Bolognini Mauro

(Pistoia, 28 giugno 1922 – Roma, 14 maggio 2001) è stato un regista italiano.

Biografia

Studia architettura e consegue la laurea a Firenze, prima di passare al Centro sperimentale di cinematografia di Roma, dove frequenta i corsi di scenografia. Diplomatosi, si orienta verso la regia e affina il mestiere facendo l'aiuto di Luigi Zampa e poi, in Francia, di Yves Allégret e Jean Delannoy. Iniziò l'attività registica segnalandosi tra il 1955 e il 1958 con bozzetti di un tardo neorealismo: Gli innamorati (1955), Giovani mariti (1957).

L'incontro con Pasolini sceneggiatore gli aprì la strada a maggiori ambizioni con film come La notte brava (1959), Il bell'Antonio (1960), La giornata balorda (1960), anche se l'impegno letterario si stemperò poi troppo spesso in gusto calligrafico con Senilità (1962), Agostino (1962), Bubù (1971), Per le antiche scale (1975), L'eredità Ferramonti (1976). All'atmosfera in costume e al clima pittorico toscano del suo film La viaccia (1961) si riallacciò nel 1970 con Metello, dove la struttura storico-sociale del romanzo di Pratolini gli consentì un'evocazione equilibrata e solida: la sua migliore.

Tra gli altri suoi film si ricordano: Imputazione di omicidio per uno studente (1972), Libera, amore mio! (1973), pellicola subito ritirata per problemi politici, Fatti di gente perbene (1974), La storia vera della signora dalle camelie (1981), La venexiana (1986), Mosca addio (1987) e La villa del venerdì (1991).

Fin dai primi anni settanta Bolognini si è dedicato anche a varie regie liriche, fra le quali Norma di Bellini al Teatro alla Scala di Milano (scene di Mario Ceroli, 1972), per la stessa opera al Teatro Bolshoi di Mosca (1975), La fanciulla del West di Puccini all'Opera di Roma, Aida al Teatro La Fenice di Venezia (1978) direttore Giuseppe Sinopoli (al suo debutto), o Pollicino di Hans Werner Henze (1995) al Teatro Poliziano di Montepulciano.


Arrangiatevi! fu girato in gran parte nella casa di tolleranza d'alto bordo di via Fontanella Borghese, a Roma. Dopo l’avvento della legge Merlin, le case erano state chiuse da una decina di giorni: quando vi entrammo per cominciare le riprese c’erano ancora le persiane fermate con il lucchetto, tutto l’arredamento intatto, e seduta in un angolo trovai la tenutaria, vestita di nero come se fosse a lutto. In piedi alle sue spalle, il genero le ripeteva in tono consolatorio: “Vedrete mammà che le riapriranno, si tratta di un periodo transitorio, forza, non prendetevela così!”. Quando, per girare, togliemmo i lucchetti alle persiane accadde il finimondo, perché i vicini non avevano ma visto quelle finestre spalancate. Ci fu persino un violento litigio tra Totò, Peppino De Filippo e l'onorevole Michelini del Msi che abitava nei pressi e sosteneva che era uno sconcio, un vero scandalo, che non si doveva mettere in mostra un ambientaccio simile, e di quel passo dove diamine sarebbe finita la moralità?
La gente, invece, e soprattutto quella bene, appariva intrigatissima dal casino. Difatti, siccome nel film c’era Laura Adani allora duchessa Visconti di Grazzano, avemmo svariate invasioni di blasonati che, con la scusa di farle un saluto, curiosavano in giro tra i lazzi di Peppino De Filippo che, dato il luogo, non aveva difficoltà a fare dell’umorismo un po’ pesante, pungolato dalle risate di Laura Adani. Fino al giorno in cui Totò, il quale nel privato viveva con dignità la sua discendenza principesca e non ammetteva di scherzarci sopra, la chiamò da parte per dirle che, quale appartenente a una grande famiglia, non doveva assolutamente stare a quegli scherzi, non era corretto che lo facesse.

Mauro Bolognini


Galleria fotografica e stampa dell'epoca

1962 01 06 Tempo Mauro Bolognini intro

Il regista di “Senilità” sta terminando il montaggio del film tratto dai romanzo di Svevo, ed elimina rigorosamente con le forbici le poche concessioni fatte durante la lavorazione ai capricci di Anthony Franciosa

Roma, dicembre

Emilio Brentani e Angiolina i due personaggi che Italo Svevo descrisse in ''Senilità” se ne stanno chiusi dentro una ventina di scatolette tonde, di latta, nella stanza di montaggio in cui lavora Mauro Bolognini. Fissati sulla pellicola, loro, gli ambienti in cui vissero, le persone che fecero da contorno e da contrappunto alla loro storia, attendono che la mano del regista gli assegni la dimensione definitiva. Brandelli di sorrisi, di gesti, di occhiate, di passeggiate, di parole d’amore giacciono sul pavimento, superflui. In fondo il cinema non è altro che la vita degli uomini concentrata in due ore di spettacolo.

