47 morto che parla
Barone Antonio Peletti
Inizio riprese: novembre 1950, Studi Titanus Roma
Autorizzazione censura e distribuzione: 19 dicembre 1950 - Incasso lire 448.700.000 - Spettatori 4.314.423
Titolo originale 47 morto che parla
Paese Italia - Anno 1950 - Durata 82 min - B/N - Audio sonoro - Rapporto 1.33:1 - Genere comico - Regia Carlo Ludovico Bragaglia - Soggetto Ettore Petrolini - Sceneggiatura Vittorio Metz, Furio Scarpelli, Age, Marcello Marchesi
Totò: il barone Antonio Peletti - Silvana Pampanini: Marion Bonbon - Carlo Croccolo: il cameriere Gondrano - Aldo Bufi Landi: Gastone Peletti - Adriana Benetti: Rosetta - Arturo Bragaglia: il sindaco Tiburzi - Tina Lattanzi: Susanna, la moglie del sindaco - Gildo Bocci: il macellaio - Franco Pucci: il dottore - Eduardo Passarelli: il farmacista - Dante Maggio: Dante Cartoni -Mario Castellani: il colonnello Bertrand Jean de Lattre de Tassigny - Gigi Reder: strappabiglietti alle terme - Diana Lante
Soggetto
Campania, 1906. In un paese non meglio definito l'avarissimo barone Antonio Peletti ha ereditato dal padre una cassetta contenente monete preziose e gioielli dal valore altissimo. Nel testamento il defunto aveva espresso la volontà di devolvere metà del patrimonio al comune affinché venisse costruita una scuola, mentre l'altra metà passerebbe a suo nipote abiatico, ovvero il figlio di Antonio, Gastone, innamorato della cameriera Rosetta. Ma il barone Peletti, pur di non separarsi dal tesoro, nega di averlo mai ritrovato e in questo modo asserisce di non poter donarne la metà al comune.
Ma la scuola deve essere costruita subito (i bambini sono costretti a fare 4 km all'andata e 4 km al ritorno per andare alla scuola comunale del paese vicino) e, per riuscire a sapere dove il riccone tiene nascosto il suo tesoro, gli amministratori comunali, con un'efficace messinscena e l'aiuto di una compagnia teatrale, gli fanno credere di essere morto e di trovarsi nell'aldilà.
Perciò, credendo di essere morto e dietro la minaccia di terribili punizioni per la sua avarizia in vita, Peletti rivela il nascondiglio del tesoro. Ma l'imbroglio viene presto scoperto dal barone che medita di rendere pan per focaccia ai suoi concittadini. Dopo alterne vicende e dopo essere "naufragato" in Sardegna con la mongolfiera del colonnello Bertrand de Tassigny, il Peletti dovrà alla fine accettare le volontà del suo defunto genitore, ma si prenderà delle belle soddisfazioni sugli artefici della burla e verrà acclamato da tutto il paese come un generoso benefattore.
Critica e curiosità
C’era una volta — perché ogni storia che si rispetti, anche quella di una sceneggiatura — in un regno non tanto lontano chiamato Cinecittà, un progetto cinematografico di quelli che fanno salivare produttori, critici e spettatori da poltrona logora: 47 morto che parla. Un titolo che già da solo sembra partorito da un ossimoro in vena di cabaret. A dirigerlo fu Carlo Ludovico Bragaglia, artigiano del cinema popolare italiano, che qui mise in scena non un’idea originale, ma una trasposizione. Una parola che nel cinema italiano, come nel vino, può voler dire due cose: o stai per gustarti un classico ripensato con intelligenza... oppure stai per assistere a una messa in scena che sa di riscaldato. Ebbene, questa è entrambe.
Il film nasce da una commedia celebre, figlia del genio romano di Ettore Petrolini — uno che in vita seppe farsi beffe persino della morte, almeno finché questa non pretese il biglietto. Ma il compito di rimettere in circolo quella scintilla teatrale spetta a Totò, alias Antonio de Curtis, principe napoletano prestato alla maschera, il quale, con la solita modestia che in lui è sempre anche un pizzico di strategia mediatica, si affretta a dire: “Petrolini era un grande, io solo un povero barone... d’oro, certo, ma avaro.” Con un colpo solo si inchina alla memoria e rivendica il suo nuovo personaggio.
E che personaggio, signore e signori! Il barone Peletti, avarissimo fino all’ultima monetina (quasi sicuramente con sopra la faccia di Vittorio Emanuele II), che si ritrova gabbato da un intero villaggio che decide di punirlo con un esperimento di psicodramma collettivo: fargli credere di essere morto. E qui entra in scena la trovata: Totò diventa un fantasma, prima a sua insaputa, poi con deliberato gusto per l’ectoplasmico, come se avesse letto troppo Amleto e si fosse convinto che ogni tanto un attore debba davvero prendere dimora tra le nebbie sulfuree di Pozzuoli.
Ora, che Totò fosse attratto da un personaggio che muore ben tre volte non sorprende nessuno: c’era nel nostro comico un amore tutto personale per i cimiteri, le lapidi, le anime trapassate e i vivi che puzzano già un po’ di chiuso. Lo scenario infernale delle solfatare, con la nebbia che ti entra nel naso e ti fa tossire anche l'anima, è perfetto per far danzare la sua maschera tra il regno dei vivi e quello dei cretini — pardon, dei morti. Un luogo ideale, insomma, per fingere l’aldilà e al tempo stesso mettere alla berlina l’aldiquà.
Tuttavia, sotto questo travestimento da commedia spiritata, c’è una malinconia teatrale più profonda. Totò, che aveva fatto del nonsense e dell’anarchia la sua personale arma comica, qui si infila nel rassicurante pigiama di un testo teatrale, riscritto da Age e Scarpelli con il genio scanzonato che li distingue. Ma pur sempre un testo: solido, strutturato, collaudato. Una comoda cuccia per attori stanchi di improvvisare, ma anche una gabbia dorata per chi, come Totò, ha sempre amato sbilanciare il palcoscenico con un colpo di sopracciglio.
E quindi eccolo lì, Totò, a misurarsi con la tradizione — e con Petrolini — in una sorta di duello a distanza in cui si rifiuta di sparare ma intanto spara battute come proiettili. Ne esce vincitore, certo, ma un po’ più serio, un po’ più “interprete”, un po’ meno genio pazzoide. È il compromesso di chi decide di fare anche l’attore “di prosa”, sacrificando una spruzzata di genio comico sull’altare della compostezza.
