Mario Soldati: «ho finito di fare il clown»

1964 07 11 Tempo Evi Marandi f0

Con il suo nuovo romanzo “Le due città", Mario Soldati vuol dare un diverso corso alla sua vita rinnegando tutte le bizzarrie di uomo geniale e curioso sempre alla ricerca di cose nuove. Regista cinematografico e televisivo, giornalista e attore, ha deciso ora di fare solo il mestiere di scrittore

Si entra nello studio di Mario Soldati e ci si meraviglia subito che sia cosi poco simile all'immagine del regista, giornalista e soprattutto attore che in questi anni ci è diventata familiare: quella di un uomo geniale, estroverso, simpatico, istrionesco, qualche volta superficiale, smarrito in cento travestimenti, sempre in agguato sulle cose della vita come un cacciatore mai sazio di bottino. La stanza è tranquilla e riposante, ordinata, ottocentesca, priva di eccentricità. I libri, diligentemente postillati, sono in fila negli scaffali secondo l’ordine alfabetico degli scrittori; i mobili sono vecchi e dignitosi, da avvocato di provincia; le fotografie appese alle pareti rivelano le immagini del padre, bizzarro, vestito di bianco, sorridente mentre abbraccia la moglie tra gli alberi di un giardino, con un berrettino da ciclista sul capo, e quelle delle vecchie zie, dei parenti e del nonno materno, Giuseppe Bargilli, scrittore toscano e ufficiale dei bersaglieri. Sopra un cassettone è posato il ritratto di uno zio, generale di Vittorio Emanuele II, con la sciarpa azzurra e le decorazioni della festa dello Statuto. E in un angolo — ed è l’unico oggetto che può sembrare stravagante — c’è una sciabola d’ordinanza, quella del nonno Bargilli. Poi, accanto a un leggio, proprio sopra la macchina per scrivere, è appeso un plastico del Piemonte, verdino e marrone, con le montagne che spuntano dalle pianure simili ai polpastrelli di un gigante, e i fiumi e i torrenti che corrono tra i paesi e le città.

Non c’è un ricordo del mondo del cinema o della televisione; manca anche una sola immagine del Soldati regista, attore, intervistatore televisivo "alla ricerca dei cibi genuini". Qui dentro, in questa stanza della Milano più chiusa e aristocratica, c’è posto solo per il Mario Soldati scrittore, l’unico che sia sempre rimasto fedele a se stesso e che non abbia mai bluffato. E ognuna delle fotografie appese alle pareti, ogni oggetto, ogni mobile fa parte del suo più rigoroso, segreto e geloso mondo poetico, che ha le sue radici nella terra dov’è nato, proprio tra gli alberi dove suo padre, col berrettino da ciclista in testa, abbracciava sua madre, nel Piemonte verdino e ondulato del plastico.

Anche Soldati, oggi, mi sembra diverso e sono sicuro che questa volta non gioca a far l’attore. Deve parlarmi di sè e del suo nuovo romanzo "Le due città", appena uscito da "Garzanti". ed è guardingo, prudente: ha fatto tanta fatica a scriverlo — finalmente ha fatto fatica — e lo difende coi denti, attento a non rovinare tutto per il gusto di una battuta, di un paradosso. E’ vestito con normalità — non ha neppure quei suoi pantaloni tirati su fino al torace —, parla tranquillamente, sembra incredibile che quest’uomo quieto sia il regista urlante che vuol stupire, l’intervistatore aggressivo e qualche volta ridicolo che riempie di sè lo schermo e parla parla, agitato e febbrile.

1964 12 09 Tempo Mario Soldati f1Lo scrittore fotografato in vacanza a Tellàro, un paese vicino a Lerici, con la moglie Giuliana e i tre figli: da sinistra, Giovanni, Michele e il primogenito. Wolf, che ha diciotto anni e frequenta la seconda liceo. Soldati è nato a Torino nel 1906. si è laureato in lettere con una tesi di storia dell’arte, ha vissuto due anni a Nuova York, si è poi stabilito a Roma dedicandosi alla regia cinematografica. Ha diretto una cinquantina di film tra cui "Piccolo mondo antico e "Fuga in Francia".

