Totò e... Peppino De Filippo

Peppino_De_Filipp


Non c'era il copione


Ho fatto film con Totò fin dal '56. Venne nel mio camerino al Teatro delle Arti, mi pregò di fare un film con lui, c'era solo una traccia, non c'era neppure il titolo, bisognava inventare tutto. Il titolo lo trovai poi io e il film si chiamò "Totò, Peppino e ... la malafemmina", andavamo avanti a braccio, ero soprattutto io che trovavo degli spunti, tiravo fuori delle cose. Certo, Totò era un ottimo attore di rivista, aveva una bella faccia espressiva, lo rispettavo nel suo genere e sentivo che mi rispettava come attore di prosa.

Il guaio era che non c'era un vero e proprio copione, e dovevamo per forza andare a braccio, una cosa del genere la potevamo fare solo noi, io e lui. Il film incassò un miliardo e mezzo. Ne abbiamo fatti poi molti altri, io lavoravo molto per pagare il fisco, una vecchia storia di tasse arretrate: Totò, Peppino e questo, Totò, Peppino e quello, hanno reso tutti molto bene. Stavo sempre attento che non ci facessero fare le stesse cose, dovevamo differenziarci, contrapporci.

Quando mi hanno fatto leggere il soggetto di Totò, Peppino e la dolce vita, in cui eravamo due fratelli che andavano assieme a Roma, non ne volevo sapere; lo modificammo radicalmente proprio per differenziare i nostri personaggi. Lui non amava la gag pura, metteva in tutto quello che faceva un fondo di umanità, un fondo di bontà. Totò era un uomo molto simpatico, molto alla mano, ci divertivamo a lavorare assieme, anche la troupe si faceva un sacco di risate.

Galleria fotografica e stampa dell'epoca

Strette di mano - Il principe de Curtis

Alludo al caro Totò. Al grande comico napoletano Totò che si arrabbiava tanto e seriamente quando non lo si appellava con titolo di «Principe» per il quale ha dato, con attaccamento e tenacia, una vita intera di lavoro. Si può dire che lo scopo vero della sua vita sia stato solamente la preoccupazione di mettere in giusta luce le sue origini nobiliari, e penso — naturalmente è una mia riflessione — che la sua positiva vita teatrale di fronte a questo suo più forte desiderio sia stata, a paragone, quasi nulla. E non sapeva, o non voleva sapere, che la nobiltà originaria della sua grande arte di «comico di teatro» — a mio sincero avviso — era molto, ma molto più importante di un qualsiasi titolo nobiliare. Ma voglio rispettare il suo desiderio. Ognuno ha i suoi «capricci», ognuno è padrone, se lo può, di far rispettare i propri diritti.

1938 Peppino De Filippo 02 L

Il mio primo incontro con lui risale nientemeno che al 1918 o ’19. In quell’epoca Totò lavorava in varietà nei piccoli locali periferici di Napoli: nei periodi estivi girava la provincia. Lo ascoltai, la prima volta mi pare, al piccolo teatro Mercadante di Via Foria. Fui attratto da un manifesto che diceva così: Questa sera (a caratteri grandi) il comm. Gustavo De Marco e sotto (a caratteri piccolissimi) imitato da Totò. «Totò» in un numero di imitazione insomma. Gustavo De Marco macchiettista, contorsionista, trasformista e «marionetta vivente». Questa ultima qualità gli proveniva dal fatto che sapeva imitare alla perfezione i movimenti dei «pupi». Tanto bene ne imitava i gesti che era davvero impressionante e ammirevole vederlo. Ad un certo punto pareva che si snodasse nelle ossa e nelle membra, fino ad assumere atteggiamenti «marionettistici», così paradossali da suscitare nel pubblico più clamorosi consensi.

Ad un determinato momento della sua esibizione, quando il ritmo si faceva più frenetico che mai, qualcuno dalla platea o dal loggione, gli gridava: «Asso ’e spade...» (asso di spade). Bene, De Marco si fermava di colpo in tutta la persona assumendo improvvisamente, per quanto possibile, la figura geometrica della carta «asso di spade» che fa parte del «mazzo» di carte da gioco napoletane. Progressivamente, poi, si metteva a girare su sé stesso fino a raggiungere un ritmo vertiginoso, tanto da sembrare una trottola.

De Marco era in quei tempi, una «vedette» di primissimo piano artistico che tutte le imprese di «varietà» amavano accaparrarsi. Totò, giovane e bravo imitatore esordiente, si mise ad imitarlo e vi riuscì benissimo. Fisicamente lo rammento benissimo in quel periodo: magro come un chiodo, tutto nervi e ossa, scavato nei lineamenti, gli occhi espressivi ma tanto grandi che quasi sembrava gli uscissero dalle orbite, il mento molto sporgente e buttato tutto da un lato come se avesse ricevuto un pugno bene assestato, i capelli tirati a spazzola lisci, nerissimi e accuratamente impomatati, due folte basette alla «Bonnard» gli ornavano il volto ben rasato e pallido. Affabilissimo di carattere, tutto «bei modi», ricercato nel vestire e... amante delle belle donne. Gli divenni amico quando ci trovammo scritturati assieme al teatro Nuovo di Napoli nella compagnia Molinari, io in qualità di semplice «generico» e lui di «primo attore comico» di un repertorio di riviste e di riduzioni scarpettiane. Passarono alcuni anni, improvvisamente capitò a Totò una grossa fortuna. Gli capitò di potersi scritturare in una delle compagnie di riviste di Achille Maresca e precisamente in quella in cui vi agiva come «prima donna» la bella e brava Angela Ippaviz. Fu scritturato col ruolo di «comico grottesco» (allora era in uso, nelle compagnie di rivista, anche il ruolo di «comico stilé» ) e debuttò nella rivista di Ripp e Bel Amy dai titolo: «Madama Follia».