Ma attenzione: non tutto è perduto. Perché nel mezzo di questa struttura teatrale raddrizzata a colpi di sceneggiatura, Totò trova i suoi spazi per brillare. I momenti d’oro ci sono, eccome: i dialoghi tragicomici col povero Croccolo (un cameriere che sembra uscito da una dieta di carestia e vessazione), la mitica esclamazione “E io pago!” — che da sola vale il prezzo del biglietto e l’intera storia fiscale d’Italia — e soprattutto la leggendaria scena con il macellaio, dove l’avarizia si misura in fettine di carne e sarcasmo crudo.
Eppure, e qui sta il nodo del ragionamento critico, ogni volta che Totò si mette in riga con la sceneggiatura, ogni volta che si comporta da “attore serio”, la sua maschera cede un pezzo di sé. Come se sotto il cappello a cilindro del barone si nascondesse un teschio che rideva a squarciagola, ma ora ride un po’ più piano. Come se l’avanguardia dissennata e dadaista di Totò venisse messa al guinzaglio da una storia che chiede coerenza, motivazione, consequenzialità. Tutte cose, diciamolo, che al Totò migliore non interessavano affatto.
E quindi, alla fine, 47 morto che parla è un film paradossale: un successo professionale, certo, probabilmente il miglior risultato della collaborazione Bragaglia-Totò; ma anche un’opera che mette il comico davanti a uno specchio inquietante, dove il riflesso sorride... ma meno del solito.
E il pubblico? Il pubblico ride comunque. Perché anche quando Totò si tiene un po’ a freno, resta sempre il più bravo a guidare la carrozza dell’assurdo con i cavalli dell’eleganza e della follia. Ma dentro quella risata resta un piccolo rimpianto: che il fantasma, stavolta, non sia del tutto lui, ma solo il riflesso ben pettinato di ciò che era stato.
👻 “E io pago!”: l’avarizia come mantra esistenziale
Cominciamo da quello che potremmo definire il santino apocrifo del barone Peletti: la frase “E io pago!”, martellata con ostinazione ascetica da Totò, assurge qui a filosofia di vita, a codice morale distorto, a testamento spirituale dell’avaro per eccellenza. Ogni volta che il barone si trova costretto a sborsare anche solo mezza lira, lo fa con lo stesso dolore di un santo che offre il martirio al suo Dio.
Ma attenzione: non è solo una battuta. È una postura, una liturgia. Quando Totò la pronuncia, non lo fa con disprezzo, ma con uno sdegno ferito, quasi evangelico. Il “pago” non è solo una moneta versata, è un’offesa, una sconfitta personale, una tragedia greca in formato lire. La regia di Bragaglia lo sa, e infatti indugia sempre qualche istante in più su Totò dopo ogni esclamazione: per farci godere quell’occhiata livida, quel sopracciglio alzato che vale un trattato sull’economia dell’egoismo
🥩 La fettina di carne: Totò contro il capitalismo da banco
Una delle scene più ricordate — e giustamente — è quella che vede il barone alle prese con un macellaio, interpretato da Gildo Bocci, in una tragicommedia sulla microeconomia. L’oggetto del contendere? Una fettina. Sottile. Quasi trasparente. Così sottile che verrebbe voglia di controllare se non sia stata disegnata con la matita.
Qui Totò tocca vette di comicità fisica e verbale altissime: millimetrico nel valutare lo spessore della carne, arzigogolato nel cercare pretesti per pagare meno. Ma soprattutto straordinario nel modo in cui trasforma una banale compravendita in una guerra ideologica. Il linguaggio diventa una spada: ogni parola una finta, ogni pausa una minaccia.
È una lezione di regia minimalista: due attori, un banco, un coltello e un pezzo di carne. Eppure, il mondo intero è lì. Il capitalismo, la miseria, la furberia popolare, la logica dell'accumulo, la teatralità del quotidiano.
Il risveglio nelle solfatare: Totò all’Inferno, ma con stile
Se c’è una scena che possiamo chiamare “visivamente poetica”, è quella in cui Totò si risveglia a Pozzuoli, avvolto nella nebbia delle solfatare, convinto — grazie a un inganno collettivo — di essere defunto e già in transito verso l’aldilà. Bragaglia qui si diverte a giocare con il gotico napoletano: c’è il lenzuolo bianco stile fantasma, c’è la lapide con tanto di nome inciso, c’è l’atmosfera da limbo dantesco, ma con accento partenopeo.
Il risultato? Un’elegante parodia dell’aldilà. Totò, per parte sua, si lascia andare a una performance che alterna lo spavento sincero alla recita consapevole. Prima ci crede davvero — e allora suda freddo, inciampa, si guarda le mani come se cercasse le stigmate — poi capisce che c’è puzza di fregatura, e allora passa al contrattacco, rispolverando l’arte del sospetto e della mimica demoniaca.
Non è un caso che proprio questa scena sembri far brillare Totò di una luce (anzi, di un fumo) particolare. È il comico che si mette in posa da tragedia, che flirta con la metafisica per il gusto di abbatterla un secondo dopo con una pernacchia esistenziale.
🧟 Il fantasma che sa di esserlo: metateatro e beffe
Una volta scoperto l’inganno, Totò non si limita a smascherarlo. No, lui ci si infila dentro con la gioia dell’attore che sa che la maschera ha ormai più potere della realtà. Comincia così un doppio gioco esilarante: Peletti si finge ancora un fantasma per smascherare chi voleva imbrogliarlo. E in questo cortocircuito narrativo, Totò esplode in tutta la sua gloria metateatrale.
È qui che lo spettatore esperto può notare la genialità del copione di Age e Scarpelli: il protagonista si finge morto, poi si finge vivo, poi si finge morto di nuovo per fregare i vivi. È Totòception. Ogni livello è un’occasione per variare il tono, per modulare la voce, per dosare il gesto. Bragaglia tiene la macchina da presa ferma, consapevole che basta un movimento della pupilla per farci ridere più di cento effetti speciali.
🧽 Croccolo e Totò: padroni e servi nella commedia eterna
Infine, non possiamo tralasciare il rapporto tra Totò e il cameriere Croccolo, il servo classico, quello che dice “sissignore” mentre pensa “muori lentamente”, e che incarna il popolo oppresso dal barone ma troppo codardo (o troppo affamato) per ribellarsi.
Il dialogo tra i due è una sinfonia perfettamente scritta: Totò ordina come un generale, Croccolo esegue come un soldato stanco. Ma sotto sotto, i ruoli sono più fluidi: Croccolo è la coscienza silenziosa della scena, l’eco morale di cui il barone ha bisogno per sembrare ancora più odioso — e quindi più comico.
Ogni “ordine” di Totò è una caricatura del potere. E ogni “obbedisco” di Croccolo è una piccola vendetta teatrale. È un balletto sadico che riecheggia Molière, ma con più fame e meno parrucche.