Com’è riuscita questa riduzione cinematografica del romanzo di Svevo? «Non so che dire» risponde Bolognini cominciando a dimenarsi sulla sedia morso dalla tarantola della timidezza, dalla paura di compromettersi, del riserbo.

1962 01 06 Tempo Mauro Bolognini f1

«Sei rimasto fedele al libro?».

«Sì... Tutto uguale».

«Anche il finale?».
«No. Il film finisce quando termina la storia dei due personaggi. La coda che Svevo scrisse, l’abbiamo eliminata».

«E gli attori?».

«Tutti bravissimi».

«Se tu potessi ricominciare il film li riprenderesti tutti?».

La danza di Bolognini si fa frenetica. Chi non conosce le sue paure, il suo imbarazzo troppo teatrale per non essere vero (e infatti lo è), anche se la sua abilità di finissimo diplomatico gli permette di navigare nel mare dei compromessi cinematografici senza mai mutare rotta e arrivando sempre al porto prestabilito, chi non conosce tutto questo e si sente imbarazzato dal suo imbarazzo, cade vittima di un complesso di colpa e finisce per stare al suo gioco che è quello di non dire nulla di sè, del suo lavoro, dei suoi problemi.

«Allora, li riprenderesti questi attori, sì o no?».

Il regista sbuffa, si contorce, poi sorridendo risponde: «E’ come domandarmi se, potendo ritornare indietro, farei il regista. No, non lo farei».

«E che cosa faresti?».

«Non lo so, ma non il regista».

«Insomma, questi attori...».

«Sì, li riprenderei tutti».

«Anche se al momento buono fosse libero qualcuno di quelli che avresti voluto all’inizio? Per esempio Mastroianni».

Bisogna infatti sapere che l’assegnazione del personaggio di Emilio Brentani ad Anthony Franciosa è stata preceduta da una serie di defezioni italiane, davvero considerevole. Bolognini avrebbe voluto, come attore ideale Mastroianni. Ma all’ultimo momento fu costretto a rispettare un contratto che lo voleva protagonista di un film diretto da Louis Malie e interpretato dalla Bardot. A malincuore Mastroianni e Bolognini si dissero addio. Saltò fuori così la candidatura Fezetti. Ma anche questa non ebbe fortuna. Ed Enrico Maria Salerno, interpellato poi, si scusò dicendo che doveva seguire Franco Rossi nei mari del sud. A questo punto a Bolognini non rimase che cercare all’estero il suo protagonista. E la sorte favorì Franciosa, un attore che, per formazione, per
cultura, per la scuola era ed è agli antipodi rispetto ai candidati precedenti. Ma era pur sempre un oriundo, aveva già lavorato in Italia e desiderava ritornarci per rinverdire le sue sorti artistiche in periodo di stasi.

«A questo punto — dice Bolognini — riprenderei Franciosa... Se non altro perchè ha già fatto il personaggio...». Gli è scappata la malignità. Si accorge che non mi è sfuggita, diventa rosso e corre ai ripari con una decisione che sembra fatta apposta per confermare i sospetti.

«No, senza scherzi, è bravissimo e sta molto bene nel personaggio... Ci sono momenti in cui è bravo come pochi. Nessun attore, del resto, è capace di ridare il personaggio al cento per cento... Quello che conta sono le punte espressive e lui gli acuti li fa, non stecca». Si volta verso il suo aiuto a domanda «va bene così?».

«Perfetto» risponde il compare.

Rassicurato, Bolognini continua l’omelia. «Franciosa ha accettato il film dopo aver letto il libro... Ha studiato Svevo, lo conosce profondamente e posso dire che si è avvicinato sia al personaggio di Brentani sia al mondo dello scrittore con soggezione, con umiltà».

E’ vero. Quando la troupe stava lavorando a Trieste, Franciosa si alzava ogni, mattina alle sei in punto e, prima di presentarsi sul ”set”, andava a fare lunghe passeggiate lungo quelle vie della città che hanno mantenuto un carattere sveviano, alla ricerca di una atmosfera, di suggerimenti, di suggestioni che lo aiutassero a rendere con maggiore aderenza ed efficacia il personaggio di Brentani. Ma bisogna aggiungere, per amor del vero, che il suo rispetto per Svevo aveva dei piccoli limiti oltre i quali Franciosa non è voluto andare.