Ottenne subito un grande successo. Il Maresca, in verità uno dei più importanti impresari teatrali dell'epoca, lo aveva messo in luce come meritava. In poche parole, a lanciarlo seriamente, nel mondo del grande spettacolo di rivista, fu Achille Maresca e non poteva accadere che così. Uomo di di grande intuito e talento teatrale, il Maresca fiutò subito in Totò l’elemento «principe» che gli occorreva per una delle sue formazioni. Il vero titolo di «principe», dunque, potremmo dire che Totò lo ricevette in quella occasione e per merito di Achille Maresca. Da allora Totò ebbe modo di poter passare di successo in successo. In quanto a me, intanto, avevo formato — con mio fratello Eduardo — la «Compagnia del Teatro Umoristico I De Filippo», m'ero messo in giro di serie preoccupazioni e non mi era più possibile seguire come un tempo la carriera artistica del mio amico e collega.

Ci ritrovavamo di tanto in tanto, per caso, quando ci capitava di lavorare sulla stessa «piazza», naturalmente, non mancavamo di riabbracciarci. Un breve periodo da trascorrere insieme, molto vicini, lo avemmo durante la seconda guerra mondiale. Ci trovavamo spesso in un caffè di piazza Ungheria in Roma, durante le pause di lavoro forzate che il periodo bellico d imponeva e spesso si parlava (sommessamente) della incresciosa e tragica situazione politica che si viveva in quei giorni. Eravamo nel 1944 quando i tedeschi si preparavano a lasciare Roma per l'avanzare delle truppe alleate dal Sud. Io mi trovavo al teatro Eliseo a svolgere una stagione teatrale con la mia compagnia. Improvvisamente non si sa come, perché e da chi Totò, avendo saputo che tanto io quanto mio fratello Eduardo dovevamo essere «prelevati» dai tedeschi e condotti al Nord, si preoccupò di inviarci, in segreto, un amico ad avvertirci.

Io e mio fratello interrompemmo le recite e trovammo sicuro rifugio presso la casa di una nostra cara amica nel rione Parioli. Totò ne venne a conoscenza. In quella bella accogliente dimora vi rimasi ben trattato e foraggiato con tutti i riguardi una quindicina di giorni ma sempre cercando nel mio cervello la ragione vera per cui ero stato costretto a tenermi nascosto. «Forse pensavo — mi sarò lasciato sfuggire qualche frase pericolosa... ma Totò come ha fatto a sapere? Che gli avranno riferito? Che sia stato uno scherzo...?». Il tempo passava in questa atmosfera di dubbio e sempre impaurito e preoccupatissimo. L’eventualità che qualcuno potesse scoprire il mio nascondiglio non mi faceva dormire sonni tranquilli. Un giorno la cameriera di casa venne a dirmi che fuori, in sala, c’era una ragazza che chiedeva un mio autografo e che per ottenerlo poteva mostrarmi un biglietto di «raccomandazione». Impensierito accettai di ricevere la ragazza e questa mi diede a leggere il suo «bigliettino». Su questo era scritto:

«Caro Peppino, questa bella ragazza desidera un tuo "autografo", il mio l'ho già dato, le ho detto il tuo indirizzo, accontentala, Antonio». «Antonio» era semplicemente Totò. Si può immaginare il mio disappunto. Andavo gridando per tutta la casa: «Ma Totò è scemo? Mi vuole fare fucilare? Ma come? Mi fa nascondere e poi va dicendo in giro dove sono nascosto? Ma è pazzo?». Nondimeno accontentai la ragazza che ridendo ironicamente... se ne andò. In casa si dettero tutti da fare per calmarmi. Avessi avuto Totò nelle mani, in quel momento, lo avrei maltrattato seriamente. Fu tanto il mio «nervoso» che decisi di non partecipare alla cena. Avevo i nervi fino alla cima dei capelli. Ma poi... i pensieri, le preoccupazioni... mi fecero cambiare idea e... «poscia più che il dolor potè il digiuno». Mi presentai in camera da pranzo e... dovetti subire lo «sfottò» di tutti i presenti.

A guerra finita, tornata la calma e la serenità negli animi di tutti, quando ebbi l’occasione di rivedermi con Toto gli domandai: «Ma Antò? Chi venne a dirti che i tedeschi ci volevano al Nord? Fu uno scherzo? Dimmi la verità!». Rispose: «Uno scherzo? Fossi matto. Tutti gli artisti dovevano essere portati in alta Italia. Io pure. Ringrazia Dio che venni a saperlo da persona sicura». «E la ragazza — soggiunsi io — quella dell'autografo?».