📜 Conclusione: un classico incastrato tra genio e gabbia
In 47 morto che parla, Totò si misura con la materia teatrale come un prestigiatore costretto a usare le carte truccate di un altro. Le maneggia con abilità, le rende sue, ma il mazzo resta segnato. I momenti più memorabili del film sono quelli in cui la maschera-Totò riesce ancora a farsi beffe della sceneggiatura, a piegarla al suo ritmo, al suo gesto, al suo nonsense illuminato.
Certo, la comicità anarchica degli anni d’oro sembra qui un po’ più educata, un po’ più stretta nel busto. Ma non per questo meno efficace. Anzi, proprio nelle pieghe di una narrazione “seria”, Totò riesce a mostrare quanto profondamente teatrale — nel senso più nobile — sia il suo talento.
Così la stampa dell'epoca
📰 La critica dell’epoca: tra entusiasmo e analisi ponderata
Arturo Lanocita, nel Corriere della Sera del 27 dicembre 1950, sottolineò come Totò, in questo film, si discostasse dalla consueta maschera comica per abbracciare un personaggio più strutturato: "Totò, questa volta in un film costruito, ossia con capo e coda; c'è dentro un racconto filato e, cosa ancor più nuova, c'è un personaggio che non è soltanto un fantoccio, ma un carattere fin troppo delineato."
Gianni Casieri, su Cine Sport del 2 gennaio 1951, evidenziò la performance di Totò come "spassosissimo, brillante ed effervescente", notando come la commedia di Petrolini gli permettesse di offrire un'ottima interpretazione al di fuori dei limiti della forza e della parodia.
Gian Luigi Rondi, su Il Tempo del 6 gennaio 1951, osservò che il film rappresentava un progresso rispetto ad altre opere di Totò, grazie a una maggiore coerenza narrativa e a una regia onesta di Carlo Ludovico Bragaglia.
La Nuova Stampa, il 3 gennaio 1951, notò che il film, pur prendendo spunto dalla commedia di Petrolini, si avvaleva di una buona sceneggiatura e di una ricostruzione ambientale gustosa, con Totò che divertiva con le sue inaffabili disavventure.
🎬 Un fantasma al botteghino: il pubblico ride, eccome se ride
Nonostante il titolo lasciasse presagire un film da commemorazione postuma, il pubblico accorse numeroso. L’Italia del dopoguerra, quella che ancora si scrollava di dosso i calcinacci e il pane razionato, trovava in Totò un’àncora. Ma non una di quelle serie, da naufrago disperato: una boa comica, un galleggiante allegro in un mare di macerie.
Il film fu un successo commerciale. La gente si spintonava fuori dai cinema — quelli rimasti in piedi — con le battute già in bocca, pronte per essere riciclate a tavola, sul tram, o davanti al macellaio (citazione non casuale). La frase “E io pago!” diventò quasi un proverbio. Un modo per esorcizzare l’inflazione, la miseria, le tasse e il vicino che non restituisce mai il sale. Totò, ancora una volta, era riuscito a far ridere un Paese che aveva più voglia di piangere che di vivere.
🧐 La critica: soddisfatta, ma con il sopracciglio sollevato
I critici dell’epoca accolsero il film in maniera tutto sommato positiva, ma con quel distacco tipico di chi si sente in dovere di ricordare che Petrolini era un’altra cosa. La trasposizione fu giudicata ben fatta, la regia di Bragaglia solida, il copione di Age e Scarpelli brillante e rispettoso dei tempi comici. Ma — e qui il “ma” è grosso quanto una lapide — qualcuno notò che Totò sembrava essersi “incamiciato”, avvolto in un personaggio più rigido, più teatrale, meno libero di scomporsi e deragliare come suo solito.
Alcuni recensori videro nella performance di Totò una prova d’attore “vera”, un salto di qualità nel senso canonico della parola. Ma per gli aficionados del Totò surreale, che fino ad allora era stato come un fuoco d’artificio impazzito in una stanza buia, quel rigore attoriale era anche un’amputazione. Si lodò la sua capacità di entrare in un ruolo “di carattere”, certo, ma si lamentò anche — con eleganza — la perdita di quel caos comico che era diventato il suo marchio.
In soldoni, i critici scrissero cose tipo: Totò è bravissimo, ma ci manca il Totò che si inventava le regole invece di rispettarle.
📣 I petroliniani irriducibili: il culto contro la modernità
E poi c’erano loro: i fedeli di Petrolini. Quelli che ancora si sedevano al bar a imitare Gastone o Nerone con la convinzione che il teatro vero fosse finito con la camicia nera (quella scenica, si intende). Per questi cultori del verbo romanocentrico, Totò — pur bravissimo — osava troppo. Scippava un testo sacro per farne cinema, cioè pop, cioè qualcosa che la zia Concetta poteva vedere mangiando noccioline, e questo non andava bene.
Qualcuno lo disse apertamente: Totò non avrebbe dovuto misurarsi con Petrolini. Non perché non ne fosse degno, ma perché erano due rette parallele che non dovevano incontrarsi. Petrolini era l’inventore, Totò l’esecutore. Una distinzione ingiusta, forse, ma molto diffusa all’epoca, almeno nei circoli intellettuali più ingessati.
🎭 Il pubblico intellettuale: tra lusinga e sospetto
Il mondo culturale guardava con un misto di stupore e fastidio. 47 morto che parla sembrava, per alcuni, il tentativo di “nobilitare” Totò, di dargli un pedigree teatrale per farlo accettare nei salotti buoni, tra gli scaffali pieni di Pirandello e i posacenere pieni di Gauloises. Un Totò che recita L’avaro, anche se contaminato, era una tentazione troppo forte per certi critici: “Forse è il Chaplin italiano”, dicevano. Ma lo dicevano a bassa voce, non si sa mai.
In breve: apprezzavano, sì. Ma con la mano sempre pronta a correggere il voto. “Bravo, Totò. Però attento: non diventare normale.”
🧾 Bilancio finale: una mezza benedizione, un trionfo popolare
In conclusione, 47 morto che parla fu un film che mise d’accordo quasi tutti, anche se con riserve diverse:
- Il pubblico comune? Soddisfatto, divertito, grato.
- La critica? Piacevolmente sorpresa, ma nostalgica del Totò più selvaggio.
- I cultori del teatro? In trincea, armati di Petrolini e rancore.
- Gli intellettuali? Incerti se lodare o temere l’ascesa del Totò “serio”.
E Totò? Lui incassò tutto — il successo, le critiche, le nostalgie — con quella sua tipica espressione da chi ha già previsto tutto. Come il barone Peletti, anche lui sapeva che ogni tanto bisogna fingersi morto per sopravvivere meglio nel regno dei vivi.
