Macario spiegato al popolo

1940 Macario 2B

1940 04 Scenario A9 n 4 Macario intro

Nella prefazione del libro Intorno al Samovar, edito da Bompiani, ho avuto occasione di leggere, qualche tempo fa, la descrizione di una scena in cui, uno dei più autorevoli scrittori russi della scuola gogoliana, e precisamente Alessio Pissemski, discute con il gentiluomo letterato Katenin, uno dei più colti uomini del suo tempo, a proposito di Gogol. Non appena sentito pronunciare il nome di Gogol, Katenin andò in bestia. Si mise a correre s ue giù per la stanza e proruppe in ingiurie. Pissemski — che nel romanzo da cui è tratta questa scena è adombrato sotto il nome di Paolo Vichrow — difese Gogol.

— E’ un terribile umorista. Ha una gran dose d'umorismo.

— Ma ditemi, per amor di Dio, che cos’è questo vostro umorismo! — grida Katenin, irritandosi ancor di più: — ma senza giri di parole. Ditemi, senz'altro, che cosa voi chiamate così.

— L’umorismo è un termine inglese — rispose Paolo con voce malsicura — che indica una certa disposizione dello spirito a veder tutto sotto un aspetto più ridicolo di quanto non appaia agli altri.

— Allora è una pazzia! — esclamò Katenin. — Un uomo che ne sia affetto va curato e non incoraggiato a scrivere! 

Macario è appunto malato di umorismo. E, quel che è peggio, non ili umorismo inglese, nè russo, nè di spirito francese. Bensì, di umorismo italiano. 

Quest’umorismo italiano, che non ha che pochissimi anni di vita, che è cresciuto a poco a poco, si è sviluppato sui giornali umoristici settimanali e bisettimanali e ne ha fatto, in un certo qual modo, la fortuna, ha creato una nuova maniera di parlare, ha dilagato in tutta la penisola propagandato dagli studenti che lo sentivano più di tutti, è entrato nel teatro, nella letteratura e nella radio, e finalmente, con Imputato, alzatevi! e Lo vedi come sei?! ha fatto il suo trionfale ingresso anche nel cinema. Quest’umorismo italiano che fa imbestialire i vecchi signori che non lo comprendono, che fa urlare di rabbia i critici che non riescono a definirlo e fa campare abbastanza bene quelli che lo hanno inventato.

1940 04 Scenario A9 n 4 Macario f1

1940 04 Scenario A9 n 4 Macario f2

Macario al naturale e Macario diventa... Macario, come appare a destra.

Macario è appunto la personificazione teatrale di questo umorismo, che alcuni definiscono «intelligente», che altri definiscono «idiota» e che forse non è altro che un’idiozia intelligente.

Si è detto che Macario è un clown, come si è detto che Macario è una maschera. Si sono scomodate le grandi ombre di Petrolini e di Ferravilla, si è parlato di «fenomeno Macario», si è portato questo comico alle stelle, lo si è voluto demolire, centinaia di critici hanno tentato di definire la sua arte o la sua mancanza d’arte. Ora, io penso che Macario non si possa definire; si può, tutt’al più, discuterne.

Macario, per alcuni è un Gianduia, foderato di Charlot e imbottito di fratelli Marx. Ora, se è difficile definire Gianduia, che ha secoli e secoli di teatro dell'arte dietro le spalle, se su Charlot sono stati scritti ponderosissimi volumi, se i fratelli Marx sono difficilissimi a comprendere, figuriamoci questi tre diversi esempi di comicità fusi insieme.

Per me, per esempio, ma solo in alcuni casi, Macario è un pupazzetto. Un pupazzetto di vignetta. E’ infatti l’unico comico che possa dire sulla scena le stesse cose che sono scritte in due righe sotto i disegni dei giornali umoristici. Un grande attore, sia pure un brillante di prim'ordine come Falconi o Gandusio, non potrebbe dire impunemente questa battuta :

— Che ore sono?

— Le siete. 

— Vorrete dire le sei.

— Eh, no, no... Direi le sei se ci dessimo del tu... Ma siccome ci diamo del voi... Le siete.

1940 04 Scenario A9 n 4 Macario f4Macario alle prose con Vanda Osiri e lo sue ballerine.

