà dedicata alla cinematografia polacca. Totò nacque il 7 novembre 1897 in una modesta casa della vecchia Napoli e mori a Roma il 15 aprile 1967. Cominciò la carriera artistica mentre prestava servizio militare ad Alessandria nel 1919 sino a divenire il più grande attore comico di origine napoletana la cui bravura venne riconosciuta con gli innumerevoli premi assegnatigli: dal festival di Cannes al Nastro d'argento.

«Corriere d'Informazione», 28 febbraio 1973


Roma, 12

Otto film di Totò saranno trasmessi in televisione a partire dalla seconda metà di marzo, ogni mercoledì. Tra questi film fanno spicco per diversi motivi, «Yvonne la nuit» con un Totò umanissimo ed una bravissima Olga Villi, «Il comandante», centesimo film del grande attore scomparso e «Uccellacci e uccellini», senz’altro da più grande interpretazione di Totò, diretto in questo che doveva essere il suo ultimo film, da Pier Paolo Pasolini. (Ansa)

«Il Piccolo di Trieste», 13 marzo 1973


Parlare di Totò mi è molto caro, perché purtroppo non ho avuto il tempo e la possibilità materiale di dirgli tutto quello che pensavo di lui e quanto io l’ammirassi. Totò era un grande, grandissimo artista, servito male, a volte, perché certi film avrebbero dovuto farglieli fare, anche se lui con la sua grande arte nobilitava persino le cose più brutte. Bastano però i pochi film buoni che ha fatto, tra i quali per esempio « Guardie e ladri » e il piccolo episodio ne « L’oro di Napoli », a metterne in risalto tutta la straordinaria bravura.

Ma a parte l’artista ricordare l’uomo che era Totò mi riempie di commozione: era veramente un gran signore, generoso, anzi, generosissimo. Arrivava al punto di uscire di casa con un bel po’ di soldi in tasca per darli a chi ne aveva bisogno e comunque, a chi glieli chiedeva. Aveva la mania della nobiltà: il primo giorno che lavorai con lui gli domandai: « Devo chiamarla principe o Totò? ». Ci pensò un attimo, poi mi rispose: « Mi chiami Totò ». Ma tutti gli altri dovevano chiamarlo principe, e lui da principe, quei principi di cui leggiamo nelle favole, si comportava con tutti e in ogni suo pur minimo gesto, pensiero, atteggiamento.

Totò è senz’altro una delle figure italiane più importanti che abbia conosciuto nella mia carriera e nella mia vita. Parlare della sua arte? Basta vedere il successo che ha avuto con i giovani di oggi, i ragazzi di quindici, diciotto anni che non lo conoscevano. Lui era veramente un clown, un grande clown, nel senso più nobile della parola, come oggi non ne esistono più: certe sue folli improvvisazioni durante la recitazione erano geniali e insostituibili. Clown come lui ne nasce uno ogni cento anni.

Io avrei voluto Totò con me anche in un altro mio film dopo « L’oro di Napoli »: avrei voluto affidargli la parte che poi fece Fernandel nel « Giudizio universale ». Questo anche per un senso di giustizia nei suoi confronti, perché ho sempre pensato che avrebbe avuto bisogno di uno sfogo internazionale che non aveva mai avuto. Quando « L’oro di Napoli » uscì in America il critico del « New York Times » intitolò il suo articolo sul film « Perle di recitazione d’Italia » e il « pazzariello » Totò fu per tutti una rivelazione. Proprio ne « L’oro di Napoli » il personaggio di Totò aveva un risvolto drammatico che lui rese benissimo, perché era un attore completo, il più grande a mio parere, che il teatro musicale e il cinema italiano abbiano mai avuto.

E poi, ripeto, era un uomo straordinario, con una sua umanità tutta particolare. Una volta ero a Napoli per fare dei sopralluoghi per un film e dovevo anche trovare un cimitero per alcune scene. Mi andai a documentare nel cimitero dove oggi è sepolto Totò, che allora non era ancora morto. A un certo punto mi dissero: « Guardi, quella è la cappella del principe De Curtis ». Mi voltai e vidi una cappella dove c’era già la sua lapide con tutti i suoi titoli nobiliari, e in alto due piccole lapidi: quella della mamma e quella di Zara Prima, la famosa cantante che lui aveva amato per un lungo periodo della sua vita.

Vittorio De Sica, «Paese Sera», 18 marzo 1973


Testimonianze sul grande comico alla vigilia del suo ciclo di film in TV.

A Totò riscoperto un anno fa dal pubblico giovane del cinema d’essai e in questa inaspettata stagione di celebrità dopo i sei anni di assoluto silenzio seguiti alla sua morte rivisitato da critici, scrittori, linguisti, sociologi, la televisione dedicherà da mercoledì 28 un ciclo di otto film. La serie termina con l'impegnativo e complesso «Uccellacci e uccellini» di Pasolini, ma per il resto presenta quei filmetti di poche pretese e di rapida impalcatura che il grande comico napoletano interpretava a getto continuo, specie negli ultimi anni, facendo il verso e la caricatura, senza particolari trucchi di scena, ai miti del momento: Totò sceicco, Totò le Moko. La riscoperta di Totò fa perno proprio su questo tipo di film, e non su quelle poche opere d'autore che si trovò quasi occasionalmente a interpretare: in questi film dozzinali, con trame improvvisate e vistosi scenari di cartapesta, sfuggendo alle insidie della elaborata e borghese commedia all'italiana che l'industria cinematografica andava perfezionando, Totò ritrovava un suo spazio naturale fatto di poche cose essenziali, riusciva a reinventare le situazioni soverchiandone la banalità, riconquistando la spontaneità a suo modo dotta del popolare teatro dell'arte napoletano.

In che modo avveniva il miracolo dietro la macchina da presa? Parlando con Steno e Monicelli che lo diressero in uno dei suoi più bei film «Guardie e ladri», ma anche in tante altre pellicole alla buona e di vasto consumo abbiamo cercato di ricostruire la forse involontaria strategia di sopravvivenza della sua comicità.

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«Quando si dice "Totó non ha mai trovato il grandi regista che gli ha fatto fare il grandi film" è vero in parte, ma in parte è anche un luogo comune: quando si lavorava con Totó il problema era trovare un tipo di regia adatto alla sua personalità». Così dice oggi Steno, che insieme a Mario Monicelli ha diretto un gran numero di quelle pellicole artigianali, di poco costo e di largo consumo che il comico napoletano, un'occhiata al copione e basta, interpretava una dietro l'altra ma anche uno dei suoi più bei film, «Guardie e ladri». Totó diventato commediante per caso («perché mi ero innamorato, a diciannove anni, di una macchiettista») approdato nel '17 a Roma, dal teatro dell'arte napoletano, sulle tavole sconnesse del palcoscenico di un teatrino da quattro soldi, il Salone Elena, il frac del nonno, i calzoni a mezz'asta del padre, come raccontava lui anni più tardi, una bombetta pescata chissà dove, cominciò a far cinema esattamente, vent'anni dopo nel '37 in «Fermo con le mani». Rimase però per tutti gli anni a venire un attore di teatro (e di un teatro d’estro e di fantasia personale come quello di certo improvvisato quanto a modo suo coltivato teatro di avanspettacolo), capitato per caso, per pigrizia — perché tirare in tournée, spiegava, è «comodo, faticoso cambiare palcoscenico e alloggio — e sempre con un pizzico d'insofferenza davanti alla macchina da presa.

Tuttavia davanti alla macchina da presa, insofferente o meno, riusciva a creare lo spazio magico della scena e a non rinnegare, malgrado la lunga sfilza di titoli nobiliari nel cassetto, gli umori e la viscerale problematica del sottoproletariato napoletano di cui si faceva portavoce, ultimo esempio di comicità realmente popolare in mezzo al trionfo dell'umorismo piccolo della nascente commedia all'italiana di produzione industriale.

«Totó — dice Steno — aveva una personalità talmente strana e talmente personale che qualsiasi regista doveva per forza subirne i limiti. Limiti nel senso che era un grande attore: allora se tu avevi in mente un’inquadratura particolare e se lui non capiva quel movimento, non se lo sentiva, quella inquadratura non la potevi fare... Bisognava lasciarlo fare, insomma: una volta mentre stavamo girando Letto a tre piazze (dove Totó era un disperso in Russia che a un certo punto torna e trova la moglie sposata con un altro, che era poi Peppino De Filippo) si mise più o meno, con Peppino che gli faceva da spalla e lo seguiva perfettamente, a recitare a soggetto ignorando le battute che erano nel copione. Cominciò a muoversi, scendere dal letto dove si trovava, tornare su, calpestare De Filippo, inventando tutto o quasi: la scena riuscì perfetta e fu proprio un esempio di teatro dell'arte napoletano trasportato nel cinema». Cosi in Totò a colori una specie di festival di Totò con tutti gli sketch che aveva recitato per anni allo Jovinelli di Roma, al Trianon di Milano, ecc.: fu l'attore napoletano e non il regista a stare i tempi, le pause, a decidere le inquadrature. «Non ero il caso di stare a fare della regia — spiega Steno — fu come se avessi dato la macchina da presa in mano a Totò. I tempi di Totò erano perfetti, perché lui li aveva sperimentati anni e anni con il pubblico». Era impossibile, insomma, secondo Steno, imporgli un ritmo che non sentiva, una comicità che non era la sua, o anche, solo, un metodo di lavoro che non gli andava a genio. Per esempio metteva per contralto che lui sarebbe arrivato sul set del film alle due del pomeriggio: «La mattina non si può far ridere» diceva. Per gli esterni spesso era un problema: la scena dell'inseguimento con Aldo Fabrizi in Guardie e ladri andò avanti quindici giorni perché Totò non riusciva mai ad arrivare alle otto della mattina.

I copioni del film che faceva tutto sommalo non lo interessavano molto («leggeva più l'almanacco della nobiltà che il copione dei film che interpretava» ricorda Steno a proposito della sua mania nobiliare e del personaggio del principe, in cui, con caparbio anacronismo si era profondamente immedesimato); poco gli importava, insomma, dei fondali di cartapesta, delle storie, specie le ultime, scontate e volgari, dei cast abbastanza rabberciati di cui si trovava a far parte. A parte una sua personale filosofia sul mestiere dell’attore («Il produttore deve guadagnare, se non guadagna fallisce; se fallisce io non lavoro più») proprio perché era un istintivo non si rendeva mai pienamente conto di che film sarebbe venuto fuori da una sceneggiatura.

«Quando gli portammo a leggere il copione di Guardie e ladri — dice Steno — se ne usci: E’ bellissimo, però è un film per Fabrizi, io che c‘entro? E invece poi è stato uno dei suoi più bei fillm...». Non aveva ambizioni di regia, un po' per la solita pigrizia («Il regista si deve alzare prima degli altri la mattina, quando gli altri hanno finito deve ancora lavorare...»), un po' per ché i film, anche quelli che partivano dagli spunti iniziali più deteriori, glieli costruivano addosso. Sulle storie che gli venivano proposte (storie da «cinema comico povero» come lui definiva quello italiano, con sereno rimpianto, per esempio, per le gags di Stanilo e Olito che finivano «con i piedi nella pece», mentre «l'aeroplano cadeva quando uno era sopra e l’altro sotto» e mentre «il somaro suonava il pianoforte») non aveva quasi mai niente da obiettare «anche perchè — aggiunge ancora Steno — lui aveva la possibilità di interpretare storie metafisiche, surreali e nello stesso tempo anche storie veristiche».

Il primo film che fece con Steno e Monicelli fu Totò cerca casa: i due registi lo andarono a cercare sul set di Comencini con cui allora (nel '49) stava interpretando L’imperatore di Capri. «Per dargli la carica — ricorda Steno — dopo ogni scena, appena Comencini dava lo stop, la troupe applaudiva, e Totò appena sentiva quest'applauso era tutto contento per cui continuava a recitare per la troupe, e ne veniva fuori un suo show continuo».

Addirittura, mi spiega Monicelli, con Totò bisognava girare il film come se si trattasse di un documentario, rinunciando a ripetere la scena perché lui ogni volta la faceva diversa, e poi a ripetere una scena si stancava, non trovava più gusto. «Del resto— aggiunge il regista — lui personalmente non aveva mai bisogno di ripetere una scena perché era prontissimo, essendo abituato dal Teatro: se la sua spalla o comunque l'attore con cui lavorava dimenticava la battuta, era Totò a dargliela, risolvendo la situazione».

Anche Monicelli ricorda che dei copioni che gli venivano sottoposti — quei copioni su cui si sprecano oggi i vari «che peccato che abbia lavorato a roba di questo genere» mentre ieri il rammarico era in fondo minore, perché anche Totò finiva con l'essere coinvolto dal rifiuto per quei film non gliene importava granché: non studiava la parte se ne serviva più o meno come di un canovaccio. I suggerimenti che dava riguardavano soprattutto il trucco e i costumi, per esempio il ladruncolo di Guardie e ladri se l'era pensato lui, combinato in quel modo.

Avrebbe voluto fare qualcosa di diverso? «Si, forse, aveva sempre in mente un tipo di comicità surreale molto difficile da realizzare in cinema e, comunque, la sua gran passione rimase sempre il teatro. Io gli proposi di fare qualcosa insieme, a teatro: non teatro di varietà, ma Moliére, L'avaro. "Si, si, certo, come no", mi disse, ma poi, alla fine, non se ne fece niente». Totò oltre ad avere un modo tutto suo particolare di lavorare, aveva anche un modo tutto suo di vivere. Ci teneva moltissimo alla sua vita privata, non frequentava la gente del cinema (tra i pochissimi erano proprio Monicelli e Steno) ma solo qualche amico del teatro.

Era riservato, educato, e a differenza di tanti altri comici non raccontava mai barzellette, che ha dichiarato più volte di detestare. La sera se ne stava a casa sua a ricevere, e quando gli ospiti se ne erano andati si metteva a scrivere canzoni oppure a vedere del film. «Aveva una saletta da proiezione - ricorda Monicelli - e ci passava ore e ore: la maggior parte delle volte vedeva vecchi film suoi e si divertiva moltissimo, rideva come uno spettatore qualunque».