Tre volte si spegne e tre volte resuscita Totò nel film 47, morto che parla, di Carlo Ludovico Bragaglla; come se fosse munito di una tessera di libera circolazione fra questo mondo e l’altro, egli non fa in tempo ad andarsene che già é di ritorno. Questa volta il popolare comico é nel centro d'una pellicola ricca d'azione e di dialogo, di natura dichiaratamente farsesca, vagamente ispirata a Petrolinl, e gli tocca di vestire un tetro mantello nero che gli dà un’aria cadaverica anche in quelle rare occasioni in cui figura da vivo. E' la commedia della sordidità.[...] Per i nostri gusti, qui, Totò (come già In Napoli milionaria) dà la misura delle sue possibilità meglio che nelle scollacciate pellicole senza filo e senza costrutto alle quali troppo spesso offre la sua partecipazione. [...] Un tipo di seconda mano è preferibile a un pupazzo che si abbandona a i smorfie e a lazzi; meglio, insomma, un film che venga dalla commedia che un film derivato, alla peggio, dalle scucite dozzinalltà della rivista.
Art., «Corriere d'Informazione», 20 dicembre 1950
Totò, questa volta in un film «costruito», ossia con capo e coda; c'è dentro un racconto e filato e, cosa ancor più nuova, c'è un personaggio che non è soltanto un fantoccio, ma un carattere fin troppo delineato. Che sia stato in realtà Molière a delinearlo e che il film si ispiri più al suo Avaro che alla commedia di Petrolini da cui ha tratto Il titolo, altro discorso. [...] E' un film recitato, questa volta, dal principio alla fine; si che Totò non risulta soltanto una marionetta, ma un bravo attore; e quasi attrice anche — gradita sorpresa — quella Silvana Pampanini che finora era nota solo come un'avvenente ragazza. Negli esterni — il villaggio le botteghe, le vie — e negli interni la parte scenografica è curata con attenzione. Se l'inferno sia stato costruito veristicamente non so; informerò a suo tempo, dopo il sopralluogo.
Arturo Lanocita, «Corriere della Sera», 27 dicembre 1950
Tratto dalla commedia di Ettore Petrolini, il film narra le disavventure del Barone Antonio Peletti, ricchissimo ed avaro. A causa di un favoloso tesoro, il povero Barone viene preso di mira da una combriccola capeggiata dal farmacista del paese, il quale gli fa credere di essere già morto.
Il Barone diviene così fantasma suo malgrado e, dietro imposizione di falsi spiriti supremi è costretto a rivelare l'esistenza della cassetta del tesoro.
Di qui sorgono innumerevoli complicazioni, che se in tramezzano a scene divertentissime, piene di schietto umorismo. Totò è al centro della vicenda: è spassosissimo, brillante ed effervescente. La commedia di Petrolini gli permette oltretutto di offrirci un'ottima interpretazione, al di fuori dei limiti della forza e della parodia. Scintillante Silvana Pampanini, nel ruolo di una soubrette di caffè Chantal. bravi tutti i punti Maggio, Passerelli, Bragaglia, Castellani, la Benetti, la Lattanzi.
Gianni Casieri, «Cine Sport», 2 gennaio 1951
Rispetto alla filmaglia degli ultimi Totò, questo 47, morto che parla rappresenta un netto progresso sia per decenza di forma, sia per coerenza e sensatezza di racconto. Incorniciato in un filmetto che sta insieme, lo stesso Totò fa un altro vedere: raccoglie intorno a un «carattere» le sue ottime qualità di attore. Dalla omonima commedia di Petrolini è stato tolto in prestito appena il motivo del protagonista cui fatto credere di essere morto e di ritrovarsi nell'al di là: tutto il resto è di Plauto e dei suoi seguaci: l’avaro, la cassetta, e gli sforzi per portargliela via.[...] Quasi sempre in farsa sta nei limiti del buon gusto, e non fa, come troppe altre, affidamento su freddure, doppisensi e nudità femminili.
vice, «La Nuova Stampa», 3 gennaio 1951
Ispirato all'omonima commedia di Petrolini, questo filmetto - ennesimo della serie dei Totò - riproduce del testo originale solo lo spunto, la burla, [...] ed altro ancora che. non sempre, riesce a fondersi con eguale umorismo al nucleo centrale della vicenda. Totò, comunque, questa volta - e meglio ancora che in Totò sceicco - ha recitato la parte del protagonista con felice misura, più rispettoso delle battute del testo che non esagitato improvvisatore. Il risultato spesso, in grazie anche alla onesta regia di Carlo Ludovico Bragaglia, non è stato molto sgradevole e il pubblico ha trovato sovente occasione liete di divertimento.
G.L.R. (Gian Luigi Rondi) «Il Tempo», 6 gennaio 1951
Prendendo a pretesto una farsa di Ettore Petrolini, questo film narra la storia di un avaro barone paesano che tiene aggrinfiata una vistosa eredità che dovrebbe invece dividere con il Comune. Per fargli togliere le unghie dall'eredità — una cassetta di preziosi — la gente del paese escogita un sistema di trucchi che fa credere al barone di essere già morto e seppellito. Di qui un seguito di equivoci e di avventure.
II film, che è ambientato nei tempi del primo novecento, è, in un certo senso tra i migliori interpretati da Totò. Innanzi tutto perchè il bravo comico dà vita con successo, special mente nella prima parte del film, ad un personaggio vero e proprio, sia pure il vecchio personaggio dell'avaro dell'Arpagone che ha attratto tutti i facitori di commedie. In secondo luogo, il film si vale di una buona sceneggiatura — desunta da Petrolini ed arricchita — e di una ricostruzione ambientale sufficientemente gustosa. Da un film di Totò, considerati i molti precedenti, c'era da attendersi di peggio.
t.c., «L'Unità», 6 gennaio 1951
Liberamente ridotto dalla omonima commedia di Ettore Petrolini. [...] Diretto da Carlo Ludovico Bragaglia con incalzante alacrità e articolata scioltezza, il film fila allegramente seguendo le amene peripezie del tesoro e del barone che, impersonato dall'impareggiabile Totò, trova modo di divertire con le sue in affabili disavventure. Silvana Pampanini, Adriana Benetti, il Maggio, il Croccolo, il Landi, il Bocci, il Passerelli, completano vivacemente la distribuzione.
