Totò: la sua comicità e i comici dopo di lui

Totò

1959 08 16 Sorrisi e Canzoni TV intro

Da «I due orfanelli» a «Uccellacci e uccellini»: alla televisione una selezione di film interpretati dal popolare attore

Roma, marzo

Disse una volta Totò: «I film brutti mi sono cari come gli altri. Ogni bacarozzo pare bello a sua madre, dicono a Napoli». Di questi bacarozzi, via via che egli li metteva al mondo, critici e intellettuali ne facevano strame, li riducevano a pezzi; e da un certo loro abitudinario punto di vista nemmeno avevano torto. I film di Totò, novanta su cento, venivano messi in opera in un paio di settimane, partendo da soggetti dell'altro mondo e usando mezzi — scenografie, costumi, ragazzotte di contorno — da corte dei miracoli. Ma i critici e gli intellettuali, allora (oggi come sappiamo la loro musica è cambiata), non avevano occhi per vedere una cosa che pure sarebbe dovuta risultare lampante: e cioè che dentro il bacarozzo ci stava lui, Totò, da sempre assertore convinto della massima secondo la quale « per un vero comico il copione non deve contare nulla ». Questa massima Totò non solo l’ha affermata, ma l’ha costantemente dimostrata valida di persona.

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A parere di Sergio Corbucci, regista che oggi conta fra le colonne dello "spaghetti-western" e che per un certo periodo è stato fra i più disponibili e intelligenti collaboratori del comico napoletano, «la sceneggiatura, per Totò, era un filo d’acciaio teso fra due punti, l'inizio e la fine del film: il resto subiva mille cambiamenti».

Questo era l’unico modo in cui egli sapesse lavorare, era il suo stile, e non soltanto nel cinema. Lo sketch forse più straordinario di cui Totò sia mai stato protagonista, quello dell'onorevole in vagone letto, che faceva parte della rivista C'era una volta il mondo, nella stesura originale di Michele Galdieri durava una diecina di minuti; dopo un po’ di sere che Totò lo recitava, lo arricchiva, lo gonfiava di aggiunte, battute, ammiccamenti, perfidie e prevaricazioni verso gli attori che gli facevano il controcanto, arrivò a durare un’ora. E naturalmente era nuovo di zecca, e nessun altro avrebbe potuto interpretarlo al posto suo.

Questo è il punto: quando si parla di Totò, quando si cerca di capire qual è stato il segreto della sua comicità e perché i suoi film hanno ritrovato oggi e prenotato per domani legioni di estimatori che hanno assolutamente ragione a comportarsi come si comportano, bisogna lasciar perdere i discorsi sugli autori dei soggetti, sui registi e sugli sceneggiatori. L’autore è lui. Non dei film, che a giudicarli nel loro complesso sono sovente brutti per davvero, ma di se stesso, talmente bra: vo da rendere del tutto insignificanti i giudizi d'insieme.

Si tratta d'un caso rarissimo, forse unico. Keaton, Chaplin, Tati e più modestamente i personaggi venuti di recente a movimentare la storia lunga del cinema comico in Italia e fuori, da Sordi a Jerry Lewis, da Gassman a Pierre Etaix e al nuovissimo Woody Alien, hanno sempre battuto strade differenti. Essi (da soli, o in compagnia dei registi che li dirigono) si sforzano di mantenere i collegamenti con il contesto: giudicano importante l'ambiente in cui si muovono, curano i raccordi con l'attualità, sono preoccupati di mettere attendibilmente a fuoco le figure di contorno e di sfondo; e in questo «mondo» definito e amalgamato calano il proprio personaggio, e cercano di fare in modo che sia psicologicamente autentico. Totò non è mai stato un personaggio e neppure un «carattere». E' stato una maschera, un comico «antico e lazziatore», come egli stesso si definiva, cioè consapevole della storia dell’arte comica consolidatasi prima di lui e di nient'altro preoccupato che di inventare ogni volta lazzi, mosse, reazioni fulminee, all’interno delle situazioni predisposte.