Cosa diceva del cinema Totò? «Mah, a parte questi film che si proiettava a casa vedeva pochissimo cinema. Dei comici amava motto Buster Keaton...» Più di Charlot? «Mi pare di si, o almeno lo citava più spesso. Keaton era un personaggio che aveva senz'altro presente e che gli aveva fatto una grande impressione». E dei giovani comici che cosa diceva? «Chi c’era allora di giovane comico? Praticamente solo Sordi. Lo trattava come un simpatico ragazzotto, con molta simpatia, con affetto, ma cosi, come se non fosse un attore, ma un giovane volenteroso e simpatico, e, perché no; anche divertente, Del resto lui era molto gentile con tutti i componenti della troupe, non ha mai avuto nessuna gelosia per nessuno, nessun egoismo».

Parlava molto del teatro napoletano. Scarpetta, il San Carlino; gli interessava più quello che si era lasciato alle spalle che il presente in cui viveva; siccome era un uomo discreto e sottile non s’era fatto una bandiera di questa sua gavetta abbastanza gloriosa ed eroica sui palcoscenici malmessi e miserabili; eppure diceva: «non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita».

Elisabetta Rasy, «Paese Sera», 18 marzo 1973


Da «I due orfanelli» di Mattoli a «Uccellacci e uccellini» di Pasolini sfileranno otto film del grande comico - Una vittoria straordinaria

Roma, 19

Da mercoledì 28 marzo inizierà in TV sul secondo programma il ciclo di otto film dedicato a Totò. Il ciclo si intitola «Totò principe clown» e si propone di presentare alcuni tra i più significativi film interpretati tra il 1947 e il 1966 dal grande attore comico scomparso. Le presentazioni dei film saranno curate dal critico cinematografico Domenico Meccoli. «Totò è stato definito — dice Meccoli — l’occasione mancata del cinema italiano. Io non sono d'accordo. Anzitutto, la definizione mi pare piuttosto generica. Di quale Totò si intende parlare? Di quello d’impronta surrealistica dei primissimi film? Di quello grottesco drammatico di altri suoi film?

Oppure di quello farsesco della maggior parte delle sue interpretazioni? Nei suoi 114 film registrati nella filmografia dell'attore, a me pare che il cinema italiano non abbia mancato nessuna di queste occasioni. Si può preferire l’uno o l’altro aspetto di Totò, si può deprecare la sciatteria di molti suoi film; ma proprio questi sono paradossalmente i più significativi perché interamente suoi, sostenuti esclusivamente dal suo personaggio, dalle sue trovate, dai suoi sberleffi, dal suo dinamismo. I film in cui non contano né la vicenda né il modo come è stata realizzata, ma conta soltanto la presenza dell’attore. Un mito - direbbe Malraux - allo stato puro».

«Il ciclo — aggiunge Domenico Meccoli — non pretende di presentare ai telespettatori un programma esauriente della personalità di Totò. Esso è, più che altro, indicativo per un pùbblico che oggi, con iniziative sparse e disordinate, sta riscoprendo questo nostro grandissimo attore nei normali cinematografi.

«Tuttavia, il ciclo non è casuale, anzi ha una sua organicità. Si è tralasciato il primo Totò cinematografico: quello, surreale e metafisico, che aveva ispirato, con scarso successo, il cinema d’anteguerra. E, prima o poi, converrà fare su di esso un discorso a parte». «Il ciclo — dice Meccoli presentando brevemente il primo film — ha inizio perciò dai film dopoguerra, con ”I due orfanelli", che fu il primo di Totò diretto da Mario Mattioli, il quale ha realizzato complessivamente 16 film di Totò. "I due orfanelli”, che risale al 1947, è significativo perché apri la strada a quella folta serie di film che lasciavano l’attore libero di esprimersi come meglio credeva, seguendo la traccia di soggetti che erano un po’ come i canovacci della commedia dell’arte».

«Totò le Moko», del 1949, è un altro esempio del medesimo indirizzo ma dovuto a un altro regista, Carlo Bragaglia,

Sempre nel 1949 eccoci con «Yvonne la nuit», di Giuseppe Amato, al primo tentativo di proporre Totò in chiave drammatica, un tentativo accettato dall’attore con molte titubanze, ma che poi doveva portarlo ai personaggi umani e grotteschi di «Napoli milionaria», «Guardie e ladri», «L’oro di Napoli», e via dicendo.

Il quinto film del ciclo è «Totò e Carolina», diretto da Mario Monicelli su soggetto di Ennio Flajano. Fu realizzato nel 1953 ma arrivò sugli schermì soltanto nel 1955 con qualche taglio imposto dalla censura non ancora svincolata dalle remore ideologiche.

«A un certo momento l’industria cinematografica sentì il bisogno di affiancare a Totò altri attori comici brillanti di prestigio: Taranto, Fabrizi, Peppino De Filippo, De Sica. Il sesto film del ciclo, "I due marescialli”, realizzato da Sergio Corbucci nel 1961, è un esempio di questo tipo di film in coppia, dove Totò, stimolato dalla preferenza di una "spalla” illustre, rimane però il dominatore della scena. Veramente singolare è il Totò proposto dal "Comandante” diretto da Paolo Heusch nel 1963,

Il ciclo si conclude con «Uccellacci e uccellini» di Pier Paolo Pasolini. Il mattatore di un tempo si affida ad un autore per coronare, nella favola e nella poesia, la propria vita di attore. «Uccellacci e uccellini», è, per Totò, — conclude il critico — un atto di umiltà e la più straordinaria delle vittorie.

Domenico Meccoli, «Il Piccolo di Trieste», 20 marzo 1973


Da «I due orfanelli» a «Uccellacci e uccellini» - Un attore che ha cercato sempre la realtà riproponendola nelle mille deformazioni della sua comicità semplice, geniale e generosa - Trent'anni di attività cinematografica che si possono dividere in quattro fasi.

Anni fa Cesare Zavattini stava facendo dei provini in una scuola elementare e la maestra aveva Invitato gli alunni a porgli qualche domanda sul cinema. «Un bambino», ricorda Zavattini nel suo diario, «si avvicinò e mi chiese a voce bassissima se Totò era vero».

E perché no? A volte il dubbio che non fosse vero si affaccia ancora, anche al critico che lo ha seguito attraverso un centinaio di film e moire riviste. Totò era maschera a tal punto che si sospettava non avesse un volto. Il suo primo segreto consisteva in una scomponibilità fisica assoluta, che minacciava di romperlo ad ogni spettacolo e lo restituiva ricucito e imbullettato la sera dopo, malconcio ma immortale come un pupazzo, una marionetta, un burattino, pronto alla riverenza ironica e alla bastonata traditrice. Il secondo segreto era la voce, che andava dal cavernoso al cantante su una gamma tutta squisitamente napoletana, flautata d’astuzia, aggressiva nella sincerità del dolore, una voce avvezza ad apostrofare San Giovanni Decollato in cornice o i tabernacoli del «vico», come Filumena Maturano; ma che all'occorrenza si spezzava, si nascondeva in surreale autodifesa dietro le filastrocche impossibili, i nonsensi Imperturbabili, i balbettìi chiocci e interminabili.

Usciva questa voce da un volto lungo e ossuto, tenuto insieme da un ghigno di suprema dignità e di scetticismo gentile: l'espressione di chi si è pazientemente conquistato la saggezza ma ha impazientemente rinunciato all'esperienza. La faccia di Totò era capace di tutti gli stupori del mondo, e l’attore lo sapeva. Altrimenti non sarebbe mai uscito, lui così ritroso e modesto, nella frase «io con la faccia posso esprimere tutto», che ricorda un'analoga dichiarazione del Calvero chapliniano.

Totò è morto nel 1967 a sessantanove anni. Ma gli innumerevoli film da lui interpretati, anche quelli di serie, raffazzonati e volgari, stanno conoscendo di nuovo un successo Imprevisto, mentre sull’attore si scrivono saggi e volumi. In questo processo rievocativo e in certo modo riabilitatorio s’inserisce ora la RAI-TV con un ciclo di otto film, che passeranno in video dalla metà di marzo in poi, presentati da Domenico Meccoli e raccolti sotto la testata di Totò, principe clown. Dopo tutto, proprio la televisione italiana ha qualcosa da farsi perdonare nei confronti di Totò: quei grossolano spettacolo a puntate intitolato Tutto Totò che nell’ultimissimo periodo della sua vita lo trascinò, riluttante e malato, davanti alle tele camere per un ricupero quanto mai caotico e penoso dei suoi lazzi più tradizionali.

Principe e clown. Probabilmente entrambe le accentuazioni sono improprie, perché fuorviano dalla genuina natura artistica e dalla formazione scenica dell’attore. Del clown Totò possedeva caratteristiche di comunicativa, di mimetismo acrobatico e addirittura di rudimentale pateticità: ma — senza voler nulla togliere all’arte circense — egli apparteneva certo ad una meno errabonda, meno improvvisata civiltà teatrale, assorbita dai canovacci 'della commedia dell’arte recitati in gioventù e poi riespressa per fino nel periodo dell'avanspettacolo e della rivista. Principe? Sì, lo era e pare anche ci tenesse. Fuori scena si chiama va Antonio Griffo Focas Flavio An gelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, Altezza Imperiale, conte Palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e d’Illiria, principe di Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, del Porto, di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Cipro e d'Epiro, conte e duca di Drivasto e Durazzo: e potremmo continuare. Ma era forse questo il «vero» Totò? Tanta aria fritta non vi sembra piuttosto una di quelle tiritere assurde e paradossali che sapeva snocciolare cosi bene, scandite e sonanti, incrollabile ne] suo paltoncino striminzito, per ribattere alla prosopopea di un portiere, all’albagia di un padrone, al disprezzo di un creditore?

Evidentemente è quest'ultimo il Totò che conta, quello dei teatrini e del pubblico popolare, che ha cercato sempre la realtà là dove la si può trovare e l'ha restituita nelle mille deformazioni della sua comicità semplice, geniale e generosa. Perché con Totò non si ride soltanto per la sua sagoma dirompente e per la sua mimica sovrumana. La sua fortuna presso gli spettatori (e quella d’oggi, diremmo, più che in passato) nasce anche dall'atteggiamento del suo personaggio dentro e di fronte ad una società contraddittoria, che lo incorpora, lo umilia, se ne serve e nello stesso tempo lo teme per una componente anarcoide e miracolistica che sfugge alla sua comprensione. Perenne «uccelluccio» e «uccellino», per dirlo con i termini del suo film più bello, che Pasolini gli ha donato quasi alla fine della vita.

Net trent’anni di attività cinematografica di Totò si possono distinguere quattro fasi. La prima è quella prebellica, quantitativamente esigua ma non priva d’interesse, che si rifà al dadaismo di Achille Campanile e all’angelismo dello Zavattini di allora. La seconda risale al tempo di guerra, al napoletanismo marcato e forse polemico (in quanto sgradito ai fascisti) di San Giovanni Decollato; la fronda di Totò, anche sulle scene» irritò nel 1943 i nazisti occupanti che sembra avessero deciso la sua deportazione in Germania, poi sventata grazie ad una telefonata anonima. Nel dopoguerra si giunge alla produzione intensiva delle farse che avrebbero consacrato la sua popolarità dovunque: si trattava per lo più di parodie o di comiche «di costume», che prendevano In giro i problemi del momento con più o meno buon gusto. A quell'epoca Totò fu spesso bersagliato dalla censura sotto il noto pretesto che «i panni sporchi» (leggi neorealismo) si lavano in casa. Ricordiamo una brillante sequenza di Guardie e ladri in cui il poliziotto Fabrizi inseguendo il borsaiolo Totò gli grida sbuffando: «Fermati! Non pensi che figura mi fai fare all’estero?»,

L'ultima fase è quella che corre — troppo tardi, ma non vanamente — alla valorizzazione del grande comico: Il comandante di Paolo Heusch, La mandragola di Bolognini, il citato Uccellacci e uccellini pasoliniano. Nel '63, per Il comandante, che è il suo centesimo film, Totò riceve un premio nel corso d'una cerimonia ufficiale alquanto apocalittica, che Fellini ricostruisce poi con anche maggiore crudeltà nel suo episodio di Tre passi nel delirio.

Del vasto arco di lavoro la TV a propone quanto basta per una celebrazione, non per una approfondita analisi critica. Ci sono saggi del Totò parodistico (I due orfanelli, Totò le Mokò, Totò sceicco, I due marescialli), una commediola comico-sentimentale, Yvonne la nuit, e solo tre tappe significative: Totò e Carolina di Steno e Monacelli (dove Totò è «celerino»: aspettatevi dei tagli), Il comandante e Uccellacci e uccellini. Mancano del tutto i momenti in cui l’attore ha sfiorato l’orbita d'un Pirandello (L’uomo, la bestia e la virtù, ecc.), d’un Cecov (Totò e i re di Roma), d'un Machiavelli (La mandragola). I maestri, si sa, vanno mangiati in salsa piccante, com'è detto in Uccellacci e uccellini. Ma la TV digerisce male i cibi piccanti e preferisce, al solito, il Totò-Sciosciammocca che divora la pastasciutta con le mani.

Tino Ranieri, «L'Unità», 24 marzo 1973


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«Corriere della Sera», 26 marzo 1973


1973 03 27 La Stampa Ciclo Toto TV

«Stampa Sera», 27 marzo 1973

Da domani si ride in tv. Il merito è di Totò, il solo comico italiano paragonabile ai re della risata come Chaplin, Keaton, Lloyd. La Rai ha programmato otto suoi film, compresi nell'ureo di trentanni e scelti in un elenco di 114 titoli. Ogni mercoledì un film, ogni serata il divertimento sarà assicurato. Il ciclo è a cura di Mario Mattoli, autore teatrale e regista cinematografico che con l'attore collaborò per mezzo secolo. Ecco l'elenco degli appuntamenti per j telespettatori, sul Secondo programma.

I DUE ORFANELLI di Mario Mattoli, con Isa Barzizza e Carlo Campanini. Due ingenui fratelli vivono, tra sogno e realtà, nella corrotta Parigi 1865.

TOTO' LE MOKO' di C. L. Bragaglia, con Carlo Ninchi e Gianna M. Canale. Splendida parodia del film nero alla francese, tipo Pepe le Moko con Gabin.

YVONNE LA NUIT di Giuseppe Amato, con Olga Villi e Gino Cervi. Un Totò piuttosto serio, con Eduardo De Filippo come spalla, ricostruisce l'atmosfera del caffèconcerto.

