Ma si, lo giuro, sono Fellini
Era stato sorpreso all’alba mentre passeggiava lungo i viali di Hollywood per sfogare il suo nervosismo in attesa dell’ "Oscar": prima di convincere i poliziotti di non essere un ladro, Federico Fellini dovette rimanere una buona mezz’ora con le braccia alzate
Roma, aprile
Alla vigilia degli Oscar, Federico Fellini ha corso il rischio di venire arrestato. La polizia di Hollywood s’è interessata di lui. Schiamazzi notturni? Cambiali false? Smercio di stupefacenti? Offese al buon costume? I cineasti non sono refrattari a queste irregolarità. Ma Fellini non è certo tipo di incorrere in simili reati. A meno che. ingordo com’è di nuove esperienze da mettere nel bagaglio dei suoi film, non arrivi a provocare egli stesso, con cura e diligenza, qualche falla nel suo scavo morale per finire in guardina. E, una volta dentro, si sa: tutto dipende dagli incontri. Un mendicante pittoresco, una zitella ubriaca, un ladruncolo possono dargli quelle vibrazioni, quelle suggestioni di cui è avidissimo. A spingerlo nelle braccia accoglienti di due policemen è stata invece una innocente passeggiatina compiuta all’ alba nei viali dove sorgono le sontuose ville di Hollywood. Mezz’ora con le mani in alto sotto la minaccia di una pistola puntata che benignamente voleva persuaderlo a confessare di essere un ladro.
«Se lei è Fellini, io sono Albert Einstein». «Ma si, lo giuro, sono Federico Fellini. quello della Dolce vita!...». Spaurito e disorientato. Federico che dell’inglese non ha una sicura padronanza, cercava faticosamente di convincere i due poliziotti che se si trovava a Beverly Hill non era a scopo di rapina, ma solo per prendere una boccata d’aria. «Se lei è Fellini. lo dimostri!» incalzava il gendarme più agguerrito e, indicando l’altro agente che puntava Fellini alle spalle per impedirgli la fuga, disse: «Lui è Groucho Marx, da cosa lo riconosce se non ha nemmeno i baffi?». E giù una risata al fulmicotone, di quelle che nei film polizieschi fanno venire l’infarto. Rassegnato se non alla galera, almeno al "fermo", Fellini, chiamate a raccolta le parole inglesi più intelligibili del suo magro vocabolario anglo-sassone, riuscì a spiegare che si trovava ad Hollywood per prendere un "Oscar", non per rubarlo. Per far cadere ogni sospetto bastava che lo accompagnassero in albergo. E all’hotel le facce cupe e inquiete dei due poliziotti finalmente si distesero. «Lei Fellini... Perchè non detto subito... Io visto suo film...», presero a dire in un claudicante italiano a quel "ladro" improvvisamente aureolato di un incalcolabile prestigio.
I coniugi Fellini hanno molte cose da raccontare sull'ultimo viaggio negli Stati Uniti dove il regista, per ricevere il suo terzo "Oscar", ha vissuto alcune avventure piacevoli e altre meno. Fra l’altro Fellini non ama i lunghi voli in aereo, come afferma il produttore Moris Ergas che ha viaggiato con lui da Roma a Nuova York. Ergas, al suo ritorno in Italia, si è visto insignito della Commenda al merito della Repubblica.
Contento di trovare degli appassionati perfino tra i poliziotti con quella contentezza celestiale e senza incrinature di cui sono spesso titolari i bambini, Fellini interpretò l’avventura come un buon auspicio per l’Oscar. Gli sembrò un'ipoteca sulla statuetta. Durante la premiazione era così convinto che ce l’avrebbe fatta che si mise a rincuorare gli altri concorrenti i quali in attesa del verdetto mostravano nervosismo ed erano pallidi, tranne il buon Sidney Poi-tier. la cui negrezza è radicale e, in senso vichiano, eroica.