Per esempio: Brentani portava gli occhiali, ma a Franciosa non piaceva fare un film con gli occhiali ed è stato giocoforza accettare questa piccola vanità dell’attore. Nel film lo vedrete con le lenti pochissime volte, quando deve cercare qualcosa. Andiamo avanti: Brentani, in ufficio, portava le mezze maniche come tutti gli impiegati di questo mondo. Franciosa le mezze maniche non le ha volute. E non c’è stato niente da fare per fargli cambiare idea. Ancora un esempio: Brentani — secondo il punto di vista di Bolognini — non si toglieva la maglia di lana quando incontrava biblicamente Angiolina. Franciosa invece ha voluto modernizzare le abitudini del romantico Emilio e ogni volta sollecitava il regista affinchè lo facesse recitare a torso nudo.

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In questi casi il regista ascoltava attentamente, annuiva, poi faceva una proposta che nessuno avrebbe potuto rifiutare: giriamo due scene, una . come dici tu e una come dico io, poi vediamo quale va meglio. Adesso che Franciosa è partito per l’America non ci sono dubbi su come Bolognini risolve il dilemma di allora: «Sorry, ma va meglio come dicevo io». E un brandello di Franciosa a torso nudo cade nel cestone sistemato accanto alla moviola. Poi gli va a fare compagnia anche un gesto che a Franciosa era tanto caro. Ci teneva molto. E Bolognini glielo aveva concesso, purché lo posticipasse di qualche secondo... Quanto serviva all’operatore per spostare l’obiettivo della macchina da presa da Brentani ad Angiolina. Di quel gesto era rimasta impressa una sbavatura, pochi fotogrammi che ora giacciono nel cimitero delle ambizioni sbagliate.

Adesso provate a domandare a Bolognini: «Ma, dicono che Franciosa faceva delle storie, che ogni tanto piantava delle grane per un gesto, per gli occhiali, per le mezze maniche...». E lui risponderà a voce alta: «No, non è vero. Gli ho concesso molto meno di quanto ho permesso ad altri attori, alla Cardinale, per esempio».

Ed è ancora una volta vero. Ma Franciosa non lo sa ancora. Lo saprà solo vedendo il film. E allora dirà: «Ma guarda un po’ quel Bolognini, sembrava un gatto che fa le fusa e invece...». E invece è un gatto toscano che ronfa, ronfa ma non molla di un centimetro; anche se vi sembra spostato di un metro. Del resto non sta facendo anche ora lo stesso gioco? Finge di lasciarsi sfuggire qualche parola in più ma, immediatamente, dopo, tira i remi in barca e snocciola con la faccia più seria del mondo una sfilza di bugie, di parole in cui non crede. Si finisce per starlo a sentire affascinati con lo stesso stupore con cui ascolteremmo l’ultima predica di un abate che (lo sappiamo benissimo) questa notte getterà la tonaca alle ortiche.

Il suo gioco della bugia è davvero divertente. Per esempio gli chiedo: «Coincidevano i vostri punti di vista sul personaggio?». E lui: «Sì, totalmente... Oddio, qualche volta... Qualche volta può darsi anche che avesse ragione lui». «Ma tu sei di quelli che chiedono la collaborazione dell’attore oppure lo consideri uno strumento nelle tue mani?». «Io? Spiego moltissimo quello che voglio, ascolto tutti i suggerimenti, non ho il sacro rispetto delle cose, amo gli attori. Stabilisco con loro certi punti essenziali per la scena poi li lascio liberi... Una volta stabiliti certi binari fissi...». Di colpo si ferma, si alza, si risiede e, sfoderando un enigmatico sorriso, aggiunge: «Ora, detto questo, la realtà è tutto il contrario». Ecco fatto.

«E la figlia di Svevo — gli domandò — com’è? Ha voluto mettere bocca nella sceneggiatura? Ha voluto delle assicurazioni prima di concedervi i diritti di riduzione cinematografica del romanzo?». Mi risponde un canto gioioso come un magnificat. «Chi? Donna Letizia? Buona... Dolce... Non ha mai interferito ma ha solo aiutato il nostro lavoro. Le abbiamo invaso la casa, l’abbiamo portata davanti alla macchina da presa... Ha sempre perdonato tutto, anche la nostra maleducazione sul lavoro... Franciosa, poi, l’adora... Chiacchieravano insieme, gli ha firmato una copia del romanzo... Condizioni per il film? Che dici? Era felice... Non ho mai visto eredi meno noiosi e venali». c E, ha già visto qualche cosa del materiale girato?». «Sì, è venuta a Roma per un congresso e le hanno mostrato delle scene... Le ha trovate straordinarie... Ha pianto... Che donna dolce».