Si toglie gli occhiali, se li rimette, mi osserva con uno sguardo malinconico, ogni tanto — ed è l’unico "tic" che fa ricordare il Soldati di sempre — si alza dalla sedia, cerca qualcosa, si risiede e un minuto dopo è di nuovo in piedi, smarrito tra le sue cose, con gli occhiali sulla fronte che sembrano le lampade di una barca alla deriva.

Il suo nuovo romanzo racconta, dall'infanzia alla morte, la storia di Emilio Viotti, torinese, nato in una famiglia di piccola nobiltà, nel 1900. Il piccolo Emilio cresce sullo sfondo della guerra di Libia e della Grande Guerra. La sua famiglia è benpensante, conservatrice: la villa di Rivoli, dove abita, è popolata dalle ombre del padre, avvocato erariale, della madre un po’ snob, delle prozie, "magna Vittoria" e della ricchissima "magna Elisa", degli zii e dei cugini, tutti ancorati a ciò che nella tradizione vi è di più meschino e chiuso. Compagno di Emilio è Piero Giraudo: figlio di operai saprà aprire all’amico nuovi orizzonti politici e umani. Le loro vite correranno parallele, fino al tragico epilogo, in un costante contrappunto di gioie e di dolori. Emilio, studente universitario, si lega a Veve, una ragazza del popolo, bella e "vera", e ne nasce un’amicizia amorosa, tenerissima e profonda, che farà anch’essa da contrasto alle passioni senza splendore che riempiono il romanzo. Per il protagonista che vede in quell’amore lontano un motivo di salvezza e di riscatto, il ricordo di Veve è ossessivamente dolce, tenero. Sono i tempi delle squadre d’azione. della marcia su Roma, del delitto Matteotti, ricostruito puntigliosamente e interpretato con commozione e dolore grandissimi. Emilio, ormai, è lontano da Torino, la città integra: si è trasferito a Roma, la città corruttrice, si è sposato, non certo per amore, lavora nel cinema, è diventato ricco e potente, quotidiano protagonista di intrighi e di compromessi, complice di un mondo che in fondo al cuore disprezza. La capitale è per lui una torta marcia, è corrotta, inabitabile, fonte di tutti i mali. Piero muore travolto da un’orribile malattia. Emilio muore assassinato, in una specie di terrificante nemesi, colpito a rivoltellate da una delle sue tante amanti.

«Mi pare un libro pieno di vita — gli dico. — Disperato. Ogni uomo, soprattutto se appartiene alla sua generazione, può trovarvi dentro tanta parte di se stesso». Soldati si alza dalla sua sedia e mi stringe la mano felice e commosso, poi prende a discorrere, come una mitragliatrice, e parla solo del libro, che gli è costato cinque anni di lavoro e lunghi periodi di solitudine. «Per scrivere un libro sulle due città, Torino e Roma — gli dico — ha dovuto sceglierne una terza, Milano».

«Sì, sì — risponde: — se io rimanevo a Roma non avrei resistito alla tentazione di fare un altro film e non avrei mai scritto il libro. E poi dovevo scappar via da Roma: quando sentii i miei figli parlare in romanesco mi diventò insopportabile».

«Parliamo del suo romanzo — gli dico ora. — In che cosa si differenzia dagli altri suoi libri?».

Soldati si concentra, pensa a lungo prima di rispondere. sembra uno scolaro davanti al foglio bianco del componimento.

«Ecco — dice. — Mi sono divertito meno. Non ho congegnato nessun gioco. Quando scrivevo gli altri libri preparavo una "scaletta", una specie di sceneggiatura, e la seguivo senza fatica, rapidamente. Nelle "Due città" solo i ricordi mi son serviti da traccia. Credo si differenzi molto dagli altri miei libri. Mi sembra un romanzo non solo scritto, ma anche sottoscritto dall’autore. Ho detto quello che pensavo. Il mio è anche un libro didascalico».

