Totò temeva di essere presto dimenticato

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Il grande comico, che ora trionfa anche in TV, ci confidò la sua tristezza: non immaginava di essere tanto amato.

Quel piccolo signore triste e malinconico che aveva il nome d'arte di Totò che cosa direbbe oggi se potesse assistere al clamoroso successo dei suoi vecchi film? Un anno fa sembrava l’esplosione d una moda passeggera, ma la moda invece continua e ci sono cinema, in ogni città d'Italia, che vedono triplicati gli incassi quando si proietta una pellicola dove lui rimedia a tutto, anche al più banale e risaputo dei copioni. Ridono i ragazzi che lo scoprono soltanto adesso, gli adulti che tornano a rivederlo, i giovanissimi che non avevano fatto a tempo a capirlo, gli anziani che gli sono grati per le ore di allegria spensierata vissute davanti a uno schermo e, soprattutto, davanti a un palcoscenico.


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Che cosa direbbe Antonio De Curtis Gagliardi Ducas Comneno di Bisanzio, in arte Totò? Sarebbe ancora così amaro e pessimista, così poco fiducioso verso il suo prossimo? Adesso, lo possiamo vedere anche a casa nostra perché la televisione (non è mai troppo tardi) se accorta finalmente della enorme popolarità di questo artista e lo ripropone in un ciclo di otto film che possono almeno dare un’idea della sua arte. Del resto, una selezione era difficile se si pensa che il comico napoletano ha girato 114 film, il settanta per cento dei quali stanno ancora in piedi unicamente per la sua presenza, per le sue trovate, per le sue battute improvvisate, per quelle geniali intuizioni da uomo della strada, che potevano fare benissimo a meno dei registi e delle sceneggiature.

Certamente, il principe Totò, se oggi fosse ancora fra noi, dovrebbe ammettere che si era sbagliato, dovrebbe ammettere che il pubblico l’amava davvero, almeno in quanto attore comico. E, tanto per non contraddire al detto che nessuno è profeta in patria, lo amava e lo ama con particolare calore forse non tanto nella sua città, quanto da Palermo a Bolzano, ovunque vi sia una sala cinematografica.

Ricordiamo l’ultimo incontro con Totò, a Roma, qualche tempo prima della sua improvvisa scomparsa, avvenuta nell’aprile del 1967. Un incontro accettato forse di malavoglia, perché il principe non desiderava farsi vedere invecchiato, non voleva svelare che l’uomo dalla comicità irrefrenabile era in realtà un invalido quasi cieco, stanco, al tramonto. Occhiali neri difendevano le sue pupille, come sempre era di una eleganza raffinata, all’antica: camicia di seta, abito dal taglio classico e perfetto. Teneva moltissimo alle sue origini nobili, le aveva faticosamente rivendicate.

« Figliuolo mio », diceva calcando quella u con la sua voce bassa, « tutto finisce e non torna più. Io ho fatto molta gavetta, almeno fino a quarant'anni, poi i produttori cinematografici mi hanno sommerso di proposte, un film dopo l'altro, pochissimi buoni, moltissimi che mi fanno pena... Gesù, voi direte, e perché li avete fatti? Eh, perché, perché. Si può voltare le spalle alla fortuna, si può lottare continuamente per convincere che potrei fare di più, di meglio? Se ne è accorto soltanto Pasolini; forse anche Eduardo De Filippo... Ma è tardi, è tardi ».

Come riconoscere in quel signore ricco, distinto, scettico, il comico Totò? Eppure era lì davanti a noi, con quel suo celebre mento a sghimbescio, i radi capelli oramai tutti grigi tirati a lucido. Ma non rideva. « Figliuolo, che cosa resterà? Ho divertito almeno due generazioni, ma poi ne viene un altro di comico, ne vengono dieci altri e buonanotte suonatori. No, no, non resta niente o quasi. »

Con sincerità, tentavamo di contraddirlo. Non era forse lui il re dei comici, per stessa ammissione dei colleghi? Fabrizi, Taranto, Macario, Peppino De Filippo, De Sica, erano onorati di lavorare con lui, accettavano perfino di fargli da spalla di lusso. Ma tutto questo non poteva bastare a Totò. Egli sentiva chiaramente di essere vicino al bilancio e guardava con tristezza alle sue farse cinematografiche - le stesse che oggi continuano a divertire tutti - realizzate a tempo di record per soddisfare il mercato, per mantenere vivo un mito, e pensava al suo sogno perduto: dare vita a una grande compagnia comica di prosa che avrebbe potuto rinverdire i fasti di un Angelo Musco e di un Petrolini.

Diceva tutte queste cose scuotendo il capo. Ma ogni tanto ripeteva: « Non ci fate caso, oggi è una giornata nera, domani passerà, posso ancora lavorare, non sono poi così decrepito. E poi ho un cuore da bersagliere ». Temeva tutte le malattie di questa terra, si preparava alla cecità, ma era sicuro che il cuore non l'avrebbe tradito. Il destino doveva invece beffarlo, trovando impreparati anche i medici: in una notte d'aprile proprio il suo cuore si fermava, risparmiandogli forse un declino tristissimo, con troppo buio intorno a lui.