E.C. (Ermanno Contini) «Il Messaggero», 6 gennaio 1951
al. or. (Alfredo Orecchio), «Paese Sera» Roma, 7 gennaio 1951
Carlo Ludovico Bragaglia ha costruito una velocissima sarabanda cinematografica contaminando l'«Avaro» molieriano con uno spunto cavato dalla famosa farsa di Petrolini, aggiungendo inoltre al risultato di questo connubio alcuni effetti puramente meccanici. Il tutto in funzione di un Totò piuttosto inedito, almeno per tutta la prima parte: di un Totò attore che non esibisce solo nei soliti sberIeffi ma «recita». Il pubblico, che sembra non sia ancora stanco di quella che un umorista ha battezzato «cinematotografia», ha riso ed ha mostrato di gradire il buono ed il cattivo, di questo film, in cui appaiono, accanto al popolare mimo la smagliante Silvana Pampanini, il bravo Croccolo, Adriana Benedetti, Dante Maggio, Gildo Bocci e Passarelli.
caran. (Gaetano Carancini), «La Voce Repubblicana», 7 gennaio 1951
Chi conosce l'omonima commedia di Petrolini, sa di cosa si tratta. Il tesoro nascosto, il finto morto, la baallerina e il fantasma, il volo in pallone, i gioielli perduti e ritrovati, il lieto fine. Una serie di gustose e grottesche situazioni in cui Totò ha fatto sfoggio di tutte le sue risorse vivacemente coadiuvato da Silvana Pampanini, Adriana Benetti, Maggio, Croccolo, Landi, Bocci, Passarelli.
vice, «Il Giornale d'Italia» 7 gennaio 1951
Un regista un giorno cercò di spiegarmi il mistero del Totò comico cinematografico. Totò, mi disse, è anzitutto un onesto professionista. Il suo apporto al film è puramente tecnico, come quello di chi viene scritturato per fare bolle di sapone: costui si interesserà alla qualità delle sue bolle, non certo al modo di inserirle nel meccanismo del film, che non è affar suo. E cosi accade per Totò: tanti milioni per tante smorfie.
Totò è disposto a discutere appunto la qualità delle smorfie, a imporre magari in proposito la propria volontà sullo stesso regista, non certo a preoccuparsi della qualità del film che su quelle smorfie è intessuto, Questa posizione professionale gli permette di lavorare molto e senza eccessiva fatica — meno che mai con Io spreco di energie che il pubblico, abituato ormai a vedere un suo film ogni settimana, gli attribuisce —. Anzi, la tecnica del cinema gli permette di esimersi da certi obblighi teatrali, dall’imparare a memoria il copione, per esempio, improvvisando davanti alla macchina da presa dietro sommari suggerimenti, il che più si conferisce alla sua natura di «maschera» della commedia dell’arte.
Addirittura, tutti coloro che hanno parlato di commedia dell’arte, a proposito di Totò (a torto o a ragione), potranno trovare forse una riprova in questi esperimenti cinematografici, in cui la meccanicità e la gratuità del lazzo è totale. Il discorso vale soprattutto per il recentissimo «47 morto che parla». Il quale film ha peraltro una novità: è terribilmente triste. Triste come tutte le macchine che si inceppano e si fermano.
«Tempo», anno XIII, n.3, 20 gennaio 1951
Il film si vale di un canovaccio di Petrolini e ci presenta un'edizione di Totò assai migliore delle precedenti. Il comico questa volta non fa soltanto una marionetta, ma riesce a declinare un vero carattere: ove si dimostra che, con una regia di un certo talento, Totò può dare molto di più di ciò che ci ha regalato fino ad ora. Anche Silvana Pampanini che gli è compagna, appare qui come promettente attrice e non soltanto come una bellissima ragazza. Il film è diretto da C. L. Bragaglia.
Vice, «La Gazzetta di Reggio», 25 gennaio 1951
Da un vecchio canovaccio di Ettore Petrolini, da lui ripetutamente interpretato, il regista totoniano Carlo Ludovico Bragaglia ha allestito, con intendimenti purtroppo più farseschi che satirici, questo film che, naturalmente, si vale dell'opera di Totò. Petrolini, rifacendosi all'Avaro di Molière, aveva senza dubbio mirato a costruire una commedia d’arte con un carattere centrale ben qualificato. Nella riduzione cinematografica, se si escludono alcuni episodi in cui il personaggio dell'Avaro riesce ad essere coloritamente espressivo grazie ad una mimica più controllata di Totò. L' insieme della pellicola entra, e non sempre, felicemente, nei motivi più triti e banali della comica. [...] Bragaglia ha accentuato i lati ridanciani, indugiandosi ad inseguire alcuni noti atteggiamenti di Totò che (tanto per cambiare) trovasi in compagnia di Silvana Pampanini ancora una volta impiegata in funzione di «sex». Si rivede e con piacere Adriana Benetti, abbastanza graziosa ma poco impegnata.
t. ci., «Il Lavoro», 10 febbraio 1951
[...] Anche la tv li ama e come; essi riempiono provvidenzialmente interi pomeriggi festivi. Meglio, ad ogni modo, la cento metri a ostacoli, fosse anche ripetuta mille volte che un film come «47 morto che parla» dove era difficile persino riconoscere i protagonisti: la bella Pampanini e Totò.
m.a., «La Stampa», 25 luglio 1960
L'avaro barone
Una volta tanto Totò non fa la parte del poveraccio. Ma in 47 morto che parla di inedia rischia di morire lo stesso. Il barone Antonio Peletti, il protagonista del film diretto da Carlo Ludovico Bragaglia, è avaro, avarissimo. E‘ cosi taccagno che, per risparmiare qualcosa, non da il buongiorno alla gente incontrala per strada. Lesina su tutto: sull'acqua da bere (« mezzo bicchiere è fin troppo») e sulla biada del cavalla perché, spiega. «bisogna abituarlo a non mangiare». Pretende che gli altri siano generosi con lui. Il cameriere deve servirlo gratis.
Il mendicante, che chiede l'elemosina davanti il suo palazzo, ha da pagargli l'affitto del posto occupato, e il macellaio bisogna si adatti a consegnargli, oltre alla carne, del denaro le poche volte che ha l'onore d’avere il barone come cliente, E, nonostante possegga una cassetta di gioielli e di monete d'oro, il nobile Peletti se ne va in giro agitando un "certificato di povertà".
47 morto che parla, un film ispirato a un lavoro di Petrolini «aggiornato» da Age, Scarpelli, Marchesi e Metz, è spia del metodo usato da Totò nel disegnare un carattere. L'attore napoletano, che pure aveva il gusto dell'osservazione realistica (e lo dimostrò in parecchie comiche), evita qui il «ricalco dal vero». Preferisce rafforzare le tinte, esagerare le movenze, «scatenarsi» nelle invenzioni come si è sempre fatto sulle tavole degli spettacoli popolari.