«E la Cardinale?». «Com’è brava! E’ maturata in maniera incredibile... E’ come se fosse sbocciata improvvisamente... Vedi? Tutto è andato nel migliore dei modi! Ma adesso sono io che ti chiedo un piacere. Scrivi che Mastroianni è uno dei due o tre più grandi attori che ci siano oggi nel mondo». «Va bene — gli dico — speri di averlo nel tuo prossimo film?». «No, sono disinteressato... In "Metello" non c’è parte per lui e così in "Tonio Kroger” e ne "Gli indifferenti”». «E allora perchè vuoi che mandi questo messaggio a Mastroianni?». «Perchè è vero». «E chi sarebbero gli altri due o tre?». «Olivier, Mifune...». «E Franciosa?». «Anche lui è bravo, ma non lo metterei in questo Olimpo... Il terzo potrebbe essere Montgomery Clift».

Franco Calderoni, «Tempo», anno XXIV, n.1, 6 gennaio 1962


2001 05 15 La Stampa Mauro Bolognini morte intro

Il primo film a trent'anni, poi una lunga carriera Si ispirò all'amico Pasolini, ma anche a Svevo, Moravia, Gautier. I suoi personaggi erano veri, naturali sempre credibili

ROMA. E morto ieri il regista Mauro Bolognini Malato da tempo, aveva 78 anni. A darne notizia il fratello Manolo. I funerali domattina nella chiesa degli Artisti di Piazza del Popolo.

2001 05 15 La Stampa Mauro Bolognini morte f2A trennt'anni, con studi di archiuntura alle spalle e gualche incursione nel mondo del cinema, Mauro Bolognini firma la sua prima regia, « Ci troviamo in galleria» (1953), che rientra in quel genere comico-leggero che darà origine alla cosiddetta commedia all'italiana. E' un regista non particolarmente originale, dimostra un buon mestiere ma nulla più, come confermano i film seguenti che si collocano nel filone del neorealismo rosa, da «Gli innamorati» ( 1955) a "Marisa la civetta» (1957) a «Giovani mariti» (1958) ad "Arrangiatevi» (1959). Siamo nel pieno degli Anni Cinquanta. Questi film leggeri e spensierati riflettono una società che va alla ricerca di una propria identità, fra industrializzazione e migrazione interna, miracolo economico e sottosviluppo.

Ma Bolognini pare rimanere un po' ai margini di un discorso critico, si limita ad osservare i suoi piccoli personaggi muoversi sullo sfondo di una realta sociale appena sfiorata. Poi c'è l'incontro con Pasolini (già sceneggiatore di «Marisa la civetta») e nascono due film per molti versi emblematici, «pasoliniani» anche nei titoli, «La notte brava» (1959) e «La giornata balorda» (1960): ritratti sfaccettali ed illuminanti di una gioventù alla deriva, che ha smarrito la strada e brancola nel buio di nuovi bisogni e nuove certezze. Con gli Anni Sessanta la stagione migliore e più matura del suo cinema Bolognini si rivolge soprattutto alla letteratura, in un lavoro puntuale e attento di trascrizione, spesso anche di interpretazione e di aggiornamento. Si ispira a Brancati con «Il bell'Antonio» (1960), a Svevo con «Senilità» ( 1962), a Moravia con «Agostino» (1962), a Théophile Gautiercon «Madamigella di Maupin» (1966), a Pratolini con "Metello» (1970), a Chelli con «L'eredità Ferramonti» (1976), ad altri autori più o meno noti (ha anche curato la regia televisiva di una sontuosa e raffinata «Certosa di Parma» di Stendhal).