1953 Una di quelle L

+«Quello si — rispose lui — quello fu uno scherzo!». Uno scherzo! Cosa da pazzi. In quell’epoca! Roba da «infarto». Finalmente, come Dio volle, Roma vide le truppe alleate per le sue antiche vie fino allora tenute sotto il pesante tallone tedesco. Col passare del tempo i miei incontri con Totò si fecero sempre più rari. Ognuno aveva preso la sua strada. Un giorno dell’inverno del 1956, Totò mi fece sapere che gli avrebbe fatto tanto piacere se avessi accettato di girare un film con lui. Trovai l'offerta interessante e cominciò, così, la serie di films «Totò, Peppino...». Io ho amato l'«arte» cinematografica di Totò, l'ho apprezzata, assecondata, e, per quanto ho potuto, in alcuni momenti posso dire di avere sempre cercato di collocarla su di un piano di chiara umanità, preoccupandomi essenzialmente di fare in modo che insieme l'uno potesse servire all’altro, in perfetta intesa e collaborazione artistica, come due bravi colleghi che si stimano e si rispettano a vicenda. Totò è stato l’unico comico che mi abbia deliziato sinceramente lo spirito. In ogni, suo gesto, in ogni suo movimento, in ogni atteggiamento, io ci intravedevo quel tanto di «maniera» scoperta e schietta che, rasentando la donchisciottesca spavalderia, era a stretto contatto con il più sfacciato tono pulcinellesco. E questo mi interessava molto e mi piaceva tanto. Posso affermare che tutti i films che abbiamo girato assieme, spesso li abbiamo recitati «a soggetto». Creati lì per lì, scena per scena, al momento di «girare». Un «maligno» potrà dire: «... si capiva benissimo!» e gli si deve dare ragione a mio parere, perché i miei films con Totò peccavano, sopra ogni cosa, «di impreparazione» e si notava, si capiva, gli «intenditori» lo deploravano e questa fu la ragione per la quale, ad un certo momento decisi di abbandonare il cinema e dedicarmi, invece, interamente al mio teatro. Mi permetto, molto umilmente, di affermare che, se i miei films con Totò fossero stati «girati» — come io sempre consigliavo — solamente dopo un'attenta e scrupolosa preparazione, l'Italia cinematografica avrebbe potuto vantare, in quanto al genere comico-farsesco, una produzione di ottimo livello artistico ineguagliabile in casa sua e, forse, fuori. Caro mio amico Totò. Mi diceva sempre di voler recitare in prosa con me. Con me solo, diceva, avrebbe voluto tentarlo. Ma come era possibile? Che avrebbe guadagnato economicamente, lui che, soprattutto tartassato dal fisco, più di ogni altra cosa, in fatto di lavoro, doveva mirare solo al guadagno del momento? Infatti, ogni volta che cominciavamo un film, se ne usciva con questa frase: «Basta ... sono stufo, Peppì, di questa fatica ... altri quindici film e poi... basta: mi ritiro e faccio teatro!». A volte, ora che non c’è più, mi pare di sentirmelo vicino come quando insieme si girava un episodio del film «La cambiale». In quel periodo il povero Totò quasi non vedeva più ed io ero costretto (Dio sa con quanta tenerezza ed amicizia) a girare le nostre scene portandomelo sottobraccio, accompagnandolo così... naturalmente, senza dare a capire, e lui recitando, mi seguiva fiducioso, tranquillamente nello spazio stabilito nel quale si svolgeva la vicenda.

Una delle volte che mi recai a casa sua, alcuni anni fa, mi espresse il desiderio di venite a visitare la mia villetta sulla Nomentana, e dopo pochi giorni ci riunimmo nella mia casa. Dopo colazione andammo a sorbire una tazzina di caffè in giardino. Ad un certo punto, passeggiando, portò la mano destra sugli occhi e tenendola curva a schermo contro il sole il cui riverbero troppo forte non gli faceva ben distinguere qualcosa che aveva attirato sua attenzione, fissò un punto e disse: «Che d'è là?». «E' il cimitero dei miei cani» risposi. Si fermò all’istante. Guardò meglio, chiuse ancora meglio la mano sull’occhio destro a guisa di cannocchiale per meglio diaframmare la vista (quel poco di vista che gli era rimasta) e lesse, lentamente decifrando ogni parola, una scritta, composta da me, scolpita su una delle dodici lapidette: «Tanto ti fui fedele o mio padrone / tanto t’ho amato e t’ho voluto bene / che son felice in qesta eterna cuccia / come a dormir tra le tue care braccia». Finito di leggere si girò verso di me e tenendomi le braccia disse: «Damme 'nu bacio... m’’e fatto chiagnere!». Mi baciò. Ricambiai il gesto senza immaginare che quell'abbraccio caro ed affettuoso tra noi due sarebbe stato l’ultimo.

Peppino De Filippo


La grammatica di Totò (e Peppino)

Chi l'avrebbe detto, quel 7 settembre 1956, quando il film fu stroncato con summo gaudio da tutti i «vice», che "Totò, Peppino e la... malafemmina" sarebbe diventato cult? Regista fedelissimo al principe de Curtis, Camillo Mastrocinque, ex architetto con la passione per la lirica, diresse per sua maestà Totò cinque film no stop; questo, ispirato alla nota canzone scritta da Totò per rimuovere l’amore infelice per la bellezza in bicicletta Silvana Pampanini, incassò 682 milioni e fu tra i quattro del '56, primo in cui sul titolo sedevano insieme Totò e Peppino, strana coppia garanzia di risate.