Si veda, in 47 morto che parla, che cosa sia andato a scovare nei magazzini dello studio: un cappellaccio duro, un bastone da sbattere sulle spalle dei monelli. un mantello alla Dracula, un paio di guanti che lasciano le dita in libertà. E, dentro quei panni che farebbero la gioia di un guitto, si muove su uno scenario da operetta con l'aria più naturale di questo mondo. Sa che per merito suo, il pubblico accetterà la più smaccata convenzione teatrale, non si preoccuperà dell'assenza d’ogni verosimiglianza.
A guardare bene. Totò non sta quasi mai al gioco del verosimile, da cui altri comici sanno ricavare occasioni d'allegria Si, dietro te spalle detrattore, che certe volte appariva nelle vesti del « pazzariello » napoletano, si scorge la faccia bianca di farina, tagliata nel mezzo dalla maschera di cartone, di Pulcinella. Ma, si badi, Totò finge d'essere il diseredato cui la gran fame torce le budella o il barone che, per non spendere, si dimentica di man fruire. Povero oppure avaro, lo è per burla, per finzione. E' l'attore che, recitando la scena della fame o dell'avarizia, sa di divertire il pubblico. E' il buffone di quella nuova, spesso crudele corte che è la platea cinematografica.
Insomma, per riprendere una intuizione del critico E. F. Palmieri Totò era un miserabile o un barone da commedia; ossia, in lui un istinto realistico era stato modificato dalla consuetudine cui varietà minore che, al rozzo ma genuino umorismo contadino, preferisce le barzellette da caserma. Eppure proprio lavorando su materiali discutibili, che oggi possono sembrarci «superati», Totò riuscì a tenersi stretto il suo pubblico per decine e decine danni.
Francesco Bolzoni, «Radiocorriere TV», aprile 1968
47 morto (avaro) che parla
Alle 21.35 invece, Totò, con uno dei suoi film più divertenti, 47 morto che parla che Carlo Ludovico Bragaglia realizzò nel 1950, anno in cui Totò, che non rinunciava alla popolarità conquistata sullo schermo, girò ben sette film. I riferimenti erano di una certa autorità: il soggetto derivava da una commedia di Petrolini e gli sceneggiatori dichiararono che, nello scrivere, si erano perfino ricordati di Molière e del suo Avaro.[...] Ma nel film con Totò c'è da notare che egli si portava dietro tutti i compagni di cordata del palcoscenico, tanto che spesso in essi appaiono cast che sembrano locandine di rivista e comunque assai preveggenti nei confronti di future popolarità: nel film di stasera, oltre al fedele Mario Castellani, c'è Carlo Croccolo; [...]
«Corriere della Sera», 23 luglio 1981
🎞️ Flani pubblicitari: Totò al cinema, a caratteri di piombo 🎞️
I flani pubblicitari erano piccoli annunci a pagamento, pubblicati su quotidiani e riviste specializzate, che anticipavano l’uscita del film. Alcuni recavano titoli alternativi, errori di stampa, o locandine diverse da quelle ufficiali. In questa galleria abbiamo raccolto le versioni più rare e curiose riguardanti Totò.
I documenti
Ecco una panoramica dettagliata e filologicamente accurata delle principali edizioni in VHS e DVD del film 47 morto che parla di Carlo Ludovico Bragaglia, con protagonista Totò. Questa raccolta include informazioni sulle date di uscita, le caratteristiche tecniche e i contenuti speciali disponibili.
📼 Edizioni VHS
1. Fonit Cetra – Collana "Il Grande Cinema di Totò"
- Anno di uscita: Anni '90
- Caratteristiche:
- Durata: 95 minuti
- Lingua: Italiano
- Formato: Bianco e nero
- Etichetta: Fonit Cetra
- Note: Questa edizione faceva parte di una collana dedicata ai film di Totò, distribuita principalmente attraverso canali editoriali e collezionistici.
2. Fabbri Video – Serie da edicola
- Anno di uscita: Anni 2000
- Caratteristiche:
- Durata: 95 minuti
- Lingua: Italiano
- Formato: Bianco e nero
- Distribuzione: Edicola
- Note: Parte della collana "Il Grande Cinema di Totò", questa edizione era destinata al grande pubblico e distribuita attraverso le edicole italiane.
💿 Edizioni DVD
1. Fabbri Editori – Collana "Il Grande Cinema di Totò"
- Anno di uscita: 2005
- Caratteristiche:
- Durata: 82 minuti
- Lingua: Italiano
- Formato: PAL, Regione 2
- Audio: Mono
- Sottotitoli: Italiano
- Contenuti speciali: Non presenti
- Note: Versione da edicola, spesso priva di booklet o inserti cartacei.
2. Ripley's Home Video – Edizione Speciale
- Anno di uscita: 2006
- Caratteristiche:
- Durata: 82 minuti
- Lingua: Italiano
- Formato: 1.33:1, PAL, Regione 2
- Audio: Dolby Digital 5.1
- Sottotitoli: Italiano per non udenti
- Contenuti speciali: Trailer originale, curiosità, galleria fotografica
- Note: Questa edizione si distingue per la qualità audio migliorata e per la presenza di contenuti extra che approfondiscono il contesto del film.
3. DVD.it – Edizione Singola
- Anno di uscita: 2008
- Caratteristiche:
- Durata: 82 minuti
- Lingua: Italiano
- Formato: Full Screen
- Audio: Dolby Digital
- Contenuti speciali: Non specificati
- Note: Edizione standard destinata al mercato home video, con caratteristiche tecniche basilari.
4. Toto' Collection – Box Set 3 DVD
- Anno di uscita: 2009
- Caratteristiche:
- Film inclusi: 47 morto che parla, Allegro fantasma, San Giovanni decollato
- Lingua: Italiano
- Formato: Full Screen
- Audio: Dolby Digital 5.1
- Contenuti speciali: Non specificati
- Note: Box set dedicato ai fan di Totò, che raccoglie tre delle sue interpretazioni più celebri.
📡 Disponibilità in Streaming
- Prime Video: Il film è disponibile per lo streaming su Prime Video, offrendo un'opzione moderna per la visione (anno 2025)
📝 Conclusione
Le edizioni di 47 morto che parla disponibili sul mercato italiano si rivolgono principalmente a collezionisti e appassionati del cinema classico italiano. Le versioni in VHS rappresentano pezzi da collezione, mentre le edizioni in DVD variano per qualità audio-video e presenza di contenuti extra. L'edizione di Ripley's Home Video del 2006 si distingue per i suoi contenuti speciali e per l'audio rimasterizzato, rendendola una scelta consigliata per chi cerca un'esperienza di visione più completa.
1950, film 47 morto che parla: nella sequenza che riprende l'ingresso del Barone Peletti in casa, Gondrano (Carlo Croccolo) richiude la porta. Un addetto al set si assicura che la porta non sbatta. La sequenza, non tagliata, rimane anche nella matrice originale.