In queste circostanze Federico, per non lasciarsi sopraffare dalla commozione, si attiene a due regole fisse: prendere con leggerezza le cose serie. ridere di se stesso prima che gli altri possano farlo. Quando lo speaker annunciò che l'Oscar per il miglior film di lingua non inglese, andava a Otto e mezzo, le ha applicate a puntino pronunciando al microfono un bel discorso senza gesti da oratore come un giapponese, cui l'etichetta fa obbligo di tenere le mani, parlando. dietro la schiena. Richiamato in servizio attivo il suo dizionario inglese, parlò con accento fluido senza inghippi di dizione. E quando dall'altoparlante sgrondarono, in italiano, un "arrivederci" e un "buona fortuna a Hollywood". gli applausi crepitarono e divennero ovazione. Quel conclusivo vaticinio indirizzato alla mecca del cinema fu un'abile mossa da diplomatico. Nella brigata degli italiani. che erano dodici, più qualche raccogliticcio trovato sul posto, come Virna Lisi e Gina Lollobrigida. tutti si abbracciavano rumorosi e cordiali con qualcosa di goliardico e financo di infantile. Insensibili alle perentorie e disperate segnalazioni di Ruggero Orlando per arrestarli, a gara si sbracciavano verso le telecamere come fanno . i tifosi quando l’obbiettivo li inquadra. Si distribuirono centinaia di pacche sulle spalle.
Tutti tacquero di colpo quando venne il turno della statuetta al miglior attore; molti spensero addirittura la sigaretta. Il momento era solenne perchè per la prima volta negli annali degli Oscar, un attore negro concorreva con ottimi atouts. e tutti erano con lui. «Good luck». buona fortuna. fece Fellini a Sidney Poitier. Segui una pausa gravida di suspense; poi un boato di applausi e di grida salutò il divo di colore che si recava a ritirare il premio. Poitier cercò di non lasciarsi vincere dall'emozione cosi come aveva fatto Fellini. Ma una lacrima scese ugualmente a solcargli il viso senza incrinarne la virile fierezza. Il fazzoletto candido con cui Sidney si asciugò gli occhi fece risaltare ancor più il nero della pelle.
Sinatra come Achille
Imprigionata dalla commozione era anche la gola di Achille, a uscire dalla tenda della sua prevenzione verso gli Oscar, Frank Sinatra aveva minacciato di rientrarvi se Poitier non avesse vinto il premio. Tutto il suo clan, battezzato il clan Kennedy, è stato mobilitato a questo scopo; e che si sia trattato di una serata tutta pro negri e antirazzista l'ha testimoniato il successo degli show interpretati da Sammy Davis jr.
Sincopata dalle interruzioni degli italiani, la premiazione ebbe cosi termine. Solo Fellini e Flaiano. che hanno la commozione docile ai loro comandi. non partecipavano alla generale baraonda. Il maestro Oliviero che sperava di vincere l’Oscar con le musiche di Otto e mezzo, smalti il disappunto. attribuendo la colpa dell'insuccesso al collaboratore Ritz Ortolani, «Un ritocco al suo spartito e ora avremmo l’Oscar».
Un altro tributo al patetico lo versò Natalie Wood. Quando l'altoparlante annunciò che Patricia Neal. e non lei. aveva ottenuto l’Oscar per la migliore interpretazione femminile, pronta una lacrima, accompagnata da un singhiozzo, le segnò il volto. Il marito, che è Cohen, capo della Columbia, estrasse dalla tasca un gioiello e lo mise amorevolmente nella mano della moglie mentre decine di fotografi riprendevano la scena. L’unico ad essere buggerato era lui, il tributo di lacrime che l’Academy Howard ha imposto alla moglie era, in fondo, meno costoso di quello che aveva imposto a lui.
Natalie aveva ripreso, abbastanza prontamente, il controllo dei propri nervi al pranzo che segui la premiazione. Gli italiani si aspettavano una mensa riccamente imbandita; invece per 15mila lire solo un pezzo di roast-beef e un gelato. «La sola nota poco hollywoodiana». mi dice Moris Ergas che mi ha raccontato gli episodi che qui riferisco. Bisboccioni e conviviali, i cineasti rimpiangevano i ravioli di Giulietta, allegramente ribattezzata "Giulietta dei ravioli", e cominciarono lentamente a sfollare sfogando le loro risorse di gaiezza e di festosità in scherzi un po' grevi, ma senza acidità nè cattiveria. Ci furono anche incontri proficui; Sam Spiegel il produttore del Lawrence d'Arabia chiese a Sandra Milo di interpretare un suo film e Sandra si dichiarò disposta.