TOTO' SCEICCO di Mario Mattoli, con Tamara Lees e Aroldo Tieri. Un distinto maggiordomo finisce tra i ribelli marocchini contro la Legione Straniera.

TOTO' E CAROLINA di Mario Monicelli, con Anna M. Ferrerò e Tina Pica. Poliziotto timido conosce ragazza sperduta: il film fu avversato da un'assurda censura.

I DUE MARESCIALLI di Sergio Corbucci, oon Vittorio De Sica e Gianni Agus. Patetica e buffa lotta per sopravvivere nell'Italia occupata dai nazisti.

IL COMANDANTE di Paolo Heusch, con Andreina Pagnani e Britt Ekland. Le manie di un alto ufficiale in congedo.

UCCELLACCI E UCCELLINI di Pier Paolo Pasolini, con Ninetto Datoli e Femi Benussi. Splendido congedo dell'attore in un'opera poetica.


La serie in omaggio al «principe clown» comincia con «I due orfanelli», girato nel '47, regista Mario Mattoli, e sì concluderà con «Uccellacci e uccellini» (1966) di Pier Paolo Pasolini - Alla riscoperta di una comicità a al massimo grado

Stasera, sul secondo canale, prende il via Totò principe clown, un ciclo di otto film dei quali è protagonista l'attore napoletano. E' un doveroso, oltre che da tempo atteso, omaggio a Totò per il quale sono rinverditi, in questi ultimi anni, dopo la morte, l consensi che in vita gli erano stati in molte occasioni ingiustamente lesinati. I film scelti fra i 114 interpretati in trent'anni da Totò appartengono al periodo dai 1947 al 1966. si va cioè dall'immediato dopoguerra agli anni sessanta, quelli del boom economico e del ripiegare contemporaneo di Totò su di una vena più meditata e riflessiva. Dal Totò ancora truccato e disarticolato come noi glorioso avanspettacolo quindi, al protagonista di moderne parabole esistenziali.

Si comincia stasera con I due orfanelli, appunto del 1947, primo dei quindici film che Mario Mattoli realizzò nei lungo sodalizio artistico con Totò. Gli altri titoli della rassegna sono Totò le Mokò (1949), Yvonne la nuit (1949), Totò sceicco (1950), Totò e Carolina (1955), I due marescialli (1961), Il comandante (1963) e Uccellacci e uccellini (1966).

Ecco in breve la trama del film di questa sera nel quale, assieme a Totò, ritroviamo Isa Barzizza e Carlo Campanini.

A Parigi, nel 1865, i fratelli Gaspare e Bastiano, due trovatelli, vivono facendo l’uno l'economo e il prefetto, l'altro il giardiniere in un Istituto di orfanelle. La loro vita cambia quando Bastiano pensa d'nterrogare un chiromante per sapere di chi sono Agli: risulta infatti che discendono da un ricco duca, nel cui palazzo vivono un sedicente erede e la sua amica. Molteplici e inverosimili le avventure dei due fratelli Ano a quando non si scopre che il loro è stato solo un sogno. Gaspare e Bastiano continuano nel lavoro di ogni giorno, accorgendosi tuttavia che tra sogno e realtà esistono molti punti di contatto,

Eretico della napoletanità

Napoli, 27 marzo.

Era nato nel rione Sanità, «il più famoso rione di Napoli», come egli spesso diceva. Vi era nato anche Francesco Mastriani, che morì in uno di quei vicoli dopo aver scritto 107 romanzi. Vi sono nato, immeritatamente, anch’io. Corrado Alvaro lo chiamò «una valle scura nell’abitato». In questa valle sono nati anche i più temibili guappi della nostra poco temuta città; guappi «ammartenàti», dal latino Martis natus. figlio di Marte, che equivale, quindi, a marziale, prepotente, rissoso, spavaldo nel parlare, nel camminare, nel fitto gestire. Quella valle era, dunque, il quartiere residenziale in terra dei «figli di Marte», regrediti a sottoproletariato a cui faceva da impaurito e rispettoso contorno una piccola borghesia quasi al limite della plebe. Questo l'ambiente naturale di Antonio de Curtis, qui le sue gracili radici storiche, il suo disarticolato mondo d’origine. Di tale disarticolazione, Totò è stato l’interprete più scatenato.

A prescindere, direbbe, lui. A prescindere, cioè, dal fatto che quelle origini sottoproletarie o infimoborghesi spiegano solo in parte Totò. C’è, infatti, in lui, molto di inspiegabile. Perché non tutto collima con le sue origini, con il piccolo universo della valle scura. I «figli di Marte» hanno sempre combattuto e combattono la loro guerra, non già per vincere e nemmeno per vivere, ma soltanto per sopravvivere: è questa la loro amara scelta. E il loro è un dio-padre inerte, rassegnato, fatalista, sempre pronto ad allearsi con i più potenti contro i potenti, e a suo proprio discapito. come fa sempre il dio-padre dei sottoproletari. Ma una lunga e divertita e anche interessata leggenda folclorica gli ha sempre elargito un credito di ilari estri, allegrie, passioni evasive; ne ha ignorato i disastri. la sconfitta.

In Totò, invece, dev'esserci stato, un dio diverso, un dio che nella mente di Antonio de Curtis ha creato uno strano fantasma: Totò, appunto. Che non ha certo inventato quell'esasperazione di gesti, quella deformazione di parole e fonemi, che con tanta potenza comica lo hanno caratterizzato nella scena italiana; tutto, ciò è appartenuto da sempre al inondo popolare napoletano, ai vecchi comici dei piccoli sgangherati teatri periferici, a certe antiche maschere dialettali.

Il dio che ha assistito Totò, gli ha permesso di dare a tutto questo «repertorio» una stupefacente unità stilistica, che mai ebbero i suoi predecessori; gli ha persino consentito di deridere, almeno sul piano dell’inconscio, i Magnifici Avi, cui egli con innocente candore aspirava: li derise quando sulla scena inventava strepitosi tornei fra principi antichi, grandi cacce, favolose avventure di guerra. Derise la magnificenza, quando la rappresentava; trasformando se stesso in una apoteosi di fuochi d’artificio, in una fantasmagoria surreale, grottesca, di razzi, bengala, castagnole che si frantumavano con mille suoni e colori nell'aria di un cielo che noti sembrava, e non era, più il nostro.

L’antico «figlio di Marte» ha, dunque, combattuto una «guerra» diversa da quella che si è sempre svolta e si svolge nei vicoli e negli angiporti della valle scura, una guerra chiusa nei recinti d’una sorda, monotona, avarissima misura di vita.

Il genio di Totò, e per tante ragioni viene da pensare a quello di Gogol, è sempre stato una dismisura; per lui, come per Gogol, non c’è mai stato nulla di meglio, di ordinario; si potrebbe dire di lui quello che un famoso saggista scrisse del russo: «Egli conosce soltanto lo smisurato». E Totò lo ha «conosciuto» come pochi: lo ha conosciuto con il rifiuto del linguaggio che egli parla nella vita reale, con il portare alla massima alterazione la perfetta disannonia delle sue membra sciabili, con lo spingere fino all'impossibile il lato comico dei rapporti umani, elevando tutto al «massimo grado», al «colmo del comico», sviluppando sino al limite estremo, come è stato detto per Gogol, «ciò che nella realtà si trova soltanto allo stato di allusione»; lo ha conosciuto, infine, quando ha saputo respingere le spente e ipocrite falsificazioni del reale per commettere «falsi» più veri del reale.

Perciò egli è un eretico della «napoletanità», perciò la sua faccia è tale che non rientra nel consueto catalogo delle maschere; non è viso né maschera, forse è soltanto una iperbole inconsciamente creata da un qualunquista di vicolo contro il qualunquismo della storia, contro la morale e le ideologie del qualunquismo. A patto di sacrificarsi, con una sorta di abnorme felicità, ha una straordinaria metamorfosi che da ex «ammartenàto» ne ha fatto la marionetta più misteriosa e insieme più trasparente mai apparsa fra noi, e paga soltanto d'inventare e reinventare continuamente se stessa con quella grazia e con quel furore che si ritrovano soltanto nello sferzante dominio del riso.

Un’iperbole senza fine, dunque, lui, Totò; un'iperbole comica come nessun’altra, persino quando la sua innocenza gli faceva dire di sé: «Sua Altezza Imperiale Antonio Porfirogenito della stirpe Costantiniana dei Focas Angelo Flavio ducas Comneno di Bisanzio, principe di Cilicia, di Macedonia, di Dardania, di Tessaglia, del Ponto, di Moldava, di Illiria, del Peloponneso, duca di Cipro e di Epiro, conte e duca di Drivasto e Durazzo», ecc.

Un'iperbole, Totò, quando, montando in trend in un suo famosissimo sketch, invocava smarrito e imperioso: «lampisti fuochisti macchinisti scambisti conduttori frenatori, facchini, impiegati delle ferrovie dello stato», ecc.

Un'iperbole da terzo mondo perfino, quando. alla sua morte, i guitti che in attesa di un'improbabile scrittura trascinavano la loro fame per la Galleria Grande di Napoli, affissero questo manifesto: «Napoletani, vi annunciamo con profonda tristezza la morte di Sua Altezza Imperiale Antonio de Curtis in arte Totò».

Luigi Compagnone, «Corriere della Sera», 28 marzo 1973


Concluso appena due giorni fa il ciclo cinematografico di Marion Brando prende stasera il via (ore 21,20 Secondo canale), sotto il titolo TOTO' PRINCIPE CLOWN, la retrospettiva dedicata al grande attore comico napoletano scomparso nel 1967. che la tv riscopre ora (dopo l'omaggio dedicatogli nel primo anniversario della morte) sulla scia d'un fortunato rilancio sul grande schermo. E' una rassegna organica di otto film, dei 114 che Totò interpretò nella sua carriera, selezionati tra quelli del ventennio 1947-1966 giudicato dalla critica come il più significativo oltreché il più fecondo.

Presentato da Domenico Meccoli, curatole di questa ampia antologia, vedremo per primo I DUE ORFANELLI, diretto nel '47 da Mario Mattoli, forse il regista con il quale Totò ha lavoralo di più (sedici film). E' una gustosa parodia del romanzo d'appendice ottocentesco nei toni del « vaudeville », con tutto il suo corredo di colpi di scena, ducili e riconoscimenti di figli della colpa, bene sorretta dall'impareggiabile bulloneria di un Totò non ancora cinquantenne che ha una spalla eccellente nel pacioso Carlo Campanini. L'azione si svolge, manco a dirlo, a Parigi, nel 1865, protagonisti Bastiano e Caspard, due trovatelli, giardiniere l'uno e prefetto economo l'altro in un istituto di orfanelle. Al primo viene l'idea di consultare una chiromante per rintracciare la sua famiglia ed apprende cosi d'essere nato dai magnanimi lombi di un ricco duca, pari di Francia. La sua eredità è stata purtroppo carpita da un cugino usurpatore che s'è insediato nell'avito palazzo, insieme con la sua amante, la bellissima ballerina russa Barzizkaja. Spalleggiato da Gaspard, che ha nominato suo amministratore unico e procuratore generale, Bastiano riesce a farsi reintegrare nel possesso del patrimonio c del palazzo. che diviene teatro delle sue lotte con il falso erede infaticabile nell'ordire sempre nuovi tranelli, suggeritigli anche dalla sua avida c perfida compagna.

E' questo lo spumo per una girandola di sfrenate avventure e farsesche divagazioni durante le quali Bastiano giunge ad impersonare Napoleone il Grande, menile Gaspard scopre di essere il figlio naturale del boia di Parigi. Divertentissimo il dialogo, tutto giocato sull'anacronismo, che riapre una pagina sugli anni del primo dopoguerra italiano. Accanto al mattatore Totò ed al suo comprimario Campanini sono la bionda e frizzante Isa Barzizza (in quegli anni acclamata « soubrette » di rivista nella compagnia del primo) qui al suo debutto nel cinema, e numerosi caratteristi quali Raymond Bussièrcs, Ada Dondini, Luigi Almirante, Nerio Bernardi e la bellona Franca Marzi.

d.g., «La Stampa», 28 marzo 1973


Mentre la televisione italiana dà il via ad una serie di film del grande comico, rievochiamo un momento di singolare confidenza: il principe Antonio De Curtis non amava il suo personaggio

Totó in televisione. Non saranno solo risate. Un po' di malinconia nel cogliere la maschera di un comico geniale, perduta talvolta nelle banalità di copioni frettolosi, commediole tirate via, per fare quattrini. Di Totò ho un ricordo che risale a qualche mese prima delta morte (il 16 aprile 1967), dopo aver iniziato un film con Nanni Loy. L'unica sequenza terminata era quella di un funerale. Correvano per lui giorni di incanto. Gli intellettuali (e non solo il «suo» Eduardo) lo avevano scoperto: Pasolini, Bolognini. Si diceva che perfino Antonioni... Il «cugino di Pulcinella e nipote di Arlecchino», dopo secoli di anticamera fra le risate grasse del racconto popolare, incantava i narratori sofisticati. Immaginato di trovare un uomo felice, furbetto, con l'allegria facile.

1973 03 28 Corriere della Sera Ciclo film Toto TV f1E' il Toto del dopoguerra quello che vedremo nella prima parte del ciclo televisivo. I film di quel periodo lasciavano all'attore la massima libertà di esprimersi. Nato a Napoli nel 1898. Totò aveva debuttato sugli schermi nel 37 in «Fermo con le mani», ma solo nel '40 con il film «San Giovanni decollato», tratto dalla famosa commedia di Nino Martoglio, si rivelo al grosso pubblico. Eccolo a sinistra in questa storica pellicola alla cui sceneggiatura collaborò lo scrittore Achille Campanile. A destra lo vediamo con Vittorio De Sica ne «I due marescialli» uno dei film che televedremo.

Domenica mattina. Via Monte Parioli deserta, la casa silenziosa. Era solo. Venne ad aprirmi, piccolissimo, pallido come mai ho visto pallido nessuno. Camminava tastando i muri: gli occhi si stavano spegnendo. Sul «set» si muoveva a memoria. Come tutti i comici fuori scena era triste, un po' noioso. Molto ingenuo. Mi pareva nervoso. Quella storia detta nobiltà comprata non la volle ascoltare, il figlio di Giuseppe De Curtis e Anna Capitani (1), nato in Rione Sanità, si sentiva sul serio erede dell'impero ottomano. Sul pianoforte. con patetico orgoglio, ostentava l'autografo di Umberto di Savoia.