Cosa ne pensa il pubblico...
I commenti degli utenti, dal sito www.davinotti.com
- Una delle migliori opere interpretate dal principe De Curtis. Sempre eccelso nelle gag, Totò interpreta stavolta un personaggio sfaccettato in un film dalla trama ben strutturata che, pur con alcuni picci qualitativi, mantiene un buon livello generale per tutta la sua durata, grazie ad una sceneggiatura ben scritta. Oltre al protagonista, è d'obbligo citare le buone interpretazioni di caratteristi come Castellani e Croccolo.
- Il registro comico viene smorzato da improvvisazioni inattese (sconfinanti nel drammatico) date dall'avarizia di un melanconico -pur se ricco- barone Antonio Peletti (Totò) talmente povero di spirito da negare il saluto a chi incontra per strada. Ispirato ad una commedia del grande attore teatrale Ettore Petrolini (ispiratore della vis comica di De Curtis), la sceneggiatura di Age/Scarpelli e Metz/Marchesi non rifugge da considerazioni tragico/pietose, infondendo al film un carattere superiore rispetto alle coeve pellicole ammantate d'ironia.
MOMENTO O FRASE MEMORABILI: la scena del "finto" inferno, nel quale alcuni burloni fanno precipitare "L'Avaro": nel quale "il vil denaro" non serve a (niente)nessuno...
- Ricco e avaro: Totò gioca bene col suo personaggio, mettendo a segno gag e battute (“...e io pago!”) in un plot da commedia degli equivoci, che dopo un inizio un po’ blando inizia a cavalcare proprio grazie al crescente buon incastro tra la verve brillante del protagonista e una trama particolarmente strutturata e ben congegnata. Si fa credere al taccagno di esser defunto perché sveli le sue ricchezze, ma non è che l’inizio di un vortice altalenante di variazioni sul tema della beffa e della morte, che mette a segno diverse sequenze argute.
- Tra le pellicole più riuscite interpretate dal mitico attore napoletano. Ben scritto e diretto con la consueta professionalità da Bragaglia, consta di un copione perfetto e privo di tempi morti, con qualche scena da antologia e attori in affiatato spolvero. Totò inarrivabile nel ruolo dell'avaro; Castellani puntuale come sempre. Croccolo una spalla perfetta. Pampanini radiosa come non mai. Rapido cameo di un giovane Gigi Reder. Battute memorabili a iosa.
- Una delle commedie più riuscite interpretate dal grande Totò, con una sceneggiatura strutturata meglio del solito, vivace e dal ritmo spedito. Non ci sono praticamente tempi morti e il personaggio di avaro è interpretato dal principe alla perfezione, regalando momenti memorabili e battute ormai entrate nella storia del cinema italiano. Buono anche il reparto comprimari, con il sempre efficace Croccolo, la Pampanini e uno stuolo di caratteristi di gran classe. Notevole.
- Non è facile ricordare un avaro come il barone Peletti (Totò) nel cinema: la scena dal macellaio è veramente esemplare; non solo Totò cerca di spendere pochissimo comprando due "bistecche", ma riesce pure a confondere e a fregare il poveretto. A una prima parte in cui appunto viene mostrata l'estrema avarizia del barone e l'equivoco sulle sue pretese di matrimonio, segue una seconda con la riscossa dei concittadini, sindaco in testa, e il loro machiavellico piano. Tiepida la regia di Bragaglia. Totò, come sempre, salva tutto.
MOMENTO O FRASE MEMORABILI: La Pampanini, spirito (ma anche di carne) guida.
- Il tema della morte e dell'avarizia in questa pochade parodistica che vede Totò in grande spolvero ed autore di battute memorabili. L'impianto narrativo appare valido, e il nostro è ben coadiuvato anche dagli altri interpreti tra cui spiccano Croccolo, Castellani e la radiosa Pampanini.
- Relativo passo indietro nell'utilizzo di Totò rispetto ai tentativi "realistici" di Cerca casa e alla sfrenata parodia di Fifa e arena. Il film pare decisamente diviso a metà, con la cesura determinata, parrebbe, dal subentrare al concreto cinismo di Age/Scarpelli, della scrittura etereo-surreale di Metz/Marchesi (scelta avallata da Bragaglia). Comunque fondamentale per la capacità del Principe di misurarsi, forse per la prima volta, con un personaggio comico di statura (non casuali i richiami a Petrolini, Moliere, Plauto). Croccolo non si limita a incassare.
MOMENTO O FRASE MEMORABILI: "Fammi vedere le mani"; Pampanini guida spirituale e molto corporea"; La gag col macellaio Gildo Bocci.
- Guardandolo recitare nelle vesti dell’avido Barone Peletti viene da chiedersi cosa avrebbe potuto regalarci Totò se avesse recitato nell’Avaro di Molière. Nella prima parte, in particolar modo, è superlativo e, complice un bravissimo Croccolo, scolpisce nella pietra una delle sue migliori interpretazioni. Successivamente, per ragioni di copione, lo spazio per Totò si restringe e diventa un film "normale". Fortuna vuole che il soggetto di Petrolini abbia fornito una buona base agli sceneggiatori per realizzare un film solido e quadrato.
MOMENTO O FRASE MEMORABILI: "...e io pago!".
- Esile farsa di Petrolini dalla quale quattro gloriose penne del nostro cinema ricavano una graziosa commedia con vistosi riferimenti al teatro classico. Eppure questo film non convince fino in fondo, anche perché tentare di "imbracare" Totò con una sceneggiatura è sempre stata operazione rischiosa e il Principe, che naturalmente non si discute, deve cedere spesso spazio ad attori concentrati nel portare avanti la storia riducendone notevolmente la vis comica. I momenti migliori sono infatti quelli fra Totò e le sue spalle storiche. Mediocre.
MOMENTO O FRASE MEMORABILI: "Taci, figlio denaturato!" (Totò).
- E' guardando film di questo tipo che si comprende l'ostracismo della critica verso Totò; non tanto per la sua indiscussa genialità quanto per le scelte che spesso lo hanno deprezzato. Il film in questione è un'opera esile a cui il Nostro (e solo lui) riesce a conferire mordente dando registro a un memorabile avaro che diverte ancora oggi. Purtroppo la trama si dipana banalmente, rovinando una buona intuizione di partenza. Uno dei film meno riusciti del Principe della Risata.
MOMENTO O FRASE MEMORABILI: La lunga scena del finto Inferno girata alla Solfatara di Pozzuoli; "...E io pago!".