Storia quasi da sceneggiata: due zii, i fratelli Capone, con la mamma del giovane, affrontano un viaggio a Milano per convincere una ragazza del varietà a lasciar perdere il «disonorato», ma innamorato, nipotino. Da qui equivoci a raffica, ma finale col cuore in mano: amor omnia vincit, tutti al paesello.

Nel corso del tempo il film è diventato amatissimo e citatissimo per la scena proverbiale della dettatura della lettera: punto due punti, abbondiamo. È l’Italia anni '50, dove Nord e Sud sono separati in casa, e Totò e Peppino arrivano coi colbacchi temendo la nebbia del Nord e incontrano un vigile in Piazza del Duomo. È la sintonia tra i comici che è eccezionale anche se Peppino, nella Avventurosa storia del cinema italiano di Fofi e della Faldini che la Cineteca di Bologna sta ristampando, racconta quanto fosse divertente e faticoso lavorare con Totò che arrivava sul set dopo le 14 perché aveva orari notturni, da teatrante, e fa presente che lui invece era in prosa, n film prova quanto le fondamenta del cinema comico siano nella rivista: lo prova la presenza di Dorian Gray ex soubrette di Tognazzi, da anni misteriosamente scomparsa ma ricercata da Gianni Amelio e altri fans d.o.c.: è lei che, truccata fellinianamente, rnba il cuore al triestino Teddy Reno che la sera nel musical L'adorabile Giulio cantava «Simpatica» a Delia Scala, ma pensando a m.me Vania Traxler.

«Corriere della Sera», 18 agosto 2009


 Sul set del film "Totò e Peppino divisi a Berlino (1962) - Foto Archivio Istituto Luce
 

Era monarchico, eh sì, eccessivamente. Infatti una volta, durante un'elezione, cercò di convincermi a votare per Stella e Corona. La monarchia andò piuttosto male e, a elezioni compiute, mi chiese a chi avessi dato il voto. «Ho votato comunista» gli dissi. Stavamo mangiando sul set, lo ricordo bene. Buttò via tutto, cartocci e bicchieri, gridandomi addosso: «Questo proprio non me lo dovevi fare». Un giorno mi disse: «Ma tu lo sai che se la Regina d'Inghilterra m'invita a pranzo a me m’ha da mettere vicino ad essa?». Gli piaceva nominare cavalieri e commendatori, ma a me mi disse: «A te non ti faccio, pecché mi sfotti».


Il povero Totò quasi non vedeva più e io ero costretto (Dio sa con quanta tenerezza e amicizia) a girare le nostre scene portandomelo sottobraccio, accompagnandolo così... naturalmente, senza dare a capire, e lui recitando, mi seguiva fiducioso, tranquillamente nello spazio stabilito nel quale si svolgeva la vicenda.


Ho fatto da spalla a Totò e con piacere. Solo una cosa mi dispiace: i film sono stati realizzati sempre male. Per i produttori italiani il film comico è una cosa poco seria. [...] Io sto facendo il comico da 50 anni e non ho mai detto nessuna volgarità, e modestamente ho una posizione artistica in Italia quasi invidiabile. Ho partecipato ai film a cui lei allude, ma non mi sono spogliato io! Non ho detto io la parolaccia! Ho sempre tagliato le battute che prevedevano una cosa del genere... [...] Per fare un film comico non è necessaria la battuta facile. Basta un poco di serietà.


Caro mio amico Totò. Mi diceva sempre di voler recitare in prosa con me. Con me solo, diceva, avrebbe voluto tentarlo. Ma come era possibile? Che avrebbe guadagnato economicamente, lui che soprattutto tartassato dal fisco, più di ogni altra cosa, in fatto di lavoro, doveva mirare solo al guadagno del momento? Infatti, ogni volta che cominciavamo un film, se ne usciva con questa frase: Basta... sono stufo, Peppì, di questa fatica... altri quindici film e poi... basta: mi ritiro e faccio teatro!


Non è che con Totò mi trovassi proprio a mio agio però lui aveva una grande stima, un grande rispetto per me. Totò poteva permettersi di fare tutto, cinema e teatro e sempre con una maschera, io mi preoccupavo tantissimo di non cadere in questo errore... Ci ho lavorato sempre bene e ci siamo trovati d’accordo in tante cose. Cominciavamo ad andare sul set alle due, perché prima di allora non ce la facevamo in quanto che Totò era abituato ad andare a letto alle tre-quattro di notte e faceva l’alba, lo finivo il mio lavoro alle otto-nove e andavo dritto a letto perché ero stanco. Ci si trovava alle due sul set con Totò a ricombinare la sceneggiatura; il soggetto era quello, la base era quella, ma era tutto campato in aria. E ricominciavamo il soggetto, il soggetto vero e proprio. Il primo esperimento fu Totò, Peppino e la malafemmina. Questo tipo di film andò avanti sempre su questo binario: ci incontravamo a casa di un produttore e si combinava tutto ma non il copione che, benché io lo chiedessi, non esisteva mai! Ogni film con Totò era per me una lotta, una lotta disperata. A lui per portarlo su un piano di umanità, a me per stare un po’ tranquillo e salvarmi il più possibile da quelle cose che facevano fare a Totò.