«Amico mio, sulle corone non scherziamo. Sono cose serie, il sangue non è acqua. Il passato se c'è, ed è glorioso, non si può dimenticare. Lei lo butterebbe via? lo no. Un titolo vale più del denaro, i titoli non si comprano». E mi guardava polemico pensando alla storia che girava sui giornali: si raccontava avesse regalato un banco del lotto al vero principe De Curtis, perché gli mollasse la corona.

Poi, d'improvviso cambiò umore. Inventò una disputa tra lui e Totò. «Qui in casa sono il principe, ma lei è venuto a parlare di Totò. Glielo dico subito: Totò non mi piace. Non mi piace la sua faccia: lunga e triste. Secondo me fa ridere perché è un po' deforme. Non lo amo neanche come personaggio. Ride sempre, mentre io non rido mai. Perché? Perché non ho più vent’annt. Faccio le scale e mi viene il fiatone. E poi, lei, in casa, fa sempre lo spiritoso? La risata non mi garba. Fa rumore, disturba». '

«Adesso non scriva che il principe è una lagna. E' solo calmo, privo d'ansia, lo l'ansia non la conosco. Sarà il sangue ottomano. Quando ascolto storie divertenti mi limito a sorridere, un po' per educazione e un po' per non assomigliare troppo a Totò. Resto sempre il principe De Curtis, un gentiluomo. Invece Totò è un villano: quando parla agita le mani, strizza l'occhio. Ha mai notato come veste? Ridicolo. Giacche strettissime, come usavano nei caffè chantants dell'altra Napoli, quella col pennacchio, che lei non può aver visto. Il principe è compassato, riservato. Il suo sarto ha l'ordine di vestirlo di scuro, disdegnando la moda: un taglio classico, non vistoso.

«Totò è greve anche nelle donne. Le vuole formose, cariche di lustrini. Gli piacciono le ballerine d'avanspettacolo. Il principe corteggia creature sofisticate, evanescenti. Ama la classe. Totò beve male. Preferisce la birra al vino: e quando cade sul vino, meglio non parlarne. Il principe beve pochissimo, ma le scelte non sono banali. Un po' di Bordeaux, due dita di champagne alla sera. Lo champagne lo aiuta a sognare. Totò non viaggia quasi mai, se naturalmente non consideriamo viaggi le gite in corriera e gli accelerati asmatici che lo portano dal paese alla città. E anche in questi atomi di movimento trova il modo di meravigliarsi di tutto. Una sola volta è finito in vagone letto, ma non ce l’ha fatta a chiudere un occhio. Per fare i ricchi bisogna essere allenati, signore mio. La prima volta che uno assaggia il caviale lo sputa fuori. Sa di pesce!

1973 03 28 Corriere della Sera Ciclo film Toto TV f2Negli anni sessanta l'arte di Totò tocco le vette più alte per merito de «Il comandante», nella foto a sinistra, e di «Uccellacci e uccellini», a destra, in cui seppe dar vita a un personaggio in bilico tra realtà e fantasia. Infaticabile, onnipresente, l'attore cominciava ad avvertire i segni del declino fisico manifestatosi con una grave malattia agli occhi. Sembrava dovesse rimaner cicco ina poi guari. L'ultima compagna della sua vita, fino alla morte (avvenuta il 15 aprile 1967), è stata l'attrice Franca Faldini. Nel 1939 l’attore si era separato da Diana Roliani (2) dalla quale aveva avuto due figli. Antonello e Diana.

«Totò vorrebbe saltare in aeroplano che gli mette, è vero, una paura d'inferno, ma soddisfa la sua vanità di contadino. Sogna un lungo viaggio in mare: il mare gli fa male, ma l'idea di passeggiare sul ponte lo sconvolge. Com'è differente dal principe! Tutti i mesi il principe va a Parigi. A cosa fare? Chiederà. Così, a Parigi. Magari per prendere un caffè in un certo caffè, c andare a teatro. In treno, naturalmente. Il principe non sopporta la velocità. E' rimasto all'antica. Subisce il fascino struggente dei treni internazionali. Ah, la 'valigia delle Indie'! La bella e misteriosa sconosciuta incontrata sull'Orient Express! Cos'è questa mania di fare in fretta? Il principe non si rende conto come in sette ore si possa correre a Nuova York. Gli fa rabbia che ci vogliano solo sette ore e non venti giorni, come una volta. quando l'America era davvero l'America: un mito, una favola, non qualcosa dove passarci il weeek end.

«Totò ama le compagnie numerose, le battute volgari. Il principe lascia che le barzellette le raccontino Walter Chiari e Dapporto. Nella sua casa c'è un'atmosfera raccolta, di chiacchiere civili. La confusione non à gradita. Chi alza la voce non e più invitato. Totò è geloso, come tutti gli uomini insicuri. Il principe ama troppo le donne; e quando si ama vuol dire capire virtù e difetti. Se una non gli vuol più bene, ne prende un'altra. Totò e il principe si trovano d'accordo su una cosa. Non credono all'immortalità degli attori. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Appena un mito muore se ne fabbrica un altro. Chi parla oggi di Petrotini?»,

E si sbagliava. Lui è ancora vivo. La sua immagine ritorna sui giornali per la felicità di quelli che l'hanno conosciuto nel buio di un cinema o applaudito a teatro. E di chi — come mi è successo — ha avuto la ventura d'essere il solo spettatore di una insolita gag, la domenica mattina nella casa vuota di Monte Parioli. L'improvvisazione amara di un uomo solo col suo fantoccio.

Maurizio Chierici, «Corriere d'Informazione», 28 marzo 1973


Totò ad una festa di Capodanno. In casa sua, a viale Buozzi, a Roma. Eravamo nel pieno degli anni Cinquanta; i suoi film uscivano a getto continuo, la maggior parte con il suo nome nel titolo; spesso, per realizzarli, bastavano poche settimane, quasi sempre chi li finanziava ne ricavava somme enormi (Totò a colori, in un'epoca in cui un biglietto costava dalle 2 alle 300 lire, aveva incassato un miliardo). Un amico, per augurargli che quella vena non si inaridisse, si presentò con un enorme corno di corallo, cimato da una corona d'argento, e glielo offrì come regalo per l'anno nuovo. Totò, accettandolo, si girò verso di me e, ammiccando, disse a mezza voce:

«In premio di tutte queste schifezze. E perché durino...» Sapeva, con intelligenza acuta, cosa valevano i suoi film di allora. Ma lo accettava con distacco, forse persino con cinismo, sapendo, anche, che avrebbe potuto far meglio, molto meglio. Come, proprio in quel periodo, gli aveva rimproverato Giuseppe Marotta, quando, con la sua penna tutta colori e girandole, aveva scritto quasi gridando: «Muse napoletane, abbiamo tante volte mangiato cocomeri e lupini insieme, aiutatemi a dite tutto il male e tutto il bene possibile di Totò. Chi è più attore e meno artista di lui? Chi, se non Totò, è l'unico, il massimo denigratore che Totò abbia, l'ospite furtivo, il cugino povero, il visitatore umile, balbettante di sè stesso? Chi, o lacere e fulgide Muse napoletane, si inganna, si disconosce, si rinnega più del nostro impareggiabile conterraneo Totò? Poteva, il creatore dei Petito, degli Scarpetta, dei Viviani, dei De Filippo realizzare con maggior talento a con maggiore impegno un lavoretto come Totò? Egli, l’Apollo indigeno, vedeva lontano, chilometri e chilometri, sulla via del comico. Perciò fece Totò come lo fece. Piccolo, anzitutto, ma dilatabile: che agevolmente si rapprendesse, fino ad assumere l'apparenza di un oggetto, e che un momento dopo, con altrettanta facilità, si allungasse e allargasse e sfrangiasse come le nuvole di giugno su Mergellina. Un corpo di funambolo, anzi dì fachiro, a tratti disanimato, cadaverico, e a tratti invaso dalle furie, scattante, volante. L’inerzia e il vuoto, pietre e vento, nel medesimo involucro. Gli arti indipendenti, liberi, dissociati, un braccio o una gamba di Totò è un individuo nell'individuo, un attore nell'attore...

E infine... un volto senza parentele, indefinibile, astruso, un mondo chimerico di fronte occhi naso bocca zigomi anomali, buffi e terrifici... Mi fa ridere e sospirare, la mascella deragliata di Totò. Egli, tanto se avesse dato retta ai suoi connotati surreali (affrancandosi da ogni coerenza), quanto se li avesse gettati a contrasto nel reale nei malinconici avvenimenti d'ogni giorno, sarebbe stato un pezzo di finissima allegria cinematografica. Ma, debbo ripeterlo, Totò non ha intelligenza di sé, non si è mai cercato o indovinato, mai».

Passarono gli anni. Totò sempre di più si cercò, si indovinò. Steno e Monicelli gli offrirono un’occasione felicissima con Guardie e ladri. De Sica gli creò su misura una parte gustosissima di «pazzariello», nell'Oro di Napoli. Nei Due colonnelli, di Steno, nel Comandante, di Heusch, nella Mandragola, di Lattuada, e un Uccellacci e uccellini, di Pasolini, si impose in poco tempo, fra il '54 e il '66, un nuovo Totò, fine, interiore, a volte addirittura sofferto, doloroso, padrone, con mezzi amplissimi, d'una recitazione d'alta scuola. Arrivò il «Nastro d’argento» dei critici italiani per Guardie e ladri arrivò la menzione del Festival di Cannes per Uccellacci e uccellini e, nell'inverno del '67, per quella stessa interpretazione, gli arrivò un secondo «Nastro d’argento». Me ne ringraziò con una lunga telefonata non solo perché sapeva che lo avevo votato anch’io, ma perché su Il Tempo avevo commentato il premio con precisi a motivati consensi.

Gli dissi: «Ha visto che avevo ragione quando scrivevo che lei discende dalla Commedia dell'Arte?» Non replicò subito, poi: «Lo sa cosa rispondeva Petrolini quando gli dicevano la stessa cosa? Io discendo solo tutti i giorni dalla scale di casa mia...» Fu, per me, la sua ultima battuta. Pochi giorni dopo ci raggiungeva la notizia della sua fine, in poche ore, di venerdì, il giorno di cui aveva sempre avuto paura.

Marotta lo aveva affratellato ai Petito, agli Scarpetta, ai Viviani, ai De Filippo. Ma bisognava affratellarlo anche alla Commedia dell'Arte, nonostante la sua incredulità. Le sue farse, anche quelle che egli definiva «schifezze», avevano infatti, quasi sempre, tutto il sapore e il calore delle antiche, gloriose «farse cavaiole». Non per i loro meriti, che erano scarsissimi, ma per merito di lui, di quel dinamismo, di quella versatilità, di quella incandescente allegria che egli sapeva far scaturire da tutti i suoi personaggi, dalla loro popolaresca freschezza, dalla loro gioconda vitalità.

E non lo dico solo oggi, da quando è diventato, un «classico», oggetto di attenzioni, nei cinematografi normali e in televisione, come ne ricevono soltanto i «Grandi» del passato. Il mestiere del comico è difficile. Non si può far ridere sempre con gli stessi espedienti. Totò, ad alcuni ricorreva con una cena frequenza, ma ogni volta sapeva inventarne anche dei nuovi, creando spesso i suoi personaggi di fronte alla macchina da presa. Inventava lazzi, mosse, mossene, battute, scherzi mimava sorprendenti e straordinari atteggiamenti caricaturali e vinceva a volte solo in forza della sua maschera, in forza della sua recitazione.

Vinceva e stravinceva. Vinse per anni e anni, fino ad essere il numero uno del cinema comico italiano. Dopo, quando «si indovinò», vinse per ragioni più fonde, più segrete. Nel Comandante ad esempio, che fu anche il suo centesimo film, doveva dar vita al carattere dolente di un generale in pensione che, per sopravvivere, finiva in giri abbastanza complessi e non sempre limpidi, da cui, quando finalmente apriva gli occhi, si sottraeva con indignata, corrusca onestà. Disegnò quel personaggio con ironia, ma senza più una sola nota farsesca, con fremiti addirittura drammatici, con sfumature patetiche, svelando una dignità e una umanità eccezionali. E così nella Mandragola in cui, svestita la parte di frate Timoteo di tutti i diabolici accenti di cui l’aveva vestita Machiavelli, la fasciò di sfumature affabilmente umoristiche, traversate da sussulti, da fremiti di malinconia. Come, poco tempo dopo, nel personaggio dello spaurito fraticello di Uccellacci e uccellini: un fraticello che riusciva a capire il linguaggio degli uccelli, che riusciva a parlare con loro, che riusciva ad accoppiare la santità alla semplicità, il candore all'ascesi. Una parte difficile, complessa, tenuta spesso sul filo del rasoio del ridicolo. Non vi commise un errore, la polì in ogni parte, la studiò in ogni dettaglio, la espresse con interiorità delicata. In alcuni momenti riuscì quasi a fare piangere. Dopo aver fatto tanto ridere.

Mario Castellani, che fu per anni sua «spalla» intervistato in questi giorni, ha detto: «L’arte, la vera arte di Totò è scomparsa con lui e i giovani che non hanno avuto la fortuna di vederlo sul palcoscenico non possono ritrovarlo come è stato veramente guardando i suoi film. Totò non è Chaplin o Buster Keaton, fenomeni tipicamente cinematografici. Totò è il teatro. Il cinema, nel migliore dei casi, lo ha dimezzato. Nel peggiore, che era poi la norma, lo ha puramente e semplicemente tradito».

E' vero per il teatro di Totò, forse è vero per il suo cinema comico. Non è vero per il cinema del suo ultimo decennio di attività. Non era neanche più Commedia dell’Arte. Era l'arte di un attore che, finalmente, aveva accettato di avere quell’ «intelligenza di sé» cui, per anni, aveva finto di sottrarsi.