La gente urlerebbe d’indignazione. Macario invece la dice. Precisamente come due perso-naggi disegnati ila Attalo o da Mondaini. Forse dipende dalla sua truccatura, forse dall’indifferenza con cui la butta lì. O da quel leggero balbettio con cui accompagna le sue parole. O dalla voce un po’ in falsetto? Certo, che una battuta del genere non può essere detta con voce impostata di petto o troppo grossa. Deve essere una voce, diremo così, astratta. E adesso non mi domandate che cosa voglia significare «voce astratta», perchè, parola d’onore, non vi saprei rispondere, al contrario di molti critici ermetici che affermerebbero gravemente che «si ha la voce astratta quando la maninsolanea del barutta viene a cozzare contro la particona dell'arcos».

L’associazione d’idee è la sua arma più formidabile. Dire, cioè, una cosa lontanissima come significato da quella che veramente vorrebbe dire. Per esempio: Macario, disperato, vuol andare a gettarsi nel fiume; ma siccome, in fondo, ha paura, lo dice a un suo amico, sperando che questi lo trattenga dal compiere l’insano proposito. Ma l’amico — che è l’immancabile Rizzo — non lo trattiene. Macario si avvia verso il fiume, ma, ad un certo punto, si volta.

— Non mi trattieni?

— No...

— Proprio per niente? Proprio per niente?

— Ma no, ti dico! — risponde Rizzo, il cui compito principale consiste appunto nel dire, durante tutta la sera, «Ma no!», «Ma, come?», «Ma che dici!», «Ma che ti salta in testa?», per dar agio a Macario di dire la battuta. Dev’essere una bella fatica! 

— Proprio no?

— Ti dico di no...

Macario fa un passetto, poi si volta. 

— Manica, manica? 

— Ma che dici? — ruggisce Rizzo. 

— Sì, non mi trattieni nemmeno per la manica ? 

1940 04 Scenario A9 n 4 Macario f5

Nessuno pensa che Macario, dicendo «Manica, manica», possa voler significare : «Sì, non mi trattieni nemmeno per la manica?». Può pensare, tutt’al più, allo stretto che divide la Francia dall’Inghilterra e nel quale oggi-giorno non è consigliabile navigare. Oppure, non sa dove voglia andare a parare. Non si tratta di una battuta. Si tratta di una sorpresa. Sorpresa che agisce come un solletico mentale e fa ridere il pubblico, magari suo malgrado.

Ed è per questo che molta gente, come quelli a cui è stato fatto il solletico, dopo aver riso di ciò che dice Macario, per tutta una sera, esce dal teatro arrabbiatissima e magari indignata contro sè stessa per aver riso. Ricordo, d’altra parte, un tale che dopo aver letto una contronovella di Anton Germano Rossi, incontrandolo il giorno dopo, gli disse:

— Ho riso tanto a leggere la storia di quel tale che va dal dottore perchè gli facevano male le bastonate in testa, che t’avrei preso a schiaffi.

E’ facile, invece, comprendere perchè il pubblico rida quando Macario deforma le parole introducendovi delle enne dove non vanno, cioè dicendo «rimpetinzione», invece di «ripetizione» e «anfonrisma», invece di «aforisma». Ride per la stessa ragione per cui si ride al balbettio dei bambini o alle impuntature dei balbuzienti. Come, quando, invece di «sempre scapolo, sempre scapolo?», dice «sempre scampolo, sempre scampolo?», la ragione dell’ilarità va ricercata nel fatto che la sostituzione meccanica di una parola di un dato significato con un’altra parola dello stesso suono ma di significato diverso è stata sempre ragione di riso. Pulcinella, invece di dire «Me ne entro quatto quatto, carponi, carponi», dice: «Me ne entro quattro quattro, scarponi scarponi», e tutti si contorcono sulle loro poltrone. Più difficile riuscire a comprendere perchè il vezzo che ha Macario di ripetere due volte la stessa parola scateni l’allegria. Se lo stesso Pulcinella dicesse «Lume, lume», non farebbe ridere nessuno. Se si scrivesse «lume, lume», sotto una vignetta, ciò non desterebbe il buon umore nemmeno dell’uomo più ben disposto di questo mondo. Se Achille Campanile scrivesse «Lume, lume» in uno dei suoi libri, i suoi lettori esclamerebbero: «Achille Campanile è finito!». Uno dei canoni dell’umorismo è che la ripetizione faccia ridere : questa forma di umorismo ha anzi un nome tecnico — si chiama «tormentone» — ma si tratta della ripetizione di un’intera frase che si riferisce ad un personaggio, come ad esempio: «Inutilmente, o astuto barone, eccetera, eccetera», fatta a distanza e non di seguito. Se voi incontrate un amico e gli dite: «Bisogna che ti cambi il cappello», lui la prima volta non riderà, se glielo ripeterete in occasione di un secondo incontro, lui, se non è un tipo permaloso, non dirà nulla; la terza volta, sapendo che state per dirglielo, rimarrà in attesa di quella vostra fiase e, quando vi sarete deciso a pronunciarla, riderà prima ancora che l’abbiate finita per la soddisfazione di aver indovinato che gliel’avreste detta. Ma perchè si ride quando Macario dice «Lume, lume?», o «Stai male, stai male?». Può darsi che rida per la ragione suesposta, cioè perchè se l’aspettava. Ma, allora, la prima volta, perchè ha riso? Inquantochè, la prima volta deve aver riso, altrimenti Macario non l’avrebbe ripetuta. Indubbiamente anche questo fa parte di quel solletico mentale di cui abbiamo parlato in precedenza, altrimenti sarebbe inesplicabile.