Curiosità


I rapporti tra Totò e Peppino furono quasi sempre abbastanza freddi. Peppino, che amava il teatro e si era dedicato al cinema con l'intenzione di fare prodotti "nobili", tendeva a minimizzare il lavoro fatto con Totò, esaltando a dismisura il suo ruolo: «Ho fatto tanti film con Totò fin dal 1956» racconta Peppino De Filippo a Orio Carldiron (nel libro "Totò") «venne nel mio camerino al Teatro delle Arti, mi pregò di fare un film con lui, c'era solo una traccia, non c'era neppure il titolo, bisognava inventare tutto. Il titolo lo trovai poi io e il film si chiamò "Totò, Peppino e la malafemmina", andavamo a braccio, ero soprattutto io che trovavo degli spunti, tiravo fuori delle cose. Certo, Totò era un ottimo attore di rivista [...] e sentivo che mi rispettava come attore di prosa [...]» Ritroviamo tante "cattiverie" postume nella testimonianza di Peppino, quasi una "vendetta" per le angherie subìte e per aver dovuto lavorare in subordine: «trovai poi io il titolo...», «ero soprattutto io che trovavo gli spunti», «Totò era un ottimo attore di rivista...» (mentre lui esercitava il genere più "nobile della prosa"), «ne abbiamo fatti tanti di questi film. Io lavoravo per pagare il fisco...», ecc, ecc. Piccole cattiverie di antichi compagni di lavoro che hanno giocato sempre a prevaricarsi, a disputarsi il favore del pubblico. Ruggiti di "vecchi leoni" che non accettano mai di essere sconfitti.

Giancarlo Governi


Alla battuta della medium: «Le cose vere le mettiamo da parte, ma le supposte, le supposte dove le mettiamo?» Totò e Peppino rispondevano così: «Totò: Peppino, le supposte dove...?» Peppino: «Ehm, non so... io...» Castellani: «Silenzio!» Totò: «Oddio, se servono...» Peppino: «E va bene, si comprano.» Lo scambio di battute viene eliminato; sul taglio Totò ha aggiunto in doppiaggio una nuova battuta fuori campo per chiudere la situazione: «Direi che per il momento accantoniamo le supposte».

Le forbici della censura sul film "Totò, Peppino e la dolce vita" - 1961

Peppino De Filippo: "Tutti i films che abbiamo girato assieme, spesso li abbiamo recitati 'a soggetto'. Creati lì per lì, scena per scena, al momento di 'girare'". In "Letto a tre piazze", per esempio, Peppino cerca di prender sonno accanto a Totò che, secondo il copione, dovrebbe guardarlo per qualche istante. Poi, ricorda Steno, si dovrebbe dare lo stop. Ma Totò lo guarda con insistenza e con un sorriso strano, sempre più "interessato". Alla fine, non sentendo lo stop Peppino apre gli occhi. Allora Totò crea: "Ma sa che io più la guardo e più mi convinco che non è affatto brutto?"


Dialogo a distanza tra Peppino e Franca Faldini

Nel dopoguerra la gente aveva fame d’evasione, eh sì! C’era bisogno di svago, e la gente correva al cinema, a teatro. [...] Ma poi, col passar degli anni, passò l’entusiasmo, i film di Totò non avevano più quel richiamo. Insomma, una sera, nel ’54 o ’55, me lo trovai in camerino, al Teatro delle Arti di Roma. Era piuttosto abbacchiato. A tu per tu, in un momento di confidenza, mi disse che le cose non gli andavano più bene. Volevo fare un film con lui?

Ettore Mo, "In tandem con Peppino", «Corriere della Sera», 15 aprile 1977


Lo escludo assolutamente. Negli spostamenti di Totò c’ero sempre anch’io ‘per lo mezzo’. Io credo che sia stato fatto il nome di Peppino da qualche regista, da qualche produzione, non so chi e come ma escludo che Totò sia andato a cercarlo. In fin dei conti diceva sempre che i De Filippo bisognava prenderli un pochino con le molle, perché erano dei caratteri non proprio straordinari. Quella dei tre che apprezzava di più era Titina, proprio come pasta di creatura umana; poi era stato molto amico, ed era rimasto tale anche se si vedevano poco, con Eduardo. Peppino è comparso un po’ così, out of the blue.

Franca Faldini


La lettera di Totò e Peppino: il ruolo di Peppino e un consiglio per una diversa visione

LetteraLa scena della lettera di Totò e Peppino è dominata dal grande Totò. Sarà per il tono con il quale detta la lettera e impartisce disposizioni varie al fratello Peppino, sarà per le lezioni di sintassi, grammatica e punteggiatura che elargisce, sarà per la sua sicumera, con le dita nel taschino del panciotto e il suo cipiglio, ma Totò monopolizza la scena e attrae l’attenzione dello spettatore. Peppino svolge nella scena della lettera, in apparenza, il classico ruolo della spalla, sia pure di alto livello.
Nella realtà l'importanza del ruolo di Peppino nella scena della lettera è paritaria a quello di Totò: è eccezionale la sua interpretazione del contadino poco avvezzo all'uso della penna e messo quindi in gravissima difficoltà dal dover scrivere anche poche righe. Ecco quindi un consiglio per chi ha la possibilità di rivedere la famosa scena della lettera del film Totò, Peppino e la Malafemmina: concentrate la vostra attenzione su Peppino e non guardate Totò!