Il suo lavoro è estremamente curato, quasi maniacale e molto «viscontiano», nella ricostruzione ambientale. I suoi personaggi si muovono in luoghi e ambienti credibili, veri, naturali, e da questo sfondo scenografico acquistano una loro dimensione drammatica, un loro spessore psicologico, una loro collocazione sociale. Si è parlato del manierismo di Bolognini, di un suo stile fin troppo levigato, estetizzante, appunto manieristico. Ma è proprio questa maniera a dare sostanza alle opere, a collocarle in una prospettiva artistica che ne valorizza i contenuti, anche a rischio di un formalismo fine a se stesso. E quando la materia è forte, come nell'd Eredità Ferramonti» o nel bellissimo «Fatti di gente perbene» (1974) sullo scandalo Murri, anclie la forma perde il suo carattere puramente estetico per porsi come unica chiave di lettura del dramma. Drammi cupi, scavati in profondità, osservati con occhio a volte persino crudele; drammi al tempo stesso umani e sociali; drammi di personaggi che si consumano nell'odio, nella perfidia, nell'egoismo. Perché Bolognini, il miglior Bolognini, non si è mai fermato alla superficie delle cose, se non nei suoi primi film leggeri o in quelli di puro esercizio di stile. Il suo occhio attento, la sua scrittura raffinata, mai banale, il suo gusto per le atmosfere ambigue o contorte, ci hanno lasciato alcuni piccoli capolavori, forse il meglio di un cinema che sapeva unire le ragioni dell'arte a quelle dello spettacolo, il rigore della forma al piacere del racconto.

Gianni Rondolino, «La Stampa», 15 maggio 2001


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Cosi Massimo Ranieri ricorda Mauro Bolognini. «L'ultima volta che l'ho visto è stato" a Milano dove recitavo «L'isola degli schiavi»: ero con la mia amica Lucia Bosé quando mi sentii chiamare: "Ciao, Metello. Sono felice per la tua carriera. Vai avanti". Camminava già col bastone ma ancora non era costretto dalla malattia a vivere chiuso nella sua elegante e sobria casa di piazza di Spagna. Bolognini mi ha sempre chiamato Metello, per affetto, in ricordo di quello che è stato il primo dei tre film fatti insieme: "Metello" da Pratolini, appunto, "Bubù de Montpamasse" e "Imputazione di omicidio per uno studente". Il mio lavoro di attore lo devo a lui: se non lo avessi incontrato sarei rimasto un cantante e basta.

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Era un uomo eccezionale come non ne nascono più, un regista del valore di Visconti, De Sica, Fellini, Zeffirelli, quelli che guardano un volto e non lo dimenticano». «Gli ero stato presentato nel '67, a Catania, durante un Cantagiro, da un agente teatrale traffichino che gli magnificò la mia faccia da ragazzo affamato. A me che ero un cantante da ristorante appena uscito da Napoli, quell'incontro, però, non fece nessun effetto. Due anni dopo, avevo appena vinto il Cantagiro con "Rose rosse", fui faticosamente rintracciato da Bolognini che, avendomi rivisto in tv, voleva offrirmi "Metello". Arrivai a Roma per il provino. "Te le devo fare», mi disse, perché sono obbligato: ma è una formalità. Per me Metello sei tu". Ebbi qualche esitazione ad accettare dal momento che, in quegli stessi giorni, mi avevano offerto 20 milioni per girare un film dalla mia canzone mentre Bolognini, di milioni, poteva darmene appena 2 e mezzo.

Per fortuna fui consigliato bene: "I soldi, mi suggerì il mio agente, li puoi fare con le canzoni, ma Bolognini è una occasione unica"». «Avevo 18 anni e non sapevo dire una parola. Ottavia Piccolo aveva già fatto le sue esperienze teatrali. Io no. Lui fu tenerissimo con me. Mi suggeriva le battute, mi invitata ad essere semplice ed essenziale. "Un attore deve sottrarre, non aggiungere", spiegava. Io, comunque, mi sentivo a disagio: una volta scappai dal set in lacrime perché mi pareva che la sola cosa che sapessi fare era cantare. Solo in teatro, anni dopo, ho cominciato a gustare il piacere della recitazione e mi sono ricordato i suoi insegnamenti. Ormai, però, ero un uomo, un adulto capace di apprezzare il suo cinema sublime di cui ho voluto rivedere tutto, dalla "Viaccia" a "Il caso Murri" trovando sempre, nelle sue opere, quella misura e quell'equilibrio che lo rendeva speciale».