Gian Luigi Rondi, «Il Tempo», 28 marzo 1973


1973 03 28 Il Tempo Toto Riscoperta TV intro

Stasera in tv il primo film dedicato al grande comico. Forse mai prima d’ora si era assistito, nel mondo dello spettacolo, a un «revival» di proporzioni così vaste: l’attore napoletano viene paragonato a Buster Keaton e a Charlie Chaplln Dichiarazioni di registi e compagni di lavoro - I ricordi di Fabrizio Sarazani che fu suo intimo amico

Principe che cosa è mai la vita? Totò sui quotidiani, Totò sui rotocalchi, Totò al cinema, Totò alla televisione. In vita, di essere un mito non gli accadde mai. Tutt'al più quando il tramonto fisico, la cecità incombente imponevano una valutazione diversa, frutto più del pietismo che della convinzione; solo allora Totò conobbe qualche tardivo, come di chi ai sente in colpa. riconoscimento delle sue qualità. Oggi si spendono nomi celebrati: Buster Keaton, Charlie Chaplin e si guarda a Totò come ad una occasione mancata dal cinema italiano. E' diventato un «classico». Tutti concordi, quasi un coro. Eppure, fino a sei anni fa Totò era là, con il suo mento sbilenco, con i suoi arti da burattino, pronto ad offrire quella genialità artistica che venne interpretata soltanto come una dozzinale merce di consumo. D’altronde accade ancora ; con queste artificiose rassegne che si accavallano attraverso tutti i mezzi di comunicazione, mentre la «riscoperta» di Totò è stata un fenomeno genuino, spontaneo. Là dove giornali, impresari, produttori, direttori di programmi non avevano capito niente è stata la massa, il pubblico a comprendere tutto. E così da qualche proiezione estemporanea, seguita da un successo inatteso, si è arrivati all’odierno «revival». Adesso è una gara. Da una parte l’attore. dall'altra l’uomo; due maschere distinte, completamente differenti. Totò popolaresco e De Curtis araldico; Totò guitto e Totò signore. Un'unica tristezza, probabilmente, da coltivare al suono delle risate, quelle degli altri

Le battute inventate

«Io credo — dice Carlo Campanini — che il grande comico napoletano non sia mai stato sfruttato per il suo vero, grande valore. A volte, nella cinematografia di trent'anni or sono, si doveva fare tutto in fretta; cosi Totò non sfuggiva alla regola. Soltanto la sua grande abilità consentiva un certo risultato perché chiaramente non era sorretto da soggetti adatti e tagliati su misura.»

Peppino De Filippo: «Era un compagno affettuoso, delizioso. I film che girammo insieme ebbero una vicenda assai fortunosa in quanto non esistevano i copioni e bisognava inventarci addirittura le battute o le situazioni Del resto io lo dicevo sempre a Totò: tu che fai il cinema professionalmente (io invece lo facevo negli spazi lasciati liberi dal teatro) non fare un film al mese, ma uno all’anno e che sia valido. Comunque i film di Totò erano e rimangono validi perché Totò era un grande attore».

Mario Monicelli: «Totò era un attore molto istintivo, spontaneo, intelligente; non studiava la parte e bastavano poche parole all'ultimo momento, prima di cominciare a girare per fargli comprendere il personaggio. Bisognava lasciargli molta libertà. Non ho mai capito bene se non volesse studiare il copione per pigrizia o soltanto per non perdere la sua spontaneità. Fatto sta che ho dovuto sempre dargli la briglia sciolta. Per me lavorare con lui era come fare un documentario. Soltanto negli ultimi anni si è cominciato ad avere qualche barlume sulla eccezionalità delle sue doti. Ma sarebbe stato meglio averci pensato prima».

Mario Mattoli: «Attori di quel livello, direi formidabili — ha precisato - ce ne sono o ce ne sono stati In tutto due o tre, non di più. In questo rilievo è anche la spiegazione della eccezionale ripresa del film di Totò che c’è stata negli ultimi due anni. A mio parere si tratta di una ripresa commerciale unica nella storia del cinema, cominciata dapprima con qualche timida apparizione nel cinéma d’essai e rapidamente sviluppatasi fino a giungere — ritengo peraltro con un po’ di ritardo — alla televisione. Naturalmente lo sono felice che nel ciclo televisivo la mia firma appaia due volte (I due orfanelli e Totò sceicco) anche perché cosi il mio nome, che ho sentito recentemente storpiato o anche ignorato, riavrà almeno la sua abituale composizione.

«Totò, del quale io ho diretto alcuni film "prima maniera" - continua il regista - era soprattutto un attore che non sopportava che nel film stesso venissero presentate "tesi". Era un vero comico e preferiva, almeno nella prima parte della sua lunga attività cinematografica, affidare il successo alla sua eccezionale mimica, alla sua spontaneità. In Totò era rappresentata tutta la tradizione del teatro dialettale ed in particolare di quello napoletano che ha avuto, in tale genere di spettacolo, diversi validi rappresentanti. espressioni di una situazione particolare della città partenopea, forse per il clima stesso, o anche per una predisposizione naturale. Fra questi comici, però, Totò era senza dubbio il migliore, il più completo».

Renato Salvatori: «Quando lavorai con Totò nei Soliti ignoti ero ancora molto giovane. Avevo 24 anni e Totò ne aveva 51. Rimasi immediatamente affascinato dalla sua eccezionale personalità. Non avevo mai visto lavorare Totò in teatro, ma lo avevo visto sul set di non ricordo quale film, un giorno che mi ero recato nei teatri di posa della De Laurentiis. Era stato un incontro casuale, ma ero rimasto così colpito che ritornai più volte a vederlo mentre "girava".

«Quando fui al suo fianco. Insieme con Mastroianni, Gassman, la Cardinale e la Gravina, nei Soliti ignoti mi resi conto delle dimensioni del "fenomeno" Totò. Era un personaggio imprevedibile. Non si faceva condizionare né dalla sceneggiatura né dal regista e del resto nessun regista che conosceva Totò avrebbe mai pensato di condizionarlo. Non faceva mai due volte la stessa scena, improvvisava sempre».

Dichiarazioni, memoriali, cicli, monografie, retrospettive. Chi fu in realtà Totò, il principe Antonio De Curtis, ultimo erede del trono di Bisanzio? Troppo semplicistico e complesso, tentare di darne una risposta. Per questo abbiamo preferito, in concomitanza con gli otto film che la televisione propone da oggi, cercare di restituirne alcuni aspetti attraverso i ricordi, i momenti vissuti da un amico fraterno di Totò, il conte Fabrizio Sarazani, che ne raccolse quotidianamente le confidenze, che accompagnò ad Assisi la figlia del comico all’altare perché lui e si emozionava troppo (3), che fu il primo ad accorrere quando Totò si spense.

«Era poco prima dell'alba del 15 aprile 1967 — racconta Sarazani —. Le tre. Venni avvisato telefonicamente. Presi un taxi. Giunti a destinazione l'autista, che aveva compreso da alcune mie parole di cosa si trattava, rifiutò quanto gli era dovuto e chiese: " Dottò voglio salì su con lei ", Totò non credeva nella morte, aveva terrore solo delle malattie. Un uomo profondamente infelice e certamente buono; buono senza essere santo. Fiero della sua miseria come della sua nobiltà, anche se la miseria odiò con tutto se stesso e se quel marchio che lo spaventava, persino nei momenti migliori. contribuì a condizionare molte delle sue scelte.» Totò povero (è sempre Sarazani che riferisce questi episodi) che ereditava nella Napoli dei vicoli un cappotto foderato di pelliccia, ’o cappotto d' 'o muorto, che gli andava grande fino a coprirgli i piedi e con ii quale si avviava per via Caracciolo. dove, incontrando Eduardo De Filippo, nasceva un battibecco. Perché Eduardo se lo voleva «accattà» e Totò non voleva: Totò nobile e ricco che sceso, subito dopo la guerra, con l'amico all'Hotel de Paris a Montecarlo e scorta in una vetrina di una gioielleria di Cartier una splendida «parure» decideva di acquistarla; al commesso che lo interpellava dubbioso: «Ma lei non sa quanto costa!». replicava: «Il prezzo lo dica al portiere del mio albergo» e commentava infine: «Questa è una soddisfazione che ho dato a Totò non al principe».

Odiavo la miseria

Come la sua, Totò odiava e cercava di combattere la miseria degli altri. «Se gli chiedevi l'ora - rammenta Sarazani — ti regalava l'orologio». Così una volta sul set di un film assistette ad un litigio tra un capo della troupe e un operaio arrivato in ritardo. Totò si informò; «Io vengo da lontano; sono costretto a prendere sempre i tram» si giustificò l'operaio. L'indomani lo attendeva una motocicletta fiammante; «Però non lo devi dire» lo pregò Totò. Così, quando già era costretto a leggere con una spessa lente il giornale, venendo a sapere di un poveretto ricino a Fontana di Trevi che non aveva i soldi per farsi l’operazione delle cataratte, inviò il denaro occorrente. Che nessuno sapesse. Non gli piaceva essere ringraziato. Come non gli piacevano gli strilli, le urla, le persone che parlavano a voce alta. «Nella sua compagnia - dice Sarazani - una volta fuori di scena, regnava una disciplina conventuale. Ed un giorno che una signorina, alla quale avevano scippato la borsetta, andò in escandescenze, Totò pregò che la portassero nel suo camerino. Non si preoccupi, pago io, ma non alzi la voce. La voce costa cara, se la tenga preziosa, mentre i denari non valgono niente.»

Come artista non ebbe rimpianti, anche se i suoi film li giudicava «schifezze». Sapeva di valere di più. Se ne accorse una notte d'inverno, in un paesino della Sicilia, vicino Palermo. Il teatro era più o meno una stalla, il palcoscenico una grande panca, gli avvisi della compagnia erano stati affissi sui muri con la carta scritta con il carbone. La sera in platea erano solo uomini con la coppola in testa. «Parevano di zinco — raccontava Totò —. Ed ora come faccio a farli ridere? Eppure li feci ridere. Non guadagnai un soldo, più o meno un pasto, però capii che ero bravo.»

Fabrizio Sarazani è l’autore del soggetto di Yvonne la nuit, una delle pellicole che la televisione si appresta a mandare in onda, un film che rappresenta anche il primo tentativo di convertire Totò in attore drammatico. Una vicenda passionale, sullo sfondo della grande guerra, fra una cantante ed un ufficiale. Un dramma che interpretava i gusti del tempo, in cui Totò era Nino, un capocomico segretamente innamorato, che si sacrificava per i begli occhi della donna che amava un altro e che, dopo una serie di drammatiche traversie, precipitava con lei nella miseria più nera. Una stona scritta per Anna Magnani, ma che vide Olga Villi nelle vesti di protagonista. C'erano anche Charles Latimore, Gino Cervi ed Eduardo De Filippo. Un ruolo insolito che Totò non gradiva; riteneva di non poter tradire quel cliché che gli aveva dato agiatezza e popolarità. Non se la sentiva. Quel Nino eroe sul Carso, che ritornava con i piedi congelati per accompagnarsi e dividere le tragedie dell’affascinante vedova dell'ufficiale, gli sembrava troppo lontano dai personaggi nei quali il pubblico era abituato a riconoscerlo.

Per convincerlo Sarazani lo raggiunse a Firenze dove Totò si trovava all’albergo Savoia. «Si, la storia è bella ma...» «Ha detto Rizzoli che il film si fa solo se ci sei tu». «D'accordo, ma... Allora non vuoi farmi lavorare». Equivaleva a metterlo con le spalle al muro. Non volle nemmeno un compenso. «Che mi diano quello che gli pare». Ricevette una preziosa collana. Chiese solo che venisse soppressa una scena. Quella in cui Nino diventava cieco. Era nato Totò drammatico. Era il 1949. La pellicola ebbe successo. Ma ci fu chi preferì non accorgersene. La marionetta rendeva molto di più. Oggi tutti sembrano aver intuito e rimpiangono in lui soprattutto ii Nino di Yvonne la nult.

Ruggero Marino, «Il Tempo», 28 marzo 1973


Totò e la farsa per 8 settimane Il ciclo inaugurato dai "Due orfanelli" di Mattoli - Stasera il "Rischiatutto"

Benvenuto Totò, che arriva (o meglio ritorna, perché la sua presenza sul video è sempre stata, se non fitta, costante) con un ampio ciclo di film, otto, che partono da I due orfanelli di Mattoli, cioè dal lontano 1947, per arrivare sino a Uccellacci e uccellini di Pasolini che è del 1966. Curiosamente, ogni volta che Totò ricompare, si parla di «riscoperta». Ma quale «riscoperta»? Il termine sarebbe esatto se si riferisse ad un attore ignorato o misconosciuto di cui, a morte avvenuta e a distanza di anni, si rivalutano le doti e si cantano le lodi riparando cosi — ahimè tardivamente — alla miopia della critica e all'indifferenza del pubblico. Ma per Totò le cose sono andate in modo assai diverso. Completamente diverso. Per cominciare il suo successo in palcoscenico risale al 1927. Ebbe ininterrottamente il favore della platea e di lui, nel giro di pochi anni, si occuparono intellettuali come Zavattini.

Già nel 1941 diventò popolare in cinema con San Giovanni Decollato di Palermi. Poco dopo ottenne autentici trionfi in rivista con l'«Orlando curioso» e «Che ti sei messo in testa?» di Galdieri. Perciò alla fine della guerra, tra '45 e '46, Totò era — e veniva considerato — uno dei maggiori comici italiani e parve naturale che la nostra rinnovata cinematografia , ne sfruttasse le capacità straordinarie. Ecco il punto. Nessuno mai ha detto né allora né dopo che Totò fosse un attore mediocre o limitato. Anzi, il di scorso teneva una linea diametralmente opposta: Totò era un attore comico di struttura fisica unica, con una maschera ineguagliabile, di risorse mimiche eccezionali, ma aveva un difetto, quello di non essere «autore», di doversi affidare ad altri, e di lasciarsi sfruttare con una faciltà e una disponibilità veramente eccessive...

E' il discorso che vale anche oggi per nove pellicole su dieci: bravo Totò, bravissimo, ma il film è un filmetto da quattro soldi.» D'accordo, pure, nelle produzioni meno raccomandabii, girate in due settimane, in una settimana, con povertà di idee e mezzi raffazzonati (l'importante è che ci fosse il compenso per il protagonista...), esiste un guizzo, un lampo, una trovata, un'occasione di ilarità dovuta all'estro di Totò: ma — lo ricordiamo bene — al momentaneo buonumore si accompagnava regolarmente il rammarico di vedere un interprete di razza sciupato in decine di fesserie (tanto più che in film rispettabili, quali Guardie e ladri di Steno e Monicelli o Dov'è la libertà? di Rossellini o, nell'episodio La patente di Zampa, da Pirandello, e più tardi ne I soliti ignoti o ne I due colonnelli la sua comicità era, al di là dei consueti lazzi, egualmente irresistibile ma molto più sostanziosa, raffinata). Comunque «riscoperta» per chi? Non per i critici che già vent'anni fa avevano chiarito la situazione. Non per il pubblico di vent'anni fa (e anni seguenti) che correva ad affollare le sale.