«E’ d’accordo con Guido Piovene che ha definito il suo libro un romanzo ottocentesco di stampo italiano?».

«Il mio libro è ottocentesco nella struttura esterna. Ma nella sua realtà mi pare un romanzo espressionista. Basta vedere gli attacchi di ogni capitolo. "Il Gattopardo" mi è stato utilissimo a creare un’angolazione, a racchiudere in blocchi la vicenda, che è veramente simile a un fiume. La storia doveva sempre far da sfondo, ma dovevo evitare la cavalcata storica: il delitto Matteotti, ad esempio, mi è costato una grossa fatica di documentazione. Ma per me è la chiave di tutto il fascismo. rappresenta la crocifissione della vita italiana. Mi pare di averlo spiegato bene, anche ai giovani che non sanno nulla. E mi piacerebbe esser riuscito a far capire che cos’era la borghesia, completamente incapace di assumere una coscienza civile».

«Se si esclude la parte del delitto Matteotti, il fascismo nel suo libro — gli dico adesso — mi pare sentito un po’ accademicamente, più come fatto di costume che come fatto morale».

«Sì, certamente — dice Soldati. — Ma la colpa è del mio protagonista. Dopo il delitto Matteotti, Emilio Viotti scivola verso l’inerzia morale, cercando continuamente di nascondere a se stesso la complicità verso cui, con le sue azioni, precipita fatalmente».

«Quando sono nate in lei le lucide e poetiche pagine sulla sua città natale?».

Soldati si riscalda, prende a girare per la stanza, guarda la sciabola del nonno, il plastico del Piemonte, le fotografie incorniciate. poi, con quella sua voce che sembra uscita da un megafono, grida quasi: «Da sempre, da sempre. Da quando sono andato via da Torino. Viotti è un uomo esiliato dai propri ricordi più belli, dalla propria fanciullezza, dalla propria giovinezza. Il segreto della vita consiste nel rimaner fedeli ai nostri ricordi più belli e lui era infedele».

«II suo è un libro autobiografico?», gli domando. Dall'altra stanza si sentono i suoni di un pianoforte. Scivolano con dolcezza qui dentro, fanno come da colonna musicale alle parole dello scrittore che sta cercando un libro negli scaffali.

«Eccolo», dice. E’ "Se il grano non muore" di Gide. Me ne mostra una pagina, mi indica le righe e mi segue ansioso mentre sto leggendo: c Le autobiografie non sono mai sincere del tutto, per quanto grande sia il desiderio di verità. Tutto è sempre più complicato di quello che si dice. Forse, addirittura, ci si avvicina di più alla verità nel romanzo».

Soldati mi osserva soddisfatto: «Sì, naturalmente — dico. — Nel suo libro ci sono molti personaggi ritratti dal vero?».

Lo scrittore si è subito incupito, apre un cassetto, ne estrae una fotografia: «Guardi — dice. — Questo è il Piero del romanzo. E’ esistito veramente, ho cambiato solo il nome. E' morto come nel libro. E il produttore Ponti al quale ho dedicato "Le due città" fu per lui un vero amico, come il Viotti delle "Due città"».

«Lei è molto diverso da Viotti?», gli chiedo.

«Si — dice. — Viotti è meno intelligente: arriva quasi alla coscienza, ma non è cosciente; non ha ambizioni artistiche. Questo romanzo non racconta la verità sulla mia vita, ma esprime il senso della mia vita».

«Adesso — gli dico — non parliamo più del libro, ma di lei. Che cosa pensa dei critici?».

«Penso che i critici dovrebbero fare solo i critici. Ed essere duri, ed avere il coraggio di sbagliare. Come G. A. Borgese, Cajumi e Pancrazi».