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I lazzi e le reazioni, beninteso, non hanno alcun concreto riferimento con la situazione entro la quale si manifestano. Vestito in tight e bombetta in un salotto nobiliare, o con indosso una camiciola un po’ laida da antico romano e in testa una corona d’alloro, Totò dice «a prescindere», «checché», «eziandio», «apoteosi», «quisquilie» e «pinzellacchere», strabuzza gli occhi, fa impazzire il cravattino sul pomo d’Adamo, snoda il corpo in incredibili contorsioni da marionetta metafisica, senza che tutto ciò abbia niente a che fare con quanto succede intorno a lui. Il suo fine è di «rompere» l'equilibrio che potrebbe instaurarsi all’interno della scena cui partecipa, di sospingerlo, di astrazione in astrazione, fino al punto in cui la scena semplicemente non c’è più, e rimane solo lui a dominare il palcoscenico o lo schermo.

Da questa disposizione, a giudizio di coloro che hanno talvolta lamentato l'«incapacità» di Totò a farsi personaggio, è derivato un limite: il distacco dalla realtà e per conseguenza la caduta in quel male che, brevemente, si dice qualunquismo. Errore anche questo che pure l'attore condivise. Ogni volta che lui stesso o altri hanno tentato di attribuire alla maschera «spessori psicologici», di trasformarla in «uomo vero» (secondo le retoriche in voga specialmente ai tempi del cinema neorealista), sono stati tonfi clamorosi, o al minimo penose mortificazioni della sua vitalità e dei suoi estri. Anche qui il giudizio errato nasce da insufficienza di comprensione. Quando si dice che l'arte comica di Totò è «fuori della storia», si enuncia una profonda sciocchezza. Alle sue spalle stanno, discendendo nel tempo, i fescennini e le atellane della sua Campania, i pazzarielli, i Pulcinella, De Marco, Scarpetta e Petrolini (questa è storia). Ci sono la fame e la miseria dei « bassi », ci sono il bisogno di giustizia e il disprezzo per i «caporali»; e tutto questo lo senti nella rabbia che esplode a ogni passo in forma di sberleffo e di ludibrio. «Appena vedevamo il volto di Totò», ha scritto Mario Soldati in un ritratto postumo del quale non si saprebbe modificare una virgola, «sentivamo subito che lui aveva fatto piazza pulita di tutte le balle della nostra società e della nostra cultura, di tutte le cose e le persone noiose, di tutte quelle idee, enormi o minute, che Croce definiva " pseudoconcetti Come Molière e come tutti i comici veri, Totò smascherava le ipocrisie e denunciava le vanità della società contemporanea». Anche questa è storia, e Totò ci stava dentro fino al collo.

Volendo adesso andare a vedere in che misura sia stato raccolto il suo insegnamento da chi è venuto dopo di lui, e più in generale in che modo si siano ultimamente dipanate le vicende della comicità al cinematografo, le constatazioni possibili sono assai sconfortanti. «A prescindere», come direbbe Totò, dal fatto che non c’è anima viva cui sia data la minima possibilità di replicare il suo inverosimile repertorio mimico, dono di natura che chi non ce l’ha non può darselo, e che era la base primaria del suo stile, lo sconforto nasce soprattutto dal constatare la povertà dell'ideologia comica dei successori. I quali sono bravi la loro parte, non c’è dubbio: nessuno nega che Sordi sappia schernire con malignità i vizi di certi «caporali» contemporanei, magari assumendone su se stesso i connotati; che Jerry Lewis, dinoccolato e ameboide (ma a petto di Totò ha l’agilità di un pezzo di legno), sia divertente quando sfotte le manie dei buoni «uomini medi» del suo Paese; che Gassman sia riuscito a incarnare con precisione, fino a renderli stomachevoli come sono in realtà, certi «miracolati economici» del tempo nostro, Etaix a riscoprire il gusto gentile delle «comiche» del passato e dei loro protagonisti, Woody Alien a mettere diligentemente a profitto gli studi compiuti in cineteca per prendere in giro molti luoghi comuni del modo di vita americano, cinematografici o pubblici che siano. Però tutti costoro risultano, al momento, incapaci di compiere l’operazione che per Totò era invece naturale: essere «altro» dal mondo che prendono a modello per svelarne le magagne.