Osservate come "fatica" a scrivere la lettera, arrivando a sudare abbondantemente. Osservate ancora come all'inizio scriva in maniera "larga", poi si accorge che lo spazio sta finendo e, non pensando per nulla a prendere un altro foglio, prosegue a scrivere sempre più piccolo, sempre più piccolo e sempre più storto. Da tenere presente che la scena della Lettera di Totò e Peppino sembrerebbe che sia stata girata "all'impronta"; così almeno ha riferito il testimone Teddy Reno, che in quel film interpretava il nipote dei fratelli Caponi. Notate quindi come Peppino "regga la botta" perfettamente a Totò e alle sue improvvisazioni, inserendosi con qualche battuta di sua creazione; ricordiamo, ad esempio, l'equivoco della "insalata" (confonde "vi consoliate" con "con l'insalata"), il commento "troppa roba!" all'abbondanza di punteggiatura proposta da Totò, il "senza nulla a pretendere" finale.

La lettera di Totò e Peppino: un’interpretazione “malevola”

Esaminate la frase della lettera: “Scusate se sono poche, ma settecentomila lire ci fanno specie che quest'anno, una parola, c'è stato una grande moria delle vacche come voi ben sapete.”

Ragioniamo prima sull'utilizzo del termine "specie"; Totò usa questa parola con una doppia valenza: in primo luogo "specie" è collegato a "ci fanno"; sta in effetti utilizzando l'espressione molto comune: "un fatto ci fa specie" e quindi "settecentomila lire ci fanno specie".

Contemporaneamente però "specie" si collega al periodo seguente, come avverbio: "specie che quest'anno c'è stata la moria delle vacche". Totò quindi pronunciando una sola volta la parola "specie" se ne avvale in due periodi diversi.

Proviamo ad ipotizzare che la stessa "tecnica" venga utilizzata per l'espressione "come voi" nel periodo successivo. Ebbene avremmo che "come voi" non solo si collega al successivo "ben sapete" per formare la frase "come voi ben sapete", ma si collegherebbe anche alla frase precedente "C'è stata una moria della vacche" determinando l'espressione offensiva "C'è stata una moria delle vacche come voi". La frase sarebbe in linea con la tendenza di Totò alle battute a doppio senso ed alla considerazione che, almeno in quel momento della storia, gli zii Caponi avevano della fidanzata del nipote, per l'appunto una "malafemmina".

Malafemmena 00066

Antonio Caponi: Giovanotto, carta, calamaio e penna, su! Scriviamo!...dunque, hai scritto?
Peppino Caponi: Eh, un momento, no?
Antonio Caponi: E comincia, su!
Peppino Caponi: [Fra sé e sé] Carta, calamari e penna...
Antonio Caponi: OOOHHHH.... [Inizia a dettare] Signorina!...Signorina!
Peppino Caponi: [Si gira verso la porta] Dove sta?
Antonio Caponi: Chi è?
Peppino Caponi: La signorina.
Antonio Caponi: Quale signorina?
Peppino Caponi: Hai detto "Signorina?".
Antonio Caponi: È entrata la signorina?!?
Peppino Caponi: [Di nuovo verso la porta] Avanti!
Antonio Caponi: ...Animale! "Signorina" è l'intestazione autonoma... della lettera... oh! Signorina! [Peppino cambia il foglio] Non era buona quella signorina là?
Peppino Caponi: è macchiata...
Antonio Caponi: Signorina!...veniamo... veniamo... [Peppino nel frattempo fa' da coro continuando a dettare a se stesso, per le prossime battute]...veniamo noi con questa mia addirvi.
Peppino Caponi: Addirvi...
Antonio Caponi: Addirvi, una parola: addirvi!
Peppino Caponi: Addirvi una parola...
Antonio Caponi: [Alzando la voce] Che!
Peppino Caponi: Che!
Antonio Caponi: Che è?
Peppino Caponi: Che è?
Antonio Caponi: Che è?
Peppino Caponi: Uno, quanti?
Antonio Caponi: Che è...
Peppino Caponi: Uno che!
Antonio Caponi: Uno che! Che è...
Peppino Caponi: Che è! eh..
Antonio Caponi: Scusate se sono poche...
Peppino Caponi: Che.
Antonio Caponi: Che è? Scusate se sono poche, ma SETTECENTOMILA [scandendo la cifra] lire, punto e virgola, noi.
Peppino Caponi: Noi...
Antonio Caponi: Ci fanno... specie che quest'anno, una parola, questanno... c'è stato una grande moria delle vacche [Peppino ripete, scrivendo], come voi ben sapete! Punto! Due punti!...ma sì, fai vedere che abbondiamo... abbondandis'id abbondandum... questa moneta servono, questa moneta servono... questa moneta servono acchè voi vi consolate... aho, scrivi presto!
Peppino Caponi: Conninsalate...
Antonio Caponi: Che voi vi consolate...
Peppino Caponi: Ah, avevo capito con l'insalata.
Antonio Caponi: Voi vi consolate, non mi fa' perdere il filo che ce l'ho tutta qui!
Peppino Caponi: Avevo capito coll'insalata!
Antonio Caponi: Dai dispiacere, dai dispiacere che avreta... che avreta... che avreta. Eh già, è femmina, è femminile. Che avreta perché... perché? io non so...
Peppino Caponi: Perché che cosa?
Antonio Caponi: Perché che? ohhhh, perché! Dai dispiacere che avreta perché! è aggettivo qualificativo, no?
Peppino Caponi: [Sottovoce] Io scrivo...
Antonio Caponi: Perché! Dovete lasciare... nostro nipote... che gli zii, che siamo noi medesimo di persona... [Peppino si tampona la fronte]...ma che stai facendo 'na faticata, si asciuga il sudore... [Peppino sospira]...Che siamo noi medesimo di persona, vi mandano questo. [Mostrando la scatola contenente i soldi]
Peppino Caponi: Questo.
Antonio Caponi: Perché il giovanotto è studente che studia, che si deve prendere una laura...
Peppino Caponi: Laura.
Antonio Caponi: Laura... che deve tenere la testa al solito posto, cioè... sul collo. Punto, punto e virgola. Punto e un punto e virgola.
Peppino Caponi: Troppa roba..
Antonio Caponi: Salutà..lascia fare..dicono che noi siamo provinciali, siamo tirati. Salutandovi indistintamente. Salutandovi indistintamente... sbrigati!...salutandovi indistintamente, i fratelli Caponi, che siamo noi... questa, apri una parente... apri una parente, dici: che siamo noi, i fratelli Caponi.
Peppino Caponi: Caponi...
Antonio Caponi: Hai aperto la parente? [Peppino annuisce] Chiudila!
Peppino Caponi: Ecco fatto...
Antonio Caponi: Volevi aggiungere qualcosa?
Peppino Caponi: [Mugugna qualcosa di incomprensibile]...senza nulla a pretendere, non c'è... non c'è bisogno...
Antonio Caponi: In ba... in data odierna.
Peppino Caponi: Beh, quello poi si capisce.
Antonio Caponi: Vabbè, si capisce.