Non per il pubblico più giovane che ha avuto la possibilità di conoscere Totò ed attraverso la televisione e attraverso i frequenti, e anche recenti recuperi del cinema. Di «scoperta» e non di «riscoperta» si potrebbe eventualmente parlare per la platea dei giovanissimi dei quali raccoglieremo le opinioni a rassegna conclusa. Difficile dire se un ragazzo d'oggi si sia divertito a I due orfanelli di ieri, una farsa diretta alla vecchia maniera (sembra una pellicola di dieci o quindi anni prima) dal disinvolto Mario Mattoli. Qui Totò non è scatenato e diremmo non ancora ben inserito nella dimensione cinematografica: solo a tratti viene fuori il gran comico teatrale. Gli è validamente a fianco Carlo Campanini, il «re delle spalle» [...].

Ugo Buzzolan, «La Stampa», 29 marzo 1973


Par quindici anni compagna affettuosa a fedele di Totò, Franca Faldini preferisce oggi non ricordare per gli altri quel periodo: e per evitare di dover rilasciare interviste, già al martedì lascia l'abitazione romana per trasferirsi in campagna. Non si può criticare la sua decisione: nei sette anni che sono trascorsi dalla scomparsa del celebre comico, morto il 15 aprile 1967 all'età di 69 anni, Franca Faldini si è rifatta una vita, si è cercata un lavoro, ha trovato un nuovo compagno. Non ripudia nulla, però, del passato: sono trascorsi tanti anni — dice in sostanza — e non si può rimanere legati in eterno a un ricordo, a un monumento.

Oggi, Franca Faldini è completamente cambiata: diversa dalla attricetta che nel 1950 venne proclamata a Hollywood «Miss Torta di Formaggio», diversa dalla giovane interprete di film come «Alla larga dai marinai» (con Dean Martin e Jerry Lewis), diversa dalla donna che per quindici anni fu a fianco del Principe Antonio da Curtis. Rimasta sola («Da Totò — ebbe a dire — ho ereditato soltanto bel ricordi: non il titolo, perché non lo sposò, pur potendolo; non averi, proprio perché non ne ere stata la moglie). Franca Faldini si cercò un lavoro: ebbe la sorpresa di vedersi ignorata dal cinema, soprattutto da quel produttori che con Totò avevano fatto la fortuna, e sfruttò allora le altra sue risorse.

Soprattutto una perfetta conoscenza dell'inglese e la capacità di scrivere. Divenne cosi traduttrice e giornalista. Ha tradotto diversi romanzi (qualche titolo: «Tutto quello che avreste dovuto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere», «L'esibizionista», «Dimmi che mi ami, Junle Moon»: ha lavorato in servizi giornalistici par Radio Montecarlo.

C. G., «Corriere della Sera», 4 aprile 1973


Secondo appuntamento con Totò «principe clown» questa sera sul Secondo. Va in onda un film realizzato nel 1949 da Carlo Ludovico Bragaglia, Totò le Mokò. Il gusto della parodia e l’umorismo paradossale contribuirono a. decretare il successo di questa pellicola "della quale sono interpreti anelli Carlo Ninchi, Franca Marzi. Gianna Maria Canale e Carla Calò. Titolo e ambientazione si riferiscono al famoso Pepe le Mokò, capolavoro di Duvivier con Jean Gabin protagonista.

Il famigerato capobanda che ha il quartiere generale nella casbah viene creduto da tutti ucciso in un conflitto con la polizia. La successione è offerta ad un suo parente, Totò, suonatore ambulante napoletano. Totò sognava appunto di poter dirigere una «banda», ma Intendendo un complesso musicale. Giunto ad Algeri, vuole dirigere un concerto nel migliore albergo, ma la polizia lo costringe a fuggire. Totò, spaventato, si rovescia in testa una lozione miracolosa. che lo rende coraggiosissimo. Diventa così l’idolo della casbah, ma, per piacere alla fanciulla amata, dovrà battersi all'ultimo sangue. Un’amante gelosa gli taglia i capelli durante la notte, togliendogli cosi tutta l'audacia. Nel vedersi, però, di fronte il vero pcpé le Mokò riacquista l'ardire, elimina il bandito e sgomina la sua gang. Intascati i denari della taglia, torna a Napoli dove potrà dirigere finalmente una vera banda musicale.

Sul Nazionale, la terza puntata di Facce dell'Asia che cambia, l'inchiesta di Carlo Lizzani e Furio Colombo, è dedicata all'India. Il servizio affronta il problema del precario equilibrio del grande Paese, analizzando i sistemi con i quali, secondo gli indiani, potrebbe venire risolta la situazione politica e sociale. Vengono esaminate inoltre lo questioni relative alla tradizione religiosa, alla struttura sociale per caste, al gigantismo artificioso delle città.

«Corriere della Sera», 4 aprile 1973


Prosegue questa sera sul secondo il ciclo dedicato a Totò principe clown con Yvonne la nuit, diretto nel 1949 dal produttore-regista napoletano Giuseppe Amato. Il film, destinato a rimanere uno dei vari impegni di Totò in un personaggio serio, in una storia dal connotati realistici, è interessante anche per l’abile ricostruzione dell'atmosfera del caffè-concerto. Assieme a Totò sono Olga Villi, Frank Latimore, Gino Cervi, Eduardo De Filippo e Arnoldo Foà. La vicenda si svolge alla vigilia della prima guerra mondiale.

Yvonne la Nuit è una canzonettista affascinante e applaudita. corteggiata dagli ufficiali dei Lancieri di Novara di stanca a Roma. Yvonne ama, ricambiata, il tenente Rutelli, ma il conte Rutelli, padre del giovane, è contrario alla relazione. Quando scoppia la guerra. Yvonne resta sola: l’ufficiale dal quale la ragazza aspetta un figlio, parte per il fronte. Di Yvonne è innamorato anche Nino (Totò), suo collega nel varietà Quando il bambino viene alla luce, alla madre viene fatto credere che è nato morto; intanto giunge notizia che Rutelli è caduto.

Con il dopoguerra comincia la decadenza professionale di Yvonne e di Nino, clic finiscono in locali di terz’ordine, regolarmente fischiati da un pubblico molto diverso da quello che 11 aveva applauditi. Dopo vent'annl, Yvonne apprende che il figlio è vivo: il vecchio conte glielo aveva sottratto con un raggiro. La brillante canzonettista di un tempo, che si considera ormai una donna finita, preferisce però non prendere, contatto con il figlio e lascia cadere le nuove possibilità che le si offrono. Continuerà a cantare nelle trattorie, in compagnia di Nino con il quale divide le amarezze della vecchiaia.

Sul Nazionale, al posto dell’inchiesta sull’Asia verrà trasmesso uno « special » sul pittore Pablo Picasso, su cui si riferisce in questa stessa pagina.

«La Stampa», 11 aprile 1973


Ieri, Totò sentimentale in Yvonne la nuit (1949) di Giuseppe Amato. La tv ha fatto bene a includere questo film nella rassegna di Totò quantunque, in sé, valga assai poco. Il nome di Amato è conosciuto quasi esclusivamente come produttore: ha sulla coscienza, è vero, il primo «Don Camillo», ma ha anche dato i quattrini per «Umberto D» di De Sica, opera che vent'anni or sono per la sua amarezza e il suo coraggio risultò estremamente sgradita a certi governanti. Come regista Amato ha del mestiere, ma è corrivo.

Questa Yvonne la nuit è una pellicola d'un pateticume insopportabile. La vicenda attinge a piene mani, diremmo sfacciatamente, dal repertorio più logoro del feuilleton e narra di una sciantosa amante di un ufflcialetto il quale muore nella prima guerra mondiale lasciandole un figlio; ma il bambino le viene portato via e dopo poco le comunicano che è spirato; la povera donna non regge a tanto strazio, affonda, decade, sparisce dal giro, scende sempre più giù, si riduce a cantare per le bettole e a chiedere l'elemosina. Sbiancata, devastata, rifinita dalle umiliazioni e dagli stenti, l'infelice apprende, molti anni più tardi, che il figlio è vivo; ma non gli rivelerà — giammai! — che sua madre è una vecchia ciabattona catarrosa e preferirà, reprimendo i singhiozzi, guardarlo da lontano e restare a soffrire nella miseria e nell'ombra.

Ma che c'entra Totò con questa storia incredibile'? Appunto. Qui sta l'interesse del film. E' la prima volta che un regista e produttore ha pensato a lui non soltanto come al comico irresistibile per mimica, battutine e lazzi, ma anche all'attore «serio» che sa inserirsi in un contesto non farsesco. Protagonista assoluta di Yvonne la nuit è Olga Villi, allora lanciatissima nella prosa (era reduce da «Il corvo» di Gozzi Strehler e s'apprestava a cimentarsi, con grande successo, in una serie di commedie brillanti, da Shaw a Testoni, e ad affrontare poi, egualmente con ottimo esito, De Musset de «I capricci di Marianna» ed Anderson di «Tè e simpatia»). In cinema la Villi non ebbe la stessa fortuna: in Yvonne la nuit è avvenente ma convenzionale e le sue successive interpretazioni non saranno migliori: bisognerà arrivare al 1966, cioè all'eccellente caratterizzazione della contegnosa (ma non del tutto virtuosa) dama di provincia in «Signore e signori» di Germi. Quindi il film è impostato sulla Villi. Totò ha un ruolo importante, ma di fianco: è il suo compagno d'arte, che naturalmente l'ha sempre adorata in silenzio, e che fedele più di un can barbone la segue in povertà e decadenza. Che dire? In Amato c'è stata l'intuizione che da Totò si poteva cavare ben più che dei lazzi esilaranti: ma non ha saputo sfruttarlo in questa direzione causa la modestia del film e l'inconsistenza del personaggio che non va oltre la macchietta grottesco-lacrimosa.

Totò ce la mette tutta, ma è chiaro, specie nella seconda parte e nel deplorevole finale, che non sa come comportarsi. Dove appare a suo agio è quando il film con una rievocazione abbastanza azzeccata del caffè-concerto gli permette di essere il Totò da rivista e da palcoscenico e di esibirsi nei suoi numeri di straordinario fantasista. Ma il Totò «serio» non era venuto fuori. Sarebbe stato necessario attendere cinque anni: nel 1954 Rossellini l'avrebbe usato molto bene quale «attore» in «Dov'è la libertà». film sottovalutato, poco noto e purtroppo non incluso nella rassegna.

«La Stampa», 12 aprile 1973


Vittorio Paliotti: «Totò, il principe del sorriso», Ed. Fiorentino, pag. 210, lire 1500.

Racconta Marcello Marchesi, sceneggiatore di Totò Le Mokò che durante il lavoro attorno al soggetto propose al suo collaboratore Metz di inserire, fra una trovata e l'altra, qualche intermezzo poetico. Ed ebbe questa indicativa risposta: « Totò non ha bisogno di autori, ha bisogno di complici ». I film nascevano in assoluta parsimonia di idee ed erano girati di corsa, senza sprecare un metro di pellicola. Mario Mattoli, regista ricorrente di queste gare produttive, ricorda ancora oggi con soddisfazione il record di tre settimane raggiunto per confezionare Totò sceicco. La resipiscenza critica di oggi, affettuosamente volta al recupero del grande comico napoletano, sembra infastidita da queste denunce di scarsa serietà professionale. Si rimpiange che Totò non abbia trovato sulla sua via autori di grande ingegno, che la sua maschera irripetibile sia stata costretta ai lazzi di una produzione «minore». C'è in questo sussiego critico un misto di buona fede e di mistificazione, come di chi volesse salvare un attore senza i film che ha interpretato.

1973 04 20 La Stampa Toto Libro Il Principe del sorriso f1

Si sa che i buoni esempi di Totò sono stati pochi; e si sentono citare indifferentemente Pasolini (Uccellacci e uccellini) e Monicelli (Guardie e ladri). Ora è chiaro che anche all'interno di queste opere, apparentemente «maggiori», bisogna procedere con grande cautela, se si vuol tenere fede al personaggio. Lasciamo da parte Pasolini, che usò l'attore per una «poesia» dubbiosa e incompiuta; ma onestamente non si può credere che il miglior Totò sia nei film di Monicelli, nel patetico sbavato di Guardie e ladri, che la tv ha giustamente eliminato dalla retrospettiva in corso sul video. Bisogna riconoscere che autore dei film di Totò era lo stesso interprete, e che il personaggio amato dal pubblico e sospettato dalla critica si formò nella produzione di routine. La comicità di Totò è icastica e ripetitiva, ha bisogno solo di pretesti narrativi intorno ai quali intreccia i lazzi e le smorfie di una tradizione popolare, fondata sull'abitudine alla povertà e allo sberleffo indulgente verso i potenti. Il comico non ha bisogno delle trame sofisticate della commedia o degli appoggi della metafora: la sua evasione dal banale si attua con la presenza irridente, nel contrasto tra le costrizioni esteriori e l'indipendenza dell'osservatore. Nei film Totò è sempre fortemente saldato al suo retroterra napoletano: la parabola comincia e finisce in una posizione non privilegiata, nelle vesti del «pazzariello » o del sottoccupato. In questo senso l'unico film d'autore in cui l'interprete entrò senza fatica fu Napoli milionaria di Eduardo De Filippo. Per il resto, tutto era affidato ai suoi estri e alla sua capacità di sintonizzarsi col pubblico meno sospettoso.