Questo mondo, piccolo, medio o alto-borghese, essi tentano di masticarlo dall’interno per rigenerarlo, ma la verità è che ne fanno parte, non potrebbero vivere senza di esso, ne sono anzi il prodotto e la filiazione assolutamente innocui. La « commedia di costume », genere del quale sono, in particolare gl’italiani, grandi specialisti, è il fiore all’occhiello di coloro che ne alimentano i contenuti irriverenti. Vedete un po' quanto siamo buoni e amici della libertà, dicono costoro, se tolleriamo di essere tanto brutalmente redarguiti per le nostre cattive azioni. Ma i comici, mentre li malmenano, fanno loro l’occhiolino: anche noi siamo dei vostri, non crediate che abbiamo l’intenzione di spingere il gioco fino al limite della rottura. Impiegati disonesti o fannulloni, imprenditori ladri, hollywoodiani stupidi e statunitensi rimbecilliti dalla pubblicità e dal conformismo, ricevono dai loro fustigatori cinematografici soltanto duri e spiritosi rimbrotti, ma anche pacche di solidarietà sulle spalle: fin che si scherza si scherza, ma sia chiaro che nessuno vuol mettere in questione la solidarietà che lega l'industria del film ai « reprobi » che devono presentarsi, con i soldi in mano, al botteghino.

Nel rifiuto apparentemente espresso, insomma, non c'è violenza, non c’è stacco, ribellione o disprezzo veraci. E la ragione è semplice: questa comicità « nuova » non nasce da una realtà e da una cultura alternative, com’erano la realtà e la cultura della Napoli proletaria e sotto-proletaria cui si alimentavano le derisioni e i lazzi di Totò (ad onta della sua personalità privata perfettamente e completamente integrata), ma è il frutto, del tutto congruo, deU'albero sociale che la produce. Molto meglio, allora, gli eleganti e nostalgici elzeviri di coloro che s’industriano a risuscitare i fantasmi degli antichi comici, dopo aver sviscerato ogni dettaglio della loro arte nel chiuso delle cineteche. Il che non vuol dire che questa non sia un’operazione di retroguardia ma se Totò non ce l’abbiamo più, e altri come lui non se ne vedono, come pretendere qualcosa di diverso per le ore che vogliamo trascorrere in allegria davanti ad uno schermo?

Giuseppe Sibilla


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Roma, marzo

Il revival di Totò è scoppiato all’improvviso, e casualmente, un paio di anni fa, sul finire della stagione del 71, con la ripresa di qualche film a Milano e Roma e poi a Napoli. Rapidamente l’interesse per i film del grande attore napoletano si è esteso alle altre città italiane e alla provincia, toccando il suo punto di massima intensità nella stagione ’71-72, durante la quale, per fare un esempio, non erano rari i giorni in cui a Roma venivano programmati contemporaneamente cinque o sei film di Totò. E il fenomeno sembra tutt'altro che esaurito: un « cinéma d'essai » romano, tanto per fare un altro esempio, continua a presentare, ormai da molti mesi, «soltanto» film di Totò.

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Ma quali sono, in termini statistici, le reali dimensioni di questo «ritorno di fiamma»? Non è facile rispondere in modo esauriente a questa domanda. Le fonti statistiche accessibili del mercato cinematografico si riferiscono infatti al solo settore delle «prime visioni », che è anche il settore che determina l'andamento generale del mercato. Ora (e questo è il primo dato certo) il «ritorno a Totò» ha interessato principalmente le sale di «seconda visione», quelle delle periferie cittadine e della provincia, e le sale «d’essai», abitualmente destinate alla programmazione di film «diffìcili»; un settore tutto sommato marginale, in termini di mercato, i cui dati definitivi non sono accertabili che a distanza di anni. Tuttavia dal quadro offerto dalle «prime visioni» è possibile farsi un’idea del successo commerciale dei film di Totò. Della quindicina di film usciti nelle «prime visioni» (ma complessivamente il numero dei film riediti è maggiore, e del resto occorre ricordare che la filmografìa di Totò è sterminata, conta più di cento titoli) il risultato migliore è stato ottenuto da Un turco napoletano, un film di Mario Mattoli del '53, che solo a Napoli, in 56 giorni di programmazione, ha incassato oltre 24 milioni, riuscendo a superare, per complessivi 90 giorni di programmazioni in cinque città italiane, i 36,5 milioni. Si tratta di un incasso di tutto rispetto, probabilmente superiore alle stesse aspettative. Per citare altre cifre — limitandoci questa volta a Napoli, la città maggiormente interessata, insieme a Roma, al «fenomeno Totò» — si può segnalare l'incasso di Tototruffa '62, un film di Camillo Mastrocinque del '61, che ha quasi raggiunto la cifra di 10,5 milioni; o quello di Totò cerca casa, del 1949, regìa di Steno e Monicelli, con circa 8 milioni; o, ancora, quello di I due colonnelli, del 1962, regìa di Steno, che ha superato la somma di 6,5 milioni. Pur essendo parziali, questi pochi dati consentono alcune utili considerazioni.