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Rastrellamenti fascisti

1940 Teatro Quando meno te l aspetti 20 L

Eravamo nel 1944 quando i tedeschi si preparavano a lasciare Roma per l’avanzare delle truppe alleate dal Sud. Io mi trovavo al Teatro Eliseo a svolgere una stagione teatrale con la mia compagnia. Improvvisamente non si sa come, perché e da chi Totò, avendo saputo che tanto io quanto mio fratello Eduardo dovevamo essere “prelevati” dai tedeschi e condotti al Nord, si preoccupò di inviarci, in segreto, un amico ad avvertirci. Io e mio fratello interrompemmo le recite e trovammo sicuro rifugio presso la casa di una nostra cara amica nel rione Parioli. Totò ne venne a conoscenza. In quella bella accogliente dimora vi rimasi ben trattato e foraggiato con tutti i riguardi una quindicina di giorni ma sempre cercando nel mio cervello la ragione vera per cui ero stato costretto a tenermi nascosto. “Forse”, pensavo “mi sarò lasciato sfuggire qualche frase pericolosa... ma Totò come ha fatto a sapere? Che gli avranno riferito? Che sia stato uno scherzo...?” Il tempo passava in questa atmosfera di dubbio e sempre impaurito e preoccupatissimo. L’eventualità che qualcuno potesse scoprire il mio nascondiglio non mi faceva dormire sonni tranquilli.

Un giorno la cameriera di casa venne a dirmi che fuori, in sala, c'era una ragazza che chiedeva un mio autografo e che per ottenerlo poteva mostrarmi un biglietto di “raccomandazione”. Impensierito accettai di ricevere la ragazza e questa mi diede a leggere il suo bigliettino. Su questo era scritto: “Caro Peppino, questa bella ragazza desidera un tuo autografo, il mio l’ho già dato, le ho detto il tuo indirizzo, accontentala, Antonio”. Antonio era semplicemente Totò. Si può immaginare il mio disappunto. Andavo gridando per tutta la casa: “Ma Totò è scemo? Mi vuole fare fucilare? Ma come? Mi fa nascondere e poi va dicendo in giro dove sono nascosto? Ma è pazzo?” Nondimeno accontentai la ragazza che, ridendo ironicamente... se ne andò. In casa si dettero tutti da fare per calmarmi. Avessi avuto Totò nelle mani, in quel momento, lo avrei maltrattato seriamente. Fu tanto il mio “nervoso” che decisi di non partecipare alla cena. Avevo i nervi fino alla cima dei capelli. Ma poi... i pensieri, le preoccupazioni... mi fecero cambiare idea e... “poscia più che il dolor potè il digiuno”. Mi presentai in camera da pranzo e... dovetti subire lo sfottò di tutti i presenti.

A guerra finita, tornata la calma e la serenità negli animi di tutti, quando ebbi l’occasione di rivedermi con Totò gli domandai: “Ma Anto’? Chi venne a dirti che i tedeschi ci volevano portare al Nord? Fu uno scherzo? Dimmi la verità!” Rispose: “Uno scherzo? Fossi matto. Tutti gli artisti dovevano essere portati in alta Italia. Io pure. Ringrazia Dio che venni a saperlo da persona sicura”. “E la ragazza”, soggiunsi io, “quella dell’autografo?” “Quello si,” rispose lui, “quello fu uno scherzo!” Uno scherzo! Cosa da pazzi. In quell’epoca! Roba da infarto. Finalmente, come Dio volle, Roma vide le truppe alleate per le sue antiche vie fino allora tenute sotto il pesante tallone tedesco.