Pochi degli spettatori di oggi (intere famiglie che raggiungono anche i cinema di periferia per non perdere l'appuntamento con i suoi film) sanno che quell'omino capace di assumere le sembianze d'un clown irresistibile era nella vita privata un uomo solitario, schivo e raramente allegro. Un uomo che amava la poesia, che scriveva versi patetici e addirittura disperati, che temeva le correnti d’aria, che si sentiva addosso malori e disturbi di ogni genere. Doveva lavorare per distrarsi, per sentirsi vivo. Ed era il teatro il suo grande, vero amore. Fra soubrettes e ballerine, fra odori di cipria e di cerone, il « bersagliere » instancabile dei famosi finalissimi della rivista, era davvero inimitabile, insostituibile.

Ogni sera una trovata diversa, ogni sera qualche battuta improvvisata nel colloquio con il pubblico. Dette da altri, le stesse battute sarebbero scivolate via senza mordere.
Ma lui le diceva in altro modo. E così i « chicche e sia », gli « enziandio », le « quisquiglie » e le « pinzillacchere », centravano il bersaglio al momento opportuno. Come i caratteristici detti « Sono un uomo di mondo, ho fatto tre anni di militare a Cuneo », i giochi di parole, « Lei è l'onorevole Trombetta e sua sorella ha sposato un Bocca, quindi Trombetta in Bocca »; « Si convinca, le assicuro che lei è scemo »; il tutto condito da « A prescindere », « Tampoco », « È ovvio », in una girandola martellante da burattino mosso con fili invisibili.

Il segreto della sua comicità ancora così viva? « Non lo conosco nemmeno io », rispondeva; « mi piace rifare quello che vedo intorno a me: la scemenza, la viltà, la furbizia, la generosità, le illusioni, il mondo è sempre uguale, io sono uno del pubblico, interpreto il pubblico. Sarà così? E chi può dirlo ». Fra tanti messaggi oscuri, fra tanta esplosione di erotismo, il piccolo comico ripropone oggi la realtà di tutti i giorni attraverso la lente dell’umorismo e della parodia: i suoi imitatori (una legione) durano poco, lui invece continua a trionfare, nonostante i film sgangherati di cui è protagonista e in cui riesce anche a commuovere, in cui dà lezione di arte genuina.

Il periodo della piena maturità, dal dopoguerra agli inizi degli anni Sessanta, Io vide scatenarsi sul set: quando era davanti alla macchina da presa il protagonista assoluto era lui, dimenticava ogni tristezza. Lo sanno i registi e i colleghi: comandava lui, imperiosamente, inventava scene e situazioni, improvvisava con estro, rivoltava i copioni. Esigeva che lo chiamassero « principe », con qualche eccezione riservata agli attori più illustri. Ma non era superbia, era dignità.

Nel mondo del cinema, dai più umili macchinisti ai divi, non c’è una sola persona che di lui abbia un ricordo cattivo: in primo piano la sua comprensione generosa, i motti di spirito venati di sarcasmo, ma umani, puntuali. Questa è la sua grande eredità. E gli si può perdonare il suo lato debole, il suo tallone d’Achille, tutto partenopeo: temeva i potenziali iettatori, tentava di sfuggirli. Ma poi ne aveva pena. « Quello è un poveraccio, mannaggia alla miseria », diceva.

L'apparizione sullo schermo televisivo di pellicole come « San Giovanni Decollato »« Yvonne la nuit », « Totò le Mokò », « I due marescialli », « Totò e Carolina », costituisce dunque un avvenimento. Ma il vero, grandissimo mimo appare soprattutto in « Uccellacci e uccellini », la favola pasoliniana che è il canto del cigno del comico napoletano. Qui, egli può rivaleggiare addirittura con Charlie Chaplin, dando l'ultima risposta beffarda a chi credeva in lui come a una marionetta soltanto capace di comicità superficiale. Questo è il vero Totò, il signore che, lontano dallo schermo e dal teatro, era capace di generosità impensate -e sempre tenute nascoste - verso colleghi meno fortunati, verso i derelitti, verso tutti coloro che chiedevano aiuto. Una considerevole parte del suo patrimonio, accumulato anno per anno, dopo aver sofferto la fame più nera, dopo aver calcato piccoli palco-scenici di provincia, è servito a fare del bene agli altri.

Agli « altri » che il principe De Curtis fingeva di non stimare e che adesso lo ripagano del loro amore.

Giuliano Ranieri, «Grazia», anno XLVI, n.1676, 8 aprile 1973


Grazia
 Giuliano Ranieri, «Grazia», anno XLVI, n.1676, 8 aprile 1973