1940 04 Scenario A9 n 4 Macario f3

Definire l’umorismo — afferma lo scrittore Jardel Poncela — è come pretendere di trafiggere una farfalla, adoperando una palo telegrafico. Difinire l’umorismo di Macario — dico io — è come pretendere di trafiggere un palo telegrafico adoperando una farfalla. Anzi, continuo baldanzosamente, dato che riconosco questo, perchè devo continuare a scrivere un sacco di parole difficili, la maggior parte delle quali è sicuramente sbagliata, per provarci io? A voler essere sinceri, anche la faccenda del pupazzetto da giornale umoristico e il solletico mentale, i miei riferimenti a Pulcinella e alla commedia dell’arte sono tutte balle. E che Macario dica «lume, lume?» o «rimpentinzione», a me non me ne importa proprio un fico secco. E pensare che, trascinato dalla smania di scrivere un articolo serio, desiderio che cova in me da anni, ho trasceso fino al punto di citare Pissemski, che non so nemmeno chi è e che stavo per scrivere anche la parola «surrealismo». Se l’avessi scritta, mi sarebbe proprio piaciuto vedere come me la sarei cavata a spiegare di che si tratta. L’unica cosa che so del surrealismo è che non ha nulla a che fare con le ranocchie.

Insomma, l’importante è che Macario continui a tener allegra la gente e a far pieni i teatri. Come ci riesca, sono affari suoi. Gli voglio troppo bene per voler seguitare i miei tentativi,' diremo così, viviaezionistici e non vorrei per tutto l’oro del mondo che, con la testa un po’ montata da tutti gli articoli che sono stati scritti su di lui, un bel giorno, anzi una bella sera, Macario si presentasse sul palcoscenico del teatro nel quale lavora e, invece delle sue solite barzellette, guardasse il pubblico con i suoi occhi tondi e incominciasse: — Vi parlerò del mio umorismo. Che cos’è desso? E’ una tenerissima sfumatura del parlare o dello scrivere, con riso mesto o con sorriso amaro, di cose non liete? E’ un ineffabile velo comico su ciò che in fondo è triste? E’ un gioco di cose che vanno rispettate? E’ una fredda manipolazione cerebrale pregna di significati simbolici? E’ un pessimismo che dissimula elegantemente una atroce malinconia? (Questo squarcio così bello sull’umorismo non è nè mio, nè di Macario, che non ci siamo mai posti dei problemi così importanti, ma è vilmente plagiato da un saggio sull’umorismo spagnuolo di Carlo Boselli e Girolamo Bottoni).

1940 04 Scenario A9 n 4 Macario f6Macario nel film “Lo vedi come sei?!’’.

Speriamo che Macario non faccia mai una cosa simile e seguiti a dire a Rizzo:

— A proposito di Topolino, lo sai, lo sai, che io ho una Topolino che ci porto sopra dieci persone?

— Ma che dici?

— Si, si; proprio dieci persone...

— Ma che ti salta in mente?

— Ti assicuro che ce le porto proprio.

— Ma smettila! — esclama Rizzo, il quale è tanto ingenuo che dopo tanto tempo che Macario, tutte le sere, gli ripete la stessa cosa, ancora non ha capito. — E come fai ?

— Fa... faccio due viaggi.

Dovrei finire con «Lo vedi come sei, lo vedi come sei?»: ma francamente adesso lo dicono tutti e penso che sarebbe una vigliaccheria. 

Vittorio Metz, «Scenario», anno IX, n.4, aprile 1940


Scenario
Vittorio Metz, «Scenario», anno IX, n.4, aprile 1940