Peppino De Filippo


Il ricordo più divertente è un ricordo tragicomico... Era proprio il periodo della guerra. Io lavoravo al Valle e i De Filippo stavano all'Eliseo. Un amico mi chiamò dalla questura dicendomi che i tedeschi volevano arrestare me e i De Filippo. Allora telefonai a un amico per andarmi a nascondere. Prima di recarmi da lui, passai all'Eliseo per avvisare i De Filippo. Eduardo non c'era, c'era Peppino. Gli dico: «Peppì, qui succede così e così, bisogna scappare». «Ah sì, scappiamo, dove scappiamo? Dove scappiamo?» «Tu la prendi alla leggera, scherzi?» gli faccio. «Vengono i tedeschi, chi sa cosa ci vogliono fare...» «Ah, vengono qua? E dove ci portano? In albergo?» «No» gli dico, «ci fucilano!». E me ne andai, cioè corro a nascondermi da quest'amico che mi avrebbe ospitato gentilmente. Naturalmente nessuno doveva sapere che ero lì. Dopo mezz'ora che sto là, quest'amico mio viene e mi dice: «Senti, c'è una cugina mia che ti vuol conoscere, che ti ha visto a teatro, è una tua ammiratrice...». Dico: «Don Lui'», si chiamava Luigi, «Don Lui', nessuno deve sapere che sto qua...». «Sì, ma è una parente...». «Vabbe', Don Lui'...» Questa viene, piacere... piacere... e compagnia bella. Dopo un'oretta torna lui e dice: «C'è un mio compare...». Questo per due giorni di seguito. Alla fine dico: «Don Lui', qui dove sto io lo sa tutta Roma. Se i tedeschi chiedono dove sta Totò... tutti gli dicono che sta qua...».

Antonio de Curtis


Durante l’occupazione tedesca, misi in scena Quando meno te l’aspetti, una rivista scritta in collaborazione con Galdieri. Con Galdieri ho sempre avuto una splendida collaborazione, io mi occupavo degli sketch comici, lui del resto. Quando meno te l'aspetti aveva tutto un significato politico, era cioè “quando meno te l’aspetti la sorte muta”, e poi c’erano tante battute che si riferivano al regime di allora e che la gente captava immediatamente. Insomma, in quegli anni, quando c’era un regime che imponeva di non aprire bocca, la aprivamo magari con la paura, come nel caso mio...

Abbiamo avuto noie terribili e una bomba sul teatro, il Valle, e poi tutti i giorni richiami dal Ministero della Cultura Popolare. Pochi giorni prima della liberazione di Roma ebbi una telefonata dalla questura e una voce anonima mi disse: “Si nasconda perché verranno a prenderla”. Allora io tagliai la corda e mi rifugiai nella casetta di alcuni amici vicino Colleferro. Ma ci durai poco perché, di tutti i posti al mondo, ero andato a imboscarmi proprio vicino a una polveriera, con gli aerei americani che tutti i giorni venivano per bombardarla. Cosi tornai a Roma e mi eclissai in periferia. Si, i fascisti e i tedeschi volevano proprio portarmi al nord perché io con le battute della rivista in cui mettevo della malignità me la prendevo con loro. Ma del resto, vedevo i rastrellamenti, le fucilazioni, mica potevo restarmene a fare lo gnorri, e che caspita! Certo, ne abbiamo passate... Al nord volevano portarci anche Eduardo De Filippo, fui io ad avvertirlo.

Antonio de Curtis


Totò e... Peppino De Filippo - Le opere

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Totò, Peppino e... la malafemmina Se a Milano, quando c'è la nebbia, non si vede, come fanno i milanesi a vedere se c'è la nebbia? Lei deve essere obbiettivo, a noi queste frasi sotto semaforo non ci convincono!I fratelli Caponi Inizio riprese:…
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Totò, Peppino e le fanatiche Voi siete scapole, noi siamo scapoli... Ci facciamo una bella scapolata!Antonio Vignanelli Inizio riprese: aprile 1958, Teatri di posa INCIR - De PaolisAutorizzazione censura e distribuzione: 13 giugno 1958 - Incasso…
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Arrangiatevi! (1959)

Arrangiatevi! E lo volete un consiglio, militari e civili, piantatela con questa nostalgia! Oltre che incivili, è inutile! Ormai li hanno chiusi! A voi italiani è rimasto questo chiodo, fisso qui. Toglietevelo! Ormai li hanno chiusi!…
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Daniele Palmesi, quotidianodellumbria.it, Archivio Storico La Stampa
10543


Riferimenti e bibliografie:

  • "Totò", Orio Caldiron, Gremese, 1983
  • "Totò, l'uomo e la maschera", Franca Faldini - Goffredo Fofi, Feltrinelli, 1977
  • "L'avventurosa storia del cinema italiano", Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna, 2011
  • Peppino De Filippo, Strette di mano - Il principe De Curtis, “Il Messaggero”, 13 aprile 1969
  • Peppino De Filippo ne "La Voce di Napoli", 22 aprile 1967
  • "Totalmente Totò, vita e opere di un comico assoluto" (Alberto Anile), Cineteca di Bologna, 2017
  • "Il pianeta Totò", Giancarlo Governi, Gremese , 1992
  • La grammatica di Totò (e Peppino) - «Corriere della Sera», 18 agosto 2009
  • Ettore Mo, "In tandem con Peppino", «Corriere della Sera», 15 aprile 1977
  • Franca Faldini, intervista di Alberto Anile, "Totò e Peppino, fratelli d'Italia", Einaudi Stile Libero, Torino 2001, p. 67.
  • La lettera di Totò e Peppino - quicampania.it