Innanzitutto si può affermare che l’operazione di riedizione dei film di Totò, in tutti i casi, non è stata mai perdente. Lo dimostra il gran numero dei film rimessi in circolazione, per ognuno dei quali è stato affrontato un minimo di spese d'obbligo (stampa di quattro o cinque copie, manifesti, ecc.). In qualche caso, come abbiamo visto, si è perfino registrato un buon incasso e, in generale, si può dire che l’andamento di questi film è soddisfacente. Questi risultati — in assoluto, certo, non rilevanti — acquistano un loro valore se inseriti nel quadro complessivo delle riedizioni: qui, infatti, i risultati commercialmente eccezionali sono legati ai cosiddetti «successi di ritorno» (poniamo, la riedizione di un vecchio film nel momento di maggior successo dell'attore che lo interpreta), e questo non è il caso di Totò. Anzi, in questo senso, il successo dei film di Totò ha infranto una regola, quella secondo la quale un grande attore morto è morto anche commercialmente (e il lettore ci perdoni questa espressione un po' macabra). E' come se Totò si fosse presa la sua beffarda rivincita contro quanti lo ritenevano un capitolo ormai chiuso della storia dello spettacolo italiano.

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Il revival di Totò resta comunque, in termini strettamente commerciali, un fenomeno marginale, tale cioè da non influire in maniera rilevante sul mercato cinematografico. Il suo valore risiede certamente altrove, nel significato che esso ha assunto in rapporto al pubblico che lo ha determinato. E’ un fatto che a vedere i film di Totò sono andati in questi ultimi due anni innanzitutto i giovani e poi quella fetta di pubblico popolare (sempre a grande componente giovanile) che s'era dovuta accontentare negli ultimi anni di surrogati spesso assai scadenti. Il ritorno di Totò è stato dunque non una riscoperta, un gesto di nostalgia, ma una vera scoperta, da parte di quei giovani che hanno imparato da poco ad amare i grandi comici del cinema e che in Totò ne scoprono uno tra i più grandi, intuendo, al di là della struttura sgangherata di molti dei suoi film e oltre i singoli personaggi di volta in volta incarnati, la forza di una maschera che ha dietro di sé una tradizione (quella napoletana ma non solo quella) teatrale e una civiltà intera. Del resto l’incontro tra i giovani e Totò era inevitabile ed è destinato probabilmente a ripetersi in futuro: il carattere stralunato, euforico, dissacratorio, anticonvenzionale della sua comicità appare infatti singolarmente congeniale allo spirito giovanile. Inoltre questa scoperta è possibile oggi perché Totò è stato il comico italiano meno legato alle contingenze del suo tempo: come scrisse un critico alla sua morte, era l'attore comico più moderno proprio perché il più antico. Come Buster Keaton, sembrava provenire da un altro universo, il mondo delle maschere e dei burattini.

Eppure dietro questa astrazione si nascondeva un senso di umanità più profonda che in altri: che era poi la profonda radice popolare da cui traeva linfa il suo furore comico. Anche per questo i suoi film hanno sempre trovato migliore accoglienza nelle sale di periferia e di provincia, anche quando era vivo, negli anni del maggior successo. Il revival di questi ultimi due anni conferma questo dato, ma annuncia anche un interesse di tipo nuovo: esso è un risarcimento per colui che fu uno dei più grandi attori italiani di questo secolo, e spesso non compreso, specialmente dai critici e dal pubblico più sofisticato; è anche un modo per rimpiangerlo, poiché — come ha scritto Bernardino Zapponi — «Totò è anche come un nonno morto, un parente di tutti noi, lo zio matto, che solo quando non c'è più, ci si rende conto della sua grande umanità».