- Una pellicola veramente notevole, questa diretta dal geniale Bragaglia. Solida trama, racconto fluido, efficace impianto teatrale, un realismo psicologico che si sposa perfettamente alla commedia dei caratteri, con un Totò superlativo che stilizza in modo potente ed innalza, al di là dell'ambientazione paesana, il carattere universale dell'avarizia come costante dell'animo umano. Totò è un Arpagone universale fuori dal tempo e dalla spazio. Tale è, anzi, anche nell’Ade… Tutto il resto fa da dignitosissima cornice ad un film unico e raro. Ormai un classico.
MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Il ripetuto grido-esclamazione di Totò-Arpagone "E io pago!" ormai é diventato il tormentone sulla bocca di tutti i cittadini tartassati d'Italia!
- Qui il Principe interpreta uno dei suoi personaggi più memorabili e citati; quello dello spilorcio che, pur avendo ricchezze inestimabili, vive da miserabile vessando immancabilmente il povero cameriere (il solito ottimo Croccolo). La prima parte del film è veramente spassosa, mentre il divertimento si riduce progressivamente nella seconda parte della storia. Nel complesso resta un classico di Totò sempre gustoso. Ottimo cast di contorno, dalla conturbante Pampanini a Bragaglia.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: La riscossione ai danni del questuante; Dal macellaio; Il tormentone "E io pago!" con la liberatoria risposta di Croccolo "Ma a chi?!".
- La mimica del principe della risata al servizio di un canovaccio tutto sommato ben condotto. Non è il miglior film di Totò ma si ride abbastanza soprattutto in alcune occasioni (memorabili). Bellissima la Pampanini. E' noto l'errore che indica nrl titolo col 47 (invece del 48, nella smorfia napoletana) il morto che parla.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Le facce di Totò di fronte alle forme della Pampanini, spirito molto corporeo e Totò con il lenzuolo in testa.
- La sceneggiatura è di Petrolini, ma in realtà è un classico sia del teatro plautino sia (ancor prima) della commedia greca (da cui derivano comunque il 90% delle commedie attuali). Bel cast con la splendida Silvana Pampanini (anche fiamma di Totò), Castellani sempre perfetto, così come Croccolo nella parte del maggiordomo/cocchiere/cuoco. Totò meno a ruota libera del solito ma imbattibile quando fa il ricco avaro.
- Totò diretto da Carlo Ludovico Bragaglia. Non un capolavoro, ma di sicuro uno dei film più simpatici del principe. Tratto da una commedia di Ettore Petrolini. Il regista qui dosa bene le gag e la comicità senza mai lasciarla andare troppo sopra le righe, riuscendo a dare al film quel tratto di teatralità tipica petroliniana. Molto bravo Totò nell'interpretazione del riccone avaro legato in modo maniacale al denaro che consegnerà al suo prossimo soltanto dopo morto. Ottimo anche Carlo Croccolo.
MOMENTO O FRASE MEMORABILI: La scena del resto dal macellaio; L'inferno ricreato nei campi flegrei; Il simpatico maggiordomo Carlo Croccolo; Il volo in mongolfiera.
LE INCONGRUENZE
- Quando il Barone verso la fine del film sbircia nel cannocchiale vedendo dei marinai che si impossessano della sua giacca, tra una inquadratura e l'altra cambia il modo in cui le sue braccia passano tra le corde della mongolfiera.
- Nel finale, quando il sindaco parla ai cittadini, dice che il barone è morto per tre volte, poi quando il barone ricompare vivo, il sindaco dice che "questa è la sua terza vita". In realtà avrebbe dovuto dire che era "la sua quarta vita".
- A fine film il dottore dice che lo scherzo è stato eseguito su suggerimento del sindaco quando poi sapeva bene che è stato il farmacista ad organizzare tutto.
- Scena finale. Il barone da i fiori donatigli dal bambino alla moglie del figlio e, quest'ultimi, sono palesemente di colore scuro. Nell'inquadratura successiva, che ha un campo maggiore, se si sta attenti si vede che i fiori hanno cambiato colore, sono diventati bianchi!
- Quando Totò torna dal macellaio dopo aver comprato la carne per gli ospiti, entra in casa accolto dal maggiordomo Gondrano (il grande Carlo Croccolo). Dopo che è entrato, il maggiordomo spinge la porta per chiuderla e segue Totò, ma per un istante si vede nella scena una mano all'esterno che la ferma, probabilmente di un tecnico della troupe, forse per impedirle di fare rumore e disturbare le riprese.
- Quando la mongolfiera si libra in volo con Totò aggrappato, nel primo piano si nota che il cielo sullo sfondo altro non è che un telone mosso dal vento.
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Tutte le immagini e i testi presenti qui di seguito ci sono stati gentilmente concessi a titolo gratuito dal sito www.davinotti.com e sono presenti a questo indirizzo | |
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Il paese della Campania (nel film) dove abita il Barone Antonio Peletti (Totò) ho scoperto essere in realtà in Abruzzo. Si tratta di Villetta Barrea (AQ). Purtroppo la folta vegetazione cresciuta nel tempo ha reso difficile l'identificazione più semplice, dalla strada che risale il versante montuoso di fronte al paese... | |
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Si può comunque dimostrare la cosa grazie ad alcuni edifici rimasti in piedi e praticamente invariati da allora |
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Totò poeta — Settimo Giorno, 28 giugno 1951: autobiografia, poesie e il mito tra Castagnola e Pampanini
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Riferimenti e bibliografie:
- "Totalmente Totò, vita e opere di un comico assoluto" (Alberto Anile), Cineteca di Bologna, 2017
- "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998
- "Totò" (Orio Caldiron) - Gremese , 1983
- "Totò proibito" (Alberto Anile) - Ed. Lundau, 2005
Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
- Art., «Corriere d'Informazione», 20 dicembre 1950
- Arturo Lanocita, «Corriere della Sera», 27 dicembre 1950
- Gianni Casieri, «Cine Sport», 2 gennaio 1951
- vice, «La Nuova Stampa», 3 gennaio 1951
- G.L.R. (Gian Luigi Rondi) «Il Tempo», 6 gennaio 1951
- t.c., «L'Unità», 6 gennaio 1951
- E.C. (Ermanno Contini) «Il Messaggero», 6 gennaio 1951
- al. or. (Alfredo Orecchio), «Paese Sera», 7 gennaio 1951
- vice, «Il Giornale d'Italia» 7 gennaio 1951
- caran. (Gaetano Carancini), «La Voce Repubblicana», 7 gennaio 1951
- «Tempo», anno XIII, n.3, 20 gennaio 1951
- Vice, «La Gazzetta di Reggio», 25 gennaio 1951
- t. ci., «Il Lavoro», 10 febbraio 1951
- m.a., «La Stampa», 25 luglio 1960
- Francesco Bolzoni, «Radiocorriere TV», aprile 1968
- «Corriere della Sera», 23 luglio 1981