Simonetta Robiony, «La Stampa», 15 maggio 2001


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Una gavetta nel solco di Zampa e del primo Risi, il confronto con il Pasolini di «Ragazzi di vita» e poi il grande successo con «Metello» - Portava nei suoi film un’eleganza formalmente accurata, intrisa di un amore vero per la grande letteratura fra Otto e Novecento

Mauro Bolognini è morto ieri a 78 anni nella sua casa romana a Piazza di Spagna. Era malato da tempo e la notizia ha suscitato grande emozione ma non sorpresa nel mondo del cinema radunato a Cannes per il Festival. «La morte di un uomo è l’immagine di ciò che lui è stato. - ha commentato Olmi da Cannes - Conoscendo Bolognini ci si può rendere conto di cosa significhi la sua morte» «Era un uomo appassionato, un grande Maestro della forma, una persona generosa» ha aggiunto Felice Laudadio, il presidente di Cinecittà. «Un talento che non ha mai seguito le mode e che ha insediato a intere generazioni il piacere di fare cinema» ha aggiunto Luciana Castellina, presidente di Italiacinema, mentre anche Walter Veltroni - in queste ore di tensione politica - ha voluto ricordare «l'artista e l'intellettuale che ha saputo creare un connubio perfetto e non sempre facile tra letteratura e cinema». E anche la ministro per la Cultura, Giovanna Melandri, ha commentato la perdita di «un autore dallo stile elegante e misurato che d ha regalato emozioni forti e intense». I funerali del regista si svolgeranno domani mattina a Roma alla chiesa degli Artisti di Piazza del Popolo.

2001 05 15 LUnita Mauro Bolognini morte f1Che cosa è stato Mauro Bolognini? «L’unico narratore borghese del cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta», come teorizzò Ruggero Guarini? Oppure un inguaribile «formalista» non indenne da peccati di decorativismo e calligrafismo, come più di un critico gli rinfacciò negli anni del successo? Di sicuro con lui se ne va un certo modo di intendere il rapporto tra cinema e letteratura, e sarebbe stato interessante ascoltarlo, se la malattia non l’avesse consumato cosi lentamente, sull’argomento: oggi che di nuovo, da James Ivory a Jane Campion, da Roberto Faenza a Cristina Comencini, risulta quasi impossibile pensare a un film che non sia tratto da un romanzo di successo, preferibilmente in costume e di ambientazione borghese.

Pistoiese, laureato in architettura e presto attratto dal cinema (fu aiuto regista prima di Zampa in Italia e poi di Allégret in Francia), Bolognini portava nei suoi film un’eleganza, formalmente accurata, intrisa di un amore vero per la grande letteratura fra Otto e Novecento. Qualcuno, tra i suoi estimatori d’Oltralpe, lo elesse «cineasta macchiaiolo», per non dire dell’esimio critico Pietrino Bianchi che ebbe a definirlo - magari esagerando un po’ - «il più proustiano dei nostri cineasti.

Chissà se un tale scomodamento di riferimenti illustri finì con il mettere in imbarazzo l’interessato: certo uomo colto ed eclettico, attraversato da un’inquietudine borghese, anche di natura sessuale (non è un segreto per nessuno che fosse gay), che sembrava sgorgare direttamente da quelle passioni letterarie. Magari, per dirla con lo storico del cinema Gian Piero Brunetta, «nel tentativo di creare, per le masse popolari, il corrispettivo di una «biblioteca ideale dell’italiano», non una «biblioteca di Babele», bensì uno scaffale dove, seguendo una certa logica e un certo ordine, accanto ai classici di tutte le letterature si pongano in bella evidenza il feuilleton, il melodramma e la trascrizione immediata del best-seller d’annata.

Alto, corpulento, affezionato a quel cappellino sformato che lo accompagna in tante fotografìe, il cine-letterato Bolognini sembra davvero un regista d’altri tempi. E infatti le sue ultime prove, da La Venexiana a La villa del venerdì passando per Mosca addio, ce lo restituiscono stanco e demotivato, prigioniero di uno stile - anche di confezione o di composizione del cast - che non va oltre un onesto mestiere. Con cadute di gusto che egli stesso, pare, riconoscesse. E che la vena fosse esaurita era risultato evidente con la goffa miniserie televisiva Casa Ricordi, ispirata al vecchio film di Carmine Gallone, passata sui teleschermi qualche anno fa dopo lunga gestazione.

Eppure ci furono stagioni nelle quali Bolognini lavorava spedito e sicuro, accumulando successi di botteghino e considerazione critica. Salvo errori di calcolo, sono 28 i lungometraggi per il cinema realizzati tra il 1953 e il 1991, più una decina di episodi, per lo più realizzati tra il 1964 e il ‘65, quando il genere rilanciato da I mostri furoreggiava nelle sale.