Salvatore Piscicelli


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Roma, marzo

Le invenzioni di Totò. Invenzioni mimiche: migliaia, ma rammentarle a parole non avrebbe senso, servirebbe solo a mortificarle. Invenzioni verbali: non barzellette (ha detto Totò, cattivo: «Le barzellette sono per Macario e per Dapporto»), ma interventi brevi, fulminei e insensati, oppure il recupero e il ribaltamento in ridicolo di modi di dire, avverbi e interiezioni logorati da un uso che li aveva ridotti a luogo comune e ad espressioni retoriche. «Io sono uomo di mondo», per esempio, subito seguito dalla specificazione che ne distrugge la prosopopea idiota: «Ho fatto il militare a Cuneo. Eh, i cuneensi!». I cuneensi, che avrebbero potuto arrabbiarsi, si divertivano invece come tutti gli altri. Oppure: «Lei non sa chi sono io!», «Siamo uomini o caporali?», o ancora: «Come passa il tempo!», ma inserito in un dialogo come il seguente:

Totò: E' morto Diocleziano?
Spalla di Totò: Ma sì!
Totò: E quando è successo?
Spalla: Mah, duemila anni fa.
Totò: Come passa il tempo!

La sequela degli interventi a sproposito, delle frasi di disturbo. Quando discute con un interlocutore e magari si trova in difficoltà, Totò aggredisce, non lascia parlare, costringe a continue divagazioni mitragliando « a prescindere », « tampoco », « eziandio », « quando c è la salute », « appunto, dico », « checché », « apoteosi », « ma mi faccia il piacere », « e non mi tocchi », « e io la tocco », « e se lei mi tocca io le faccio il ritocco », e via imperversando. L'interlocutore si infuria, e non solo sulla scena. E’ capitato a Mario Castellani. sua grande « spalla », e a Peppino De Filippo di venire tartassati al punto di perdere il lume degli occhi. Messi nell'impossibilità di pronunziare le loro battute, obbligati a inventare per difendersi, alla fine dello sketch o dell’inquadratura furono visti inseguire Totò, furenti, per picchiarlo.

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Lo sketch del vagone letto. Straordinario e lunghissimo, rammentiamone qualche passo. Totò è piovuto come un ciclone nello scompartimento in cui viaggia l'onorevole. I due si guardano sospettosissimi:

Onorevole: Permette? Io sono l'onorevole Cosimo Trombetta.
Totò: Trombetta, Trombetta... questo nome non mi è nuovo.
Onorevole: Infatti... il mio nome è molto noto... in Italia di Trombetta ce ne sono parecchi.
Totò: Altro che... sentiste a Piedigrotta... ma allora... io ho conosciuto anche suo padre...
Onorevole: Possibilissimo! Mio padre ha molte conoscenze...
Totò: Eh! Chi è che non conosce quel trombone di suo Onorevole: No no guardi... Lei confonde Trombetta con Trombone. Scusi: se io mi chiamo Trombetta, anche mio padre fa Trombetta... viceversa... sua sorella...
Onorevole: ... mia sorella...
Totò: ... fa Trombone!
Onorevole: Già, fa Trombone. Ma no, cosa mi fa dire? Mia sorella non fa Trombone... da signorina faceva Trombetta, come tutti noi...
Totò: Beh... pensiamo alla salute! E che mestiere fate?
Onorevole: Veramente, da quando sono stato eletto... non esercito più la mia vera professione... io sono oste-
Totò: Ah, certo, di questa stagione! E poi, con le ostriche si deve guadagnare poco... perché non si fa una bella cassettina, con le sigarette americane...
Onorevole: Ma cos’ha capito, lei? Io ho detto « ostetrico », non « ostricaro »! Roba da pazzi! Giovanotto... poca confidenza! E ricordatevi che io sono un onorevole!
Totò: Cosa siete?
Onorevole: Un onorevole!
Totò: Ma chi?

Totò andava avanti di questo passo per un'ora. Si può ben capire che alla fine, sconvolto, Castellani qualche volta volesse picchiarlo.

Giuseppe Sibilla e Salvatore Piscicelli, «Radiocorriere TV», anno 50, n.13, 25-31 marzo 1973


Radiocorriere TV
Giuseppe Sibilla e Salvatore Piscicelli, «Radiocorriere TV», anno 50, n.13, 25-31 marzo 1973