Quando uscì Toto sceicco il pittore De Chirico, interrogato sui propri gusti cinematografici, lo indicò come uno dei migliori film che avesse mai visto. La battuta, riletta oggi, non è poi tanto paradossale, ed indica quali erano le doti autentiche del comico napoletano. Il libro di Paliotti non vuol essere un contributo critico (per il quale si può leggere con profitto il saggio recente di Goffredo Fofi) ma soltanto una affettuosa biografia, che segue con note e informazioni puntuali la carriera dell'attore. Paliotti ripete con fedeltà anche i luoghi comuni e i rimorsi critici che toccarono l'attività cinematografica di Totò, legata al grande successo delle « totoate » anche quando l'attore avrebbe potuto permettersi, si diceva, una scelta oculata dei copioni. Il merito del libro sta soprattutto nella rievocazione degli inizi, nel quadro napoletano che disegna intorno alle prime prove dell'attore. Totò aveva iniziato le sue esperienze di palcoscenico come imitatore di Gustave De Marco, popolare macchiettista partenopeo, noto per le risorse comiche del suo contorsionismo. Studiando le mosse davanti allo specchio il giovane allievo mise a punto una tecnica che gli sarebbe poi servita, insieme con la faccia incavata e il mento sbandato, a rivestire di un assurdo senza complicazioni le sue trovate comiche. C'è un'altra dote gentile nel libro di Paliotti: l'aver posto in rilievo la ricchezza umana di Totò, le sue debolezze e le sue fantasie, la fatica con cui sempre condì il lavoro di attore.

Stefano Reggiani, «La Stampa», 20 aprile 1973


Caro Totò, dai e dai, anche per lui la tv è riuscita ad azzeccare il film giusto. Sino ad ora non erano sfilati che cascami. «I due orfanelli», «Totò le Mokò», «Totò sceicco»... sbrindelli di rivista, e non proprio della migliore, trasferiti sullo schermo e ricuciti alla meglio, frettolosamente... gualche risatina... il più delle volte si stava li, in paziente attesa di un'occasione di ilarità che tardava a venire... Oppure abbiamo visto «Yvonne la nuit», fumettone lacrimoso dove Totò c'entrava come i cavoli a merenda... Ma questa settimana, finalmente, è stata riesumata una pellicola che, senz'essere un capolavoro, è garbata e intelligente, persino con una punta di satira: Totò e Carolina di Mario Monicelli.

Andiamo a guardare chi è il soggettista: Ennio Flajano. In un'epoca (1955) in cui il poliziotto, ancora più di adesso, diremmo, si ergeva a grande distanza dal cittadino, autoritario simbolo del potere statale, provvisto di casco e di sfollagente, solo ad un tipo ironico e amaro come Flajano poteva venire in mente di offrire un'immagine di agente di P. S. bonario e pasticcione, strampalato e sgangherato, alle prese, tra le quattro pareti domestiche, con un figlioletto dalle calze a pezzi e con un vecchio padre rimbambito, una volta accuditi dalla moglie ora defunta... E' poco più di un morto di fame che sogna un piccolo aumento di stipendio e che sente un'immediata solidarietà per una ragazza che appartiene alla sua stessa categoria, la categoria dei poveri e dei diseredati che tirano la carretta faticosamente... Quando si trova in difficoltà grida «Compagni!» invocando il soccorso di alcuni socialisti (allora il socialista era l'unico rappresentante delle sinistre che poteva essere nominato: i comunisti noti dovevano esistere); e quando la jeep che pilota viene tamponata da un camion scende imbestialito, ma trovandosi al cospetto di un reverendo s'inchina sino a terra...

1973 05 05 La Stampa Ciclo film Toto TV f1

Anche se poi, a conti fatti, «Totò e Carolina» è una casetta, si capisce come vent'anni fa la censura si sia inquietata e abbia messo i suoi bravi bastoni tra le ruote del film, probabilmente tagliato, certo ostacolato e osteggiato. Perché abbiamo detto, all'inizio, «caro Totò»? Ma perché abbiamo di Totò, collocato in quel periodo (grosso modo tra il '50 e il '60), un ricordo particolarmente affettuoso. Il periodo era — come dire? — tutto severo, tutto serioso, tutto conformista, tutto teso all'edificazione morale. Rammentiamo (ed è bene rammentarlo perché troppa gente se l'è dimenticato) che venivano tolti dalle vetrine di una galleria d'arte i nudi di Modigliani; che sui giornali era proibita la parola amante: che non si poteva rappresentare «La Mandragola» di Machiavelli; che si coprivano con striscioline di carta le gambe della ballerina in tutù effigiata sul manifesto di «Scarpette rosse»; che la televisione nasceva in un clima di limitazioni, di imposizioni, di riguardi e di paure (dove l'innocente espressione «scherzo da prete» scappata al concorrente di un quiz suscitava orrore e scandalo).., ma dovremmo continuare per un pezzo, occupare parecchie Una statua e una "via Totò" colonne, forse un intero volume...

Bene, in quel periodo Totò era, sia pure modestamente e negli angusti confini tollerati dalla censura e comunque scrupolosamente rispettati dai produttori, un emblema di apertura burlesca, di verve sornionamente ammiccante, di sghignazzata (o pernacchia, se del caso) lietamente irriverente, come sana e spontanea e popolaresca reazione a troppa austerità. In «Totò e Carolina» abbiamo ritrovato, a tratti, questo spirito e l'abbiamo apprezzato. E per continuare il discorso della comicità cinematografica in tv, annotiamo che al sabato c'è un'antologia di vecchie farse (l'altra settimana Cretinetti, stasera Robinet): tutte cose girate negli stabilimenti di Torino (e per le vie di una mitica, incredibile Torino deamicisiana e gozzaniana). La rassegna ci sembra molto interessante e gradevole. Ma di regola incontri quelli che ti dicono in tono risentito: «Io non sono riuscito a ridere veramente...». Bella scoperta: è come se uno pretendesse di singhiozzare a «Cenere» conia Duse o a «La falena» con Lyda Borelli. Sono documenti preziosi di un gusto o di un'epoca in cui si colgono senza difficoltà le matrici dell'arte comica che verrà dopo: e da cui non è raro tirare fuori momenti di autentico divertimento. E poi. perché protestare? Chi non è soddisfatto dell'umorismo del cinema muto non ha che da toccare un pulsante e passare sul «nazionale»: qui cadrà fra le braccia di Bramieri e sarà avvolto dall'umorismo che cercava, fragoroso e ben imbottito di parole.

Ugo Buzzolan, «La Stampa», 5 maggio 1973


Mimica alla Tv

Come sordomuta, spero mi concederete ospitalità, dopo averla concessa ad altri forse meno competenti ed Interessati, per dirla sulle trasmissioni tv per sordi. Incominciamo con l’impareggiabile Totò che ha mimica sufficiente anche per il più sprovvisto di udito e di parola, senza dover allestire nuovi costosi inutili programmi. Per un sordomuto, Totò o Keaton sono campioni per invogliare a imparare a leggere velocemente se cl fossero didascalie. Aiuterebbero al gusto dell’ espressione verbale e quindi il pensiero a formularsi in parola. Altro che gesti, roba da analfabeti! Ed è il caso di disturbare la Tv sprecando denaro, per mantenere l'analfabetismo? Si mettano didascalie sulle trasmissioni più allegre, al telefilm o teleglalll più popolari. Ripetano pure, a distanza di tempo, questi programmi: verranno seguiti molto più volentieri dalla maggioranza sorda e no, piuttosto che guardare boccacce e contorsioni di capelluti cantanti antiestetici.

Giuseppina Rossi (Milano) - «Corriere della Sera», 7 maggio 1973


1973 05 13 Grand Hotel

«Grand Hotel», 13 maggio 1973


Andreina Pagnani parla del film di stasera in tv. « Il comandante » aprì una nuova fase nell'arte del grande comico.

Nel film di questa sera in Tv, il Comandante», Andreina Pagnani appare al fianco di Totò nel ruolo importantissimo della moglie. Chiediamo alla celebre attrice un giudizio schietto, se occorre impietoso, su questo lavoro.

R.: Ammetto che il film non è un capolavoro, ma è discreto, senz’altro tra i migliori di questo ciclo televisivo dedicato al comico napoletano. Se non registrò il successo che in sostanza meritava, fu perché De Curtis abbandonò, proprio qui, il repertorio clownesco per essere esclusivamente personaggio ed attore. Il grande pubblico, abituato ormai alle famose macchiette, non apprezzò appieno questa specie di metamorfosi.

D.: Secondo lei, il cambiamento del principe clown fu provvidenziale?

R.: Certamente. Totò era un attore versatile e sensibile; perché dunque esaurirsi in smorfie e sgambetti? La misura delle sue capacità si vede bene stasera in questo film diretto con buona mano da una giovane promessa di allora. Paolo Heusch, del quale, purtroppo, non ho più sentito parlare.

D.: Che cosa pensa di Totò uomo?

R.: Era un autentico signore, amabile, delicato, molto spiritoso.

1973 05 16 Corriere della Sera Ciclo Film Il comandante f1La moglie terribile. Nel film di questa sera, « Il Comandante», Andreina Pagnani, che il grosso pubblico ricorda soprattutto come la dolce e mite «signora Maigret» accanto a Gino Cervi, interpreta il personaggio di una moglie energica e impegnata nel campo degli affari, che aiuta il marito pensionato e provvede a sistemare l pasticci combinati da Totò.

D.: Che cosa ricorda, in particolare, di questa sua rara prestazione cinematografica?

R.: Ricordo che mi presi un mezzo esaurimento nervoso. Totò, ammalato agli occhi, doveva curarsi di continuo: il film andò così avanti a pezzi e bocconi e «sforò» di parecchi giorni. Mi venivano a prendere la mattina alle quattro per girare gli esterni e poi il pomeriggio e la sera provavo « Virginia Woolf » con Zeffirelli. Poi non ressi più e dovetti abbandonare quell'importante lavoro teatrale al quale tenevo tanto!

D.: Dovette cosi rinunciare a una bella esperienza teatrale per concludere la fase più commerciale della sua carriera?

R.: In fondo è cosi. Se per Totò « Il Comandante » rappresentò un riscatto artistico (e lo fu), per me fu un fatto, come dice lei, commerciale.

D.: Si trovò a suo agio in una parte comica, in mezzo a tutti comici?

R.: Mi trovai a meraviglia. Perché io sono principalmente un'attrice comica, genere recitativo che prediligo e che, come saprà, è anche il più difficile.

D.: In teatro, sul video e, più raramente, sullo schermo, lei appare dolce e remissiva. Senonché parlando con lei da vicino si ha tutt’altra impressione: quella di trattare con una donna dura, freddamente realistica, decisa.

R.: Ha indovinato. Io sono una leonessa, autoritaria e guardinga (altro che la signora Maigret!). Altrimenti, come avrei potuto fare tutto da sola nella vita?

D.: Romana genuina, qual è, in lei, il carattere dominante di questa razza?

R.: Il parlare franco, dire senza mezzi termini il mio pensiero. Odio il sotterfugio e spesso, nel discorrere, sono capace di commettere cattiverie senza volerlo.

D: Lei vive sola, non ha parenti, è arroccata — si direbbe — in una silenziosa serenità. Conosce la malinconia?

R.: Qualche volta la incontro. Però mi trovo bene cosi. Questa è sempre stata la mia vita: essere autosufficiente in tutte le cose.

Antonio Sangiorgi, «Corriere della Sera», 16 maggio 1973


Il ciclo dedicato al comico si è chiuso con ”Uccellacci e uccellini” - Stasera ”L’ospite” di Liliana Cavani e il ”Rischiatutto”

Ci siamo via via resi conto che il ciclo dedicato a Totò — che si è concluso ieri con il singolare, affascinante, irritante, e discutibilissimo Uccellacci e uccellini di Pasolini — ha avuto un gran pubblico (in ciò favorito da una concorrenza non irresistibile sul «nazionale») ha suscitato reazioni contrastanti.

Si è potuto ad esemplo constatare che film come I due orfanelli, con cui si è aperta la rassegna, Totò le Moko, Totò sceicco, i quali, rispettivamente nel 1947, nel 1949 e nel 1950, avevano ottenuto un grosso successo di cassetta, sono stati accolti con estrema freddezza dalla platea giovane di oggi. Personalmente abbiamo visto ragazzi di diciotto o vent'anni che seguivano I due orfanelli sconcertati, annoiati, perplessi e che poi hanno chiesto: « Ma questa roba, allora, piaceva veramente? E Totò faceva veramente ridere?». Qualche accenno di ilarità per Totò sceicco grazie ad un paio di trovatine di umorismo (modestamente) surreale, ma, ripetiamo, il giudizio è stato negativo al cento per cento. Sull’altra sponda stavano spettatori che chiameremo meno giovani, i quali affermavano: « I fllm valgono quel che valgono... ma Totò è grande, riesce a mostrare la forza della sua burattinesca comicità anche in farse girate in due settimane... tutti i comici che sono venuti dopo di lui in Italia gli devono qualcosa! ».

Lasciando stare Yvonne la nuit, un polpettone lacrimoso che è piaciuto solo ai cultori dei fumetti sentimentali, dobbiamo dire che in fondo l'unica opera che ha messo d’accordo tutti è stata Totò e Carolina di Monicelli con Totò che faceva un agente di p. s. molto bonario, pasticcione e « povero diavolo ». Ma già I due marescialli è stato definito un « assurdo » dal pubblico dei giovani in quanto, a tratti, tentava di inserire l’attore in un contesto serio e drammatico come quello dell’occupazione nazista. E il dissidio si è rinnovato per Il comandante della scorsa settimana: c’era chi lodava l’impegno di Totò nei panni non farseschi di un generale a riposo, e chi — sempre appartenente alla platea « nuova » — lo riteneva sforzato e stonato e in più vedeva il fllm, a suo tempo abbastanza apprezzato, un'occasione sprecata male.

Quali saranno state le opinioni per Uccellacci e uccellini di ieri, una delle ultimissime (1966), e più considerate dalla critica, interpretazioni di Totò? Probabilmente avrà convinto gli uni e gli altri ma non avrà modificato il parere, che ci è sembrato diffuso tra gli spettatori più attenti del ciclo (incompleto come tutti i cicli, ma sufficientemente indicativo) che S. A. R. il principe Antonio De Curtls Gagliardi Ducas Comneno di Bisanzio — cosi Totò si vantava di chiamarsi nella realtà, e ci teneva molto — avesse delle indubbie, straordinarie doti di attore comico e di mimo, ma che, salvo poche eccezioni, per avidità di guadagno e noncuranza di altri o per avidità di guadagno e noncuranza sua, si sia buttato via in una quantità di sgangherati filmetti.