Naturalmente non è facile rintracciare nel film d’esordio, la commedia Ci troviamo in galleria con Carlo Dapporto, Nilla Pizzi e Sophia Loren, o nell’avventuroso I cavalieri della Regina, con Jeff Stone e Domenico Modugno, l’autore sobrio e accattivante di titoli come Metello o L’eredità Ferramonti. Una gavetta nel solco di Zampa e del primo Risi che avrebbe comunque dato i suoi frutti in termini di affidabilità commerciale. E quando nel 1959, dopo l’innocente ancorché censurato Arrangiatevi! (non piaceva l’idea di una povera famiglia, capitanata da Totò, che va ad abitare in una ex «casa chiusa»), Bolognini si confronta per la prima volta con il Pasolini di Ragazzi di vita, in molti vedono con qualche diffidenza quel «salto d’autore». «Il mio rapporto con Pier Paolo non era tanto il rapporto con la letteratura, ma con un letterato. E se ciò accade, ci si abitua male. Una volta adusi ad avvalersi di uno scrittore, è diffìcile tornare indietro»: così il regista in una bella intervista pubblicata dal volumetto Mauro Bolognini tra cinema e letteratura edito dall’Ancii nel 1990.

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In effetti, l’incontro con il futuro regista di Accattone produce un film notevole come La notte brava: «Duro e lucido, sgradevole e sfibrato», scriverà il critico Fernaldo Di Giammatteo su Mauro Bolognini. Il fascino della forma: «L’esperimento rivela in un certo senso Bolognini a se stesso, e conferma le qualità cinematografiche dello scrittore, che per il regista ridurrà nel 1960 II bell’Antonio da Vitaliano Brancati e La giornata balorda da Mora-via. Ma è con La viaccia, tratto dal romanzo L’eredità di Mario Pratesi, che Bolognini - di nuovo prodotto da Alfredo Bini - forse mette a fuoco la propria idea di cine-letteratura: scenografato estrosamente da Piero Tosi e ben fotografato da Leonida
Barboni, il film trasforma la tragica storia del contadino toscano Jean-Paul Belmondo innamorato della prostituta Claudia Cardinale in un esercizio di stile all’insegna di quel gusto decorativo (belle le scene nel bordello) più tardi rimproveratogli.

Risoluto nel tener ferme le ragioni del racconto, anche a scapito di una più densa indagine psicologica-morale, Bolognini si accosta film dopo film a quella «letteratura del malessere» di ambientazione borghese che diventerà una costante del suo cinema. È il caso del rischioso Senilità, da Italo Svevo, e soprattutto di Agostino e la perdita dell’innocenza, ancora da Moravia, dove la ricerca formale si traduce, complice l’impeccabile fotografia in bianco e nero di Aldo Tonti, in uno sguardo sentito e distaccato insieme sui turbamenti del protagonista: il giovinetto che, legato morbosamente alla madre vedova attratta da un uomo, si imbranca in un gruppo di ragazzotti del popolo, scoprendo l’erotismo, la volgarità, i giochi perversi, perfino l’omosessualità.

E un adolescente introverso e sensibile, deciso a farsi prete e poi avviato alla «perdizione» durante una crociera, compare anche nel successivo La corruzione, del 1963, che apre la strada alla stagione degli episodi in chiave di commedia satirica o di costume (Luciana da La mia Signora, Monsignor Cupido da Le bambole, Senso Civico da Le streghe, per fare tre esempi). Ma è sul finire degli anni Sessanta, dopo altri due film di derivazione letteraria - Un bellissimo novembre da Ercole Patti e L’assoluto naturale da Goffredo Parise - che Bolognini azzecca il successo grosso: Metello, fedelmente ispirato al romanzo di Vasco Pratolini, lancia la coppia Massimo Ranieri-Ottavia Piccolo, in una cornice di verismo sociale controbilanciato da una certa stucchevolezza sentimentale.

Squadra che vince non si cambia: e così pochi mesi dopo tocca a Bubù dal romanzo di Charles Louis Philippe, mentre la concitazione politica dei prima anni Settanta (c’è sempre Ranieri in cartellone) si colora di accenti «alla Petri» nel successivo Imputazione di omicidio per uno studente. Ma la contemporaneità mal si attaglia al cinema di Bolognini, il quale, smaltita la delusione commerciale, si rigetta nei prediletti film in costume, pur attraversati da un fremito «politico» in bilico tra malessere esistenziale e ricostruzione d’ambiente: da Fatti di gente per bene a Per le antiche scale, tratto dal romanzo «sulla pazzia» (del fascismo?) di Mario Tobino.

Cineletterato con stimmate d’autore o abile decoratore attento alle sirene del mercato? Il dibattito si riaccende con L eredità Ferramonti, del 1976, che prende spunto dal romanzo di Gaetano Carlo Chelli per raccontare, con inediti toni turpiloquiali, la sconfitta di un’avida donna nella Roma post-unitaria, già corrotta dall’ascesa al potere di una nuova burocrazia. Cast come sempre misto per esigenze di coproduzione (Dominique Sanda, Anthony Quinn e Fabio Testi), costumi sontuosi (di Gabriella Pescucci), fotografia di lusso (di Ennio Guarnieri) tutta su toni marroni. Un successo di pubblico, l’ultimo di Bolognini: perché tale non fu La storia vera della Signora dalle Camelie, con la coppia inattesa Isabelle Huppert-Gian Maria Volonté, seguito nel 1985 dal disastroso La Venexiana, giocoso-sensuale nelle intenzioni, eroticamente algido nei risultati.

Sono gli anni del tramonto, per Bolognini. Ormai ultrasessantenne, il cineasta fatica a intonarsi al mutare dei gusti delle platee, all’imporsi di una nuova scuola di autori, più attenta alla «verità» della messa in scena, alla fedeltà della presa diretta, alla ruvidezza dei temi. Il «narratore borghese» non aveva più una borghesia da raccontare; o forse, semplicemente, non aveva più niente da dire al cinema. Una gavetta nel solco di Zampa e del primo Risi, il confronto con il Pasolini di «Ragazzi di vita» e poi il grande successo con «Metello»

Michele Anselmi, «L'Unità», 15 maggio 2001


2001 05 15 CDS Mauro Bolognini morte intro

«Corriere della Sera», 15 maggio 2001

Foto: Getty Images, lombardiabeniculturali.it


Filmografia

Regista

Ci troviamo in galleria (1953)
I cavalieri della regina (1954)
La vena d'oro (1955)
I tre moschettieri (1956) - serie TV
Gli innamorati (1956)
Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo (1956)
Marisa la civetta (1957)
Giovani mariti (1958)
Arrangiatevi! (1959)
La notte brava (1959)
Il bell'Antonio (1960)
La giornata balorda (1960)
La viaccia (1961)
Senilità (1962)
Agostino (1962)
La corruzione (1963)
La mia signora (1964) - episodi "I miei cari" e "Luciana"
La donna è una cosa meravigliosa (1964) - episodi "Una donna dolce, dolce" e "La balena bianca"
Le bambole (1965) - episodio "Monsignor Cupido"
I tre volti (1965) - episodio "Gli amanti celebri"
Madamigella di Maupin (1966)
Le fate (1966) - episodio "Fata Elena"
Le streghe (1967) - episodio "Senso civico"
L'amore attraverso i secoli (1967) - episodio "Notti romane"
Arabella (1967)
Capriccio all'italiana (1968) - episodi "Perché?" e "La gelosa"
Un bellissimo novembre (1969)
L'assoluto naturale (1969)
Metello (1970)
Bubù (1971)
Imputazione di omicidio per uno studente (1972)
Fatti di gente perbene (1974)
Libera, amore mio! (1975)
Per le antiche scale (1975)
L'eredità Ferramonti (1976)
Dove vai in vacanza? (1978) - episodio "Sarò tutta per te"
Gran bollito (1979)
La storia vera della signora dalle camelie (1981)
La certosa di Parma (1982) - miniserie TV, 6 episodi
La venexiana (1986)
Mosca addio (1987)
Imago urbis (1987) - documentario collettivo
Gli indifferenti (1988) - film TV
12 registi per 12 città (1989) - documentario, episodio "Palermo"
La villa del venerdì (1991)
La famiglia Ricordi (1995) - miniserie TV, 4 episodi

Aiuto regista

Anni difficili, regia di Luigi Zampa (1948)
Campane a martello, regia di Luigi Zampa (1949)
Cuori senza frontiere, regia di Luigi Zampa (1950)
È più facile che un cammello..., regia di Luigi Zampa (1950)
Signori, in carrozza!, regia di Luigi Zampa (1951)
Naso di cuoio - Gentiluomo d'amore (Nez de cuir), regia di Yves Allégret (1952)
Processo alla città, regia di Luigi Zampa (1952)
L'ora della verità (La minute de vérité), regia di Jean Delannoy (1952)
Ho scelto l'amore, regia di Mario Zampi (1953)
Lasciateci in pace, regia di Marino Girolami (1953)

Premi

1960, Pardo d'oro per Il bell'Antonio
David di Donatello 1999 alla carriera

Curiosità

Al regista è stato intitolato un teatro, il Teatro Mauro Bolognini, a Pistoia, sua città natale.
È stato candidato con la Federazione dei Verdi alle elezioni politiche del 1996, nella quota proporzionale della camera, non risultando eletto.

Note

http://www.centromaurobolognini.it/pagine/biografia.htm