«Lei ha fatto un'infinità di cose, troppe: cinema, televisione, giornalismo. Questo suo libro è assai più serio e vero di tutto il resto. Quelle cose le ha fatte solo per mascherarsi, o per provare? Lei ha corso anche il rischio di diventare una macchietta, ha fatto il clown».

1964 12 09 Tempo Mario Soldati f2Soldati nel suo studio a Milano, la città dove abita da due anni. Le più importanti operi letterarie di Soldati sono "America primo amore" "A cena col commendatore", "Le lettere da Capri", "Il vero Silvestri", "La messa dei villeggianti". E’ autore di due inchieste televisive.

«Per questo ho lasciato Roma. Il cinema e la televisione sono cose di prima, cose vecchie. Adesso sono solo uno scrittore. Ma ho qualche giustificazione: quando tomai dagli Stati Uniti nel 1931 e scrissi "America primo amore" non trovai nessun grande giornale che mi desse da campare: io ero rigorosamente antifascista.

Cercai di vivere con piccole collaborazioni. Ma non ci riuscii. Io volevo vedere il mondo, gustare la vita, incontrare donne. E scelsi il cinema. E mi ci impelagai. Poi venne tutto il resto, ma solo per motivi economici».

«Ora ha cinquantotto anni. Li immaginava così?», gli chiedo. E lo scrittore, con un'aria ispirata risponde: «Io ringrazio Dio e la Provvidenza di aver avuto più di quanto abbia meritato. Sono felice, per questo».

«Quali sono i suoi autori?», domando.

«Leopardi — risponde sicuro lo scrittore. — Io leggo "Le ricordanze" come un libro di preghiere. Ecco, vede, ce l’ho sempre a portata di mano». E me lo mostra, una piccola edizione rilegata in pelle comprata su una bancarella sotto i portici di Torino quarant’anni fa.

«Gli altri scrittori che amo — seguita Soldati — sono l’Ariosto, Baudelaire, Cecov, Flaubert, James, Stevenson, Stendhal. E poi Svevo, Green, Noventa. E fra gli autori di oggi mi piacciono molto Bassani e Moravia. Arbasino mi diverte. Gadda mi interessa, ma pagina per pagina, a piccole dosi».

Ormai è sera. I tre figli di Soldati sono rientrati a casa. Si sentono, lontane, le loro voci: Giovanni è reduce da una passeggiata coi compagni: Michele ha giocato una partita al pallone; Wolf, il più grande, è andato a caccia, «Coi miei figli riesco ad essere amico», dice Soldati. Ha perso un po’ quell'innaturale aria di riccio che butta fuori le spine per difendersi, è tranquillo, amabile, sorridente.

«Perchè — gli chiedo — come Presidente della Giuria del Festini cinematografico di Venezia ha avallato gli equivoci della sottocultura del film di Antonioni?».

«No, no — dice Soldati. — Come si fa a rispondere? Antonioni ha qualcosa in corpo, è capace di esprimere delle illuminazioni, è un poeta, insomma. Sono i nessi razionali del film a sembrarmi inadeguati».

E’ inquieto, silenzioso, ha buttato fuori di nuovo le sue spine e, quasi a proteggersi meglio, ha indossato sul gilè un pullover soffice e blu. Si capisce che non dice la verità. A guardarlo cosi imbarazzato mi viene in mente Emilio Viotti turbato per i suoi compromessi negli anni del fascismo.

Adesso Soldati parla come a se stesso. In piedi vicino alla scrivania, con nelle mani il libriccino delle "Ricordanze", sembra un padre gesuita chino sul breviario, «Io lavoro a tutte le ore — dice — in tutti i posti dove mi trovo. Mi alzo presto al mattino, mi piace la campagna, mi piace la solitudine».

Mi guarda e sorride, «Andiamo di là — aggiunge. — E’ ora di pranzo: i miei figli avranno certamente qualcosa da chiedermi».

Corrado Stajano, «Tempo», anno XXVI, n.50, 9 dicembre 1964


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Corrado Stajano, «Tempo», anno XXVI, n.50, 9 dicembre 1964