«La Stampa», 24 maggio 1973


”Fermo con le mani” un film del 1937. Questa sera l'ultima puntata di "Esp”

Gli appassionati di canzoni hanno avuto il loro banchetto, ieri sera, con un canale nazionale tutto occupato dalla finalissima di Un disco per l'estate, ripresa in diretta da Saint-Vincent. E gli altri? Gli altri non possono lamentarsi perché sul « secondo » l'alternativa era più che buona.

Come ridevano gli italiani, a cura di Gianfranco Angelucci con la consulenza di Giulio Cesare Castello, si sta rivelando una rubrica piena di sorprese e di interesse, e di divertimento. Il suo merito è semplice: una scelta di pellicole, a cominciare dalle comiche del muto, che soddisfa la fettina esigua di platea esigente e cinematograficamente colta, e, insieme, è in grado di incuriosire e sollazzare la massa che tali pellicole ricorda assai confusamente o che non ha mai visto per ragioni di età.

Ieri per esempio è stato recuperato un film eccezionale: Fermo con le mani, il primo film interpretato da Totò.

Come sempre, c’è stata una introduzione, ma queste introduzioni — tolta forse quella affidata a Gigi Proietti, — sono veramente la parte debole della rubrica. Vittorio Caprioli, amabile e simpatico attore, ci ha letto delle poesie scritte da Totò e ne ha esaltato genericamente la bravura rispolverando il solito « gustoso » aneddoto: ma non ci ha detto una parola, una sola, su chi era e cosa faceva l'attore in quel periodo (1937)... Perciò il pubblico non è stato minimamente informato dell'attività di palcoscenico di Totò, della sua importanza nel teatro di rivista di allora, del trasferimento delle sue doti di attore « teatrale » sullo schermo. Cosi come non è stata detta una parola di come era stato accolto Fermo con le mani dalla critica e dalla gente. Le introduzioni devono servire a qualcosa, cioè a spiegare, a inquadrare, a chiarire... non devono servire, in quanto assurdo, all’esibizione, sia pure garbata, di un attore che non c’entra niente con la pellicola che sta per andare in onda.

Ma torniamo a Fermo con le mani. Il film vale poco più di niente, lo firma Gero Zambuto, un caratterista che di quando in quando, molto raramente, si metteva anche dietro la macchina da presa, agli ordini della produzione. Quel che è straordinario è vedere Totò all’esordio in cinema.

Nel 1937 Totò ha trentanove anni e ha dietro di sé, come si diceva, un’esperienza di scena intensa e avventurosa. Ma di cinema non sa nulla. Eppure davanti all'operatore si muove con la stessa burattinesca disinvoltura con cui recitava quindici o vent’anni più tardi. Sembra un giovane, è smilzo, col naso affilato, i capelli lucidi di brillantina. All’inizio, quando si sveglia nella casa in demolizione e viene fuori da sotto il materasso ha atteggiamenti — profilo tagliente, bazza, mimica tra l'assorto e il faceto — che rammenta Petrolini.

Più avanti, nelle sue corse per i vicoli — calzoni corti agli stinchi, braccia a mo’ di ali quasi fosse un uccellaccio spaventato — riprende mosse tipiche del comici del muto. In altre scene (famoso allora, per la sua audacia, il massaggio alla cocotte d’alto bordo che si suppone completamente nuda) sfodera le risorse di smorfie, strabuzzamene d’occhi, frasi monche e gorgoglii che lo accompagneranno poi — più o meno — lungo i suoi cento film.

Un recupero prezioso, tanto più che è appena terminato il ciclo su Totò... Spettacolo che ha permesso di rivedere altre singolari figure dell'epoca, il noto caratterista Franco Coop, e Tina Pica non ancora baritonale, e la bimba Miranda Bonansea che dava la voce a Shlrley Temple e che da Shlrley Tempie compare puntualmente truccata, con la vesticciola, le mielate moine e la testa adorna di boccoli e di riccioli.

«La Stampa», 17 giugno 1973


Sedici milioni di spettatori hanno assistito nello scorso mese d'aprile a ciascun film del ciclo dedicato a Totò, ossia a Totò le Mokò (che è stato il più gradito), a Totò sceicco e a Yvonne la nuit: una media molto elevata che ancora una volta fa riflettere sulla quantità enorme di gente cui arriva una pellicola, attraverso il video, in una sola serata. D'altra parte non dobbiamo dimenticare che il cinema continua ad essere, da anni, il genere più apprezzato e seguito. Non esiste un altro programma che induca così perentoriamente la massa a restarsene a casa davanti al televisore.

Le cifre parlano chiaro: secondo il Servizio Opinioni, sempre in aprile, un altro film, La tua pelle brucia, ha fatto registrare l'indice di ascolto massimo, oltre 22 milioni, e ha battuto la stessa rivista del sabato Hai visto mai? (21 milioni e rotti) e addirittura il Rischiatutto (20 milioni e passa) [...] manca per un numero particolarmente importante di Quel giorno, che parlava delle elezioni del 1948; manca per uno spettacolo sperimentale, interessante e «difficile» come Moby Dick; e infine manca — mentre ci viene fornito, per esempio, il «gradimento» (82, il più elevato del mese) assegnato alla processione del Venerdì Santo a Roma — manca, ripetiamo, l'indice riguardante un programma del calibro e della delicatezza de La parola ai giudici che, pur essendo collocato a tarda ora, ha fatto registrare una media di quasi quattro milioni e mezzo di spettatori. Perché «buchi» simili? A cosa sono dovuti? Contemporaneamente lamentiamo che i dati del Servizio Opinioni si riferiscano in modo esclusivo alla tv. Nel mese d'aprile non ha funzionato anche la radio?

Ugo Buzzolan, «La Stampa», 5 agosto 1973


1973 10 06 CDS Toto caporali intro

In una lettera, «i gradi di caporale», il guardiano di un ospedale è tacciato di rigida osservanza di sapore borbonico perché è stato ligio ai regolamenti. Non ritengo che sia di buon gusto mettere alla ribalta i «gloriosi gradi di caporale». Troppo spesso, forse per una battuta infelice dei comico Totò, si ridicolizzano le funzioni del caporale, dimenticando che detto grado è la base costruttiva delle forze armate. Io, da parte mia, posso, per diretta conoscenza, senza tema di smentita, dimostrare quanto hanno saputo distinguersi i caporali nei momenti delicati sia in guerra che in pace.

Ten. col. Pietro Ruggia (Milano) - «Corriere della Sera», 6 ottobre 1973


Roma, 14

Un ciclo televisivo dedicato a Totò, con la rievocazione di Eduardo De Filippo, Vittorio Gassman, Pier Paolo Pasolini, Mario Monicelli e altri attori e registi, sarà trasmesso in cinque puntate nella rubrica TV «Sapere» e andrà in onda ogni giorno da martedì 25 a sabato 29 dicembre alle 18.45 sul programma nazionale. La trasmissione, sarà presentata da Achille Millo. Totò sarà ricordato attraverso brani di film, tra i quali «Totò cerca casa», «L’imperatore di Capri», «Arrangiatevi», «Dov’è la libertà», «Animali pazzi», «Totò il buono», «Guardie e ladri», «I soliti ignoti», «Napoli milionaria», «San Giovanni Decollato», «Uccellacci e uccellini», e testimonianze di molti registi e attori. Saranno anche intervistate alcune attrici che hanno lavorato con il grande comico napoletano, come Isa Barzizza, Franca Marzi e Cieli Fiamma.

«Il Piccolo di Trieste», 15 dicembre 1973


1973 12 27 La Stampa Toto TV intro

[...] Eduardo De Filippo, impegnato con Franco Zeffirelli in una ghiotta conversazione, non solo culturale, su Pulcinella ieri e oggi. La dottrina teatrale di Eduardo ha reso attraente la storia della maschera napoletana, dalle origini alla commedia dell'arte. Il piacevole excursus è stato anche un doveroso omaggio ai grandi Pulcinella del passato, da Cammarano ad Antonio Petito, il maggiore di tutti, mentre opportuni inserti hanno consentito di ritrovare sia il Pulcinella di Petrolini sia l'altro di Totò. Eduardo ha conversato e recitato da maestro: la sequenza in cui, senza soluzione di continuità, è passato dal pianto al riso, dalla paura allo sdegno, dalla spavalderia alla tenerezza, è da antologia.

Ancora Totò: il comico illustre è rievocato sul Nazionale in queste sere (purtroppo non in un'ora delle più felici: le 18,45) in una trasmissione della rubrica « Sapere », intitolata « Perché Totò ». Insieme con un variegato ritratto dell'attore, essa dà una sorta di carrellata storica sull'ambiente teatrale partenopeo, dal quale Totò uscì per acquistare fama nazionale. Achille Millo è il bravo narratore-commentatore, al quale si alternano, evocando ricordi personali, attori e attrici che con il principe De Curtis percorsero la passerella del teatro di rivista dov'egli signoreggiò. Il suo cinema avrà risalto più avanti. [...]

vice, «La Stampa», 27 dicembre 1973


Altri artisti ed altri temi

Milano, 27 febbraio. E' morto questa notte all'ospedale Policlinico di Milano per un'emorragia cerebrale Nuto Navarrini. Aveva 72 anni: aveva esordito a 16, come attore di operetta nella compagnia « Lombardo » ed era divenuto uno degli attori italiani più conosciuti in questo genere teatrale. Con il declinare dell'operetta, si era dato alla commedia musicale continuando a lavorare in generi vari. Compromesso col fascismo, nel dopoguerra conobbe il declino.

Il nome di Nuto Navarrini è legato al periodo d'oro del teatro di rivista e d'operetta. Figlio d'arte, di Zenobio ed Elena Mattioli, lo troviamo fin da ragazzo in spettacoli di beneficenza per combattenti feriti e ricoverati a Milano. Il suo esordio coincide con la fine della guerra: la Compagnia di operette Città di Milano diretta da Carlo Lombardo è un'ottima scuola. A vent'anni scopre il teatro di rivista e abbandona definitivamente l'ingenua prospettiva di sfondare come giocatore di calcio (suo figlio, ora professionista nel Novara, ne avvererà invece il sogno.

Brillante, delicato, con una voce querimoniosa inconfondibile, Navarrini diventa uno dei nomi del teatro leggero italiano. Probabilmente nessuno eguaglierà la varietà delle sue inflessioni e delle sue mossette nel Paese dei campanelli. Nel '28 è a fianco della grande Nella Regini in Cavallino bianco: gli anziani ricordano la trionfale prima all'Alfieri di Torino.

A questo punto entra nella sua vita Isa Bluette, una primadonna di rango che lo proietta ai vertici della popolarità. Dall'aprile del '30 alla fine del '39 i successi non si contano, dall'Isola. verde al Ratto delle cubane. Isa Bluette mori il 19 novembre di quell'anno: la sua figura in marmo sorride a chi visita il cimitero di Torino. Nuto Navarrini l'aveva sposata in extremis.

Da allora non fu più lui. Accentuò la sua adesione al fascismo, un giornale dell'epoca riferisce che poteva con ragione vantarsi del distintivo di squadrista. Venne la guerra, tramontò l'operetta. Navarrini faceva allora coppia con Vera Rol. La sposerà e ne divorzierà solo nel '72 per sposare la signora Benigni che gli aveva dato un figlio.

Operette e commedie si susseguivano tristemente ritmate dal suono delle sirene. Navarrini tentò anche come autore l'operetta moderna: Gli allegri cadetti di Riva Fiorita e altri due titoli meno noti. Ma, con le bombe, cadevano le illusioni. Navarrini finì in carcere e sotto processo. Il pubblico non gli perdonò il fascismo spinto de La gazzetta del sorriso. Ma l'attore si difese amabilmente: « C'erano gli ordini dall'alto e anche il teatro leggero doveva fare opera di propaganda ». Con la decadenza del suo genere dovette ringiovanirsi e interpretare parti di galante, a 60*65 anni. Ne sorrideva, lui che da ragazzo era costretto ad invecchiarsi per contendere ai colleghi le parti dì amoroso.

L'ultima vera interpretazione — dopo qualche comparsa in televisione — è della stagione 1970-71. Nel Bastian contrari di Bersezio era il bersaglio dell'ironia dì Macario.

p. per., «Stampa Sera», 27 febbraio 1973


1973 09 27 La Stampa Anna Magnani morte intro

26 settembre 1973 - Tutta la cronaca in rassegna stampa


1973 11 22 La Stampa Carlo Micheluzzi morte intro

Venezia, 21 novembre.

Carlo Micheluzzi, uno del più significativi attori del teatro veneziano, è morto la scorsa notte per un collasso dopo alcuni giorni di malattia. Aveva 87 anni. Erede di una illustre famiglia di attori veneti (che risaliva a Goldoni) era il più vecchio capocomico dialettale italiano.

Nato a Napoli, fu avviato dal padre Francesco agli studi e al impiegò poi a Padova. Debuttò nel 1903 come a generico primario a nella compagnia di Corazza e fino al 1916 fece parte di compagnie in lingua con Mariani, Gandusio, Emma Grammatica e Benini, Nel 1919 diresse con Messetti la compagnia « La serenissima » e l'anno successivo fu a capo di una propria formazione attiva, sotto varie forme, fino al 1957,

Con Giachetti e Baseggio è stato uno dei capocomici che più lavorarono per tenere in vita e far conoscere i capolavori goldoniani e la tradizione del teatro veneto. Fra le sue maggiori interpretazioni Zente rejada, L'Onorevole Compodarsego, Sior Todaro Brontolon, Baruffe chiozzotte, dirette da Renato Simoni e La putta onorata, con la regia di Strehler. Nel 1956 aveva recuperato un'altra commedia goldoniana, L avaro fastoso, mal rappresentata in Italia e da lui ridotta in veneto con la collaborazione di Bertolini. Per il cinema lavorò sporadicamente. Tra i suoi film si ricordano Ore nove, lezione di chimica, Voglio vigere così, Avanti c’è posto, La maestrina, La donna è nobile. Recitò nella compagnia di Baseggio dal '58 al '61. In quell'anno lasciò definitivamente il teatro.

«Stampa Sera», 22 novembre 1973


Galleria di trafiletti, flani promozionali e copertine


NOTE

  • (1) La madre di Totò si chiamava Anna Clemente
  • (2) La moglie di Totò si chiamava Diana Bandini Rogliani
  • (3) In realtà Antonio de Curtis non partecipò al matrimonio della figlia poichè in contrasto con la sua decisione di sposarsi.