Vistosi scongiuri
Nel mezzo di una giornata tra amici, passando in rassegna quanto si debba assoluta-mente vedere ad Hollywood, non tarda a farsi udire il nome, un po' frusciante, un po' agreste, un po' sportivo di Forrest Lawn. Tutti se ne entusiasmano e chi l'ha visto diffida a non partire se non dopo averlo visitato. E dichiara con sicura coscienza che fra tutti quanti d’America, e forse del mondo, il più bello, il meglio dotato, e in una atmosfera incomparabile, è Forrest Lawn. E’ un cimitero; e la fama di questa estrema dimora si è talmente diffusa che avvisi e cartelloni vi esortano a prenotare in tempo un posto. «Anche la morte può essere bella», questo è il suo slogan. La pubblicità di Forrest Lawn non parla mai di morte, ma di emergency. Vi sono sale d’attesa e di cordoglio. un salotto appartato per i pianti a dirotto, poi esperti consolatori e delicate consolatrici. chiese di ogni tipo e per qualsiasi rito.
Il consiglio di reggenza di Forrest Lawn è composto di diciotto membri che ogni anno si fanno fotografare a colori in tuniche di seta viola. Questi diciotto reggenti presiedono un affare di una entità cospicua, tutto basato su lunghe rateazioni. Per un colombario (non si dica, per piacere, loculo) con vetri policromi, lucidi marmi. qualche scultura, riproduzione di Canova o di Michelangelo. con musiche diffuse in sordina da invisibili altoparlanti. un reggente chiese a Fellini trentacinquemila dollari. venti milioni di lire, c Le faccio un buon prezzo perchè è lei e noi ci terremmo tanto ad averlo con noi quando Dio vorrà», disse il buon uomo con voce melliflua e aggiunse: c la musica è garantita per cinquecento anni». «Se io non volessi la musica, che a me non piace, mi farebbe uno sconto?». fu la replica di Fellini che non crede alla iettatura ma si comporta come Benedetto Croce il quale pur negandone il potere faceva all'occorrenza vistosi scongiuri.
Preoccupazioni sull'Aldilà ne hanno date i viaggi aerei durante i quali per vincere l’orgasmo Fellini ha insegnato ai compagni un nuovo tipo di gioco di carte, una scopa che lancerà in "Giulietta degli spiriti". «Quando vuoi per un film sull’Aldilà». Questa battuta di Ergas, mentre l’aereo non riusciva a trovare nella nebbia un pertugio che gli consentisse di atterrare a Nuova York, ha fatto andare in bestia Federico che del "sense of humour" è campione e ne fa largo consumo, ma lo perde sugli aerei dove si ricorda di avere avuto in gioventù una certa omertà con le preghiere. Quando è in volo, per lenire l'affanno e la paura, sogna il treno e il tu-tu-tum delle ruote sugli scambi. Non gli è mai piaciuto sperperarsi in lunghi viaggi.
Fellini ha in forma acuta la malattia dell’uomo moderno: la sensazione. Morbo sottile, esaltante come certe febbri leggere, maligne e tenaci. Vi si sprofonda, più disposto a spogliarsi delle proprie ricchezze che a staccare dalla sua vita questa membrana. Nella sensazione trova lo stimolo alla fantasia. Se il suo film che comincerà a girare alla fine di maggio nasce nel riserbo più avaro è perchè non è ancora disposto a incidere con l’intelligenza le sensazioni che ha accumulato. Nella piccola stanza negli studi della Safa Palatino ne sta raccogliendo ancora molte dai tipi che gli si presentano per ottenere una parte in Giulietta degli spiriti.
In questo studiolo dove Federico lavora senza troppo affannarsi, riceve oltre agli aspiranti attori, amici ed amiche. Tra questa folla Fellini si muove come un giovanotto che per darsi tono si sia imbiancato i capelli: quegli esili e radi capelli che spesso lo fanno soffrire. Dalle loro attuali lunghe dimensioni si deduce che Federico è in fase creativa. Anche attraverso i capelli si captano idee, sensazioni, come si captano e si intuiscono le supreme verità dell’arte.
Maurizio Liverani, «Tempo», anno XXVI, n.19, 9 maggio 1964
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Maurizio Liverani, «Tempo», anno XXVI, n.19, 9 